Il seguente testo è tratto dal catalogo della mostra, pubblicato da Silvana Editoriale e acquistabile online sul sito della casa editrice www.silvanaeditoriale.it
Bartholomew F. Bland
L’età dell’incertezza: fantasia e immaginazione nell’arte americana
Oggi gli artisti, giovani e meno giovani, usano l’arte non come strumento di cronaca e di partecipazione alla dimensione sociale, ma come via di fuga dal caos e dall’indifferenza che vedono nel mondo circostante. Voltare le spalle alla realtà per crearne una diversa, più attraente, solitamente di fantasia e soprattutto controllabile, riflette una tendenza artistica molto forte negli Stati Uniti di oggi. Anche se molti artisti americani contemporanei lavorano sulla documentazione della realtà sociale esistente, molti altri stanno portando avanti visioni artistiche completamente diverse. È su queste ultime che la mostra “American Dreamers” si incentra, nel tentativo di indagare le motivazioni che le ispirano.
Gli Stati Uniti sono oggi di fronte a sfide aperte alla loro egemonia in campo economico e militare, e hanno visto ridurre la propria influenza rispetto a quella esercitata dalla Seconda Guerra Mondiale fino agli anni Novanta, quando il Comunismo è crollato. La preoccupazione legata alla perdita di questo status privilegiato si sta adesso diffondendo dall’America a tutti i Paesi del mondo occidentale, esasperati dalle crisi economiche e dalla straordinaria crescita dei Paesi in via di sviluppo.
Con l’avanzare del XXI secolo, nel mondo dell’arte americana la fuga nella dimensione del fantastico si sta affermando sempre più come una tendenza precisa. Ne troviamo traccia nella lavorazione artigianale di certe opere, nella miniaturizzazione delle immagini, nella crescita del linguaggio figurativo di carattere sovrannaturale e religioso e in un sentimento potente ma piuttosto semplificato che abbraccia le idee universali di bene e male, amore e odio. Sebbene quest’arte evochi spesso e lasci emergere un sentimento di gioia, essa riflette anche un profondo disagio nei confronti del futuro.
Per certi artisti, un mondo di fantasia non è nient’altro che uno strumento di critica alla società contemporanea. Altri, faticando a dare un senso alla realtà, trovano più facile crearne una alternativa e poi fare i conti unicamente con quest’ultima. Rompere psicologicamente con la realtà o creare una magnifica realtà alternativa rappresenta per loro una possibilità di azione.
Quali sono le paure che ispirano questa loro fuga? L’assenza di prospettive lavorative, un pessimismo economico assai radicato, previsioni apocalittiche per l’ambiente che ci circonda, sono tutti elementi minacciosamente “reali”nel nostro mondo, che spingono molti a cercare un riparo nella dimensione del fantastico. Il grado di complessità della nostra società fa sì che i cittadini si scoprano spesso incapaci di elaborare soluzioni per le problematiche sociali, e dunque la fuga in mondi controllabili e tratteggiati da loro stessi appare come una valida alternativa. L’equilibrio tra il mondo reale e quello artistico si sbilancia in direzione della fantasia, chiave di accesso a una dimensione nella quale è possibile avere il controllo completo delle proprie vite. Il desiderio che oggi è proprio di molti artisti adulti di creare mondi e realtà alternative è stato per lungo tempo caratteristico dell’infanzia. Ciò che contraddistingue il travolgente successo popolare dei romanzi di Harry Potter, o l’attuale ossessione americana per i vampiri, è il fatto che l’immersione nella dimensione del fantastico non è patrimonio unicamente dei giovani, ma attira anche gli adulti, tramite ogni forma immaginabile di strumento digitale, in un mondo ricco di elementi fantastici.
Il desiderio di creare una realtà dai confini ben definiti, un mondo che possa essere controllato e manipolato dal punto di vista creativo, ha dato origine a due indirizzi diversi: il primo è basato sull’idea di un guscio, un rifugio sicuro e finemente decorato; il secondo è legato alla creazione di elementi grandiosi per dar vita a un’intera società di fantasia. In entrambi i casi, le realizzazioni materiali che prendono spunto da queste due idee sono fortemente legate a una componente
manuale e artigiana, che in molti casi rappresenta un rifiuto implicito dei prodotti industriali del
mercato di massa e della globalizzazione. La serie di opere di Christy Rupp Extinct Birds Previously Consumed by Humans (Uccelli estinti, già consumati dagli uomini), composta tra il 2004 e il 2007, rappresenta una critica caustica e ironica alla distruzione della fauna selvatica e all’allevamento intensivo. Quest’ultimo, criticabile sia dal punto di vista ecologico che da quello etico, è responsabile del consumo di massa di carne animale da parte di un numero crescente di esseri umani. La capacità dell’artista di creare dei falsi scheletri, prendendo spunto da statistiche drammatiche sul numero di specie animali scomparse, combina perfettamente la critica sociale con la creazione di un mondo macabro ma più attraente di quello reale, producendo un risultato comico ma non privo di un contenuto profondo.
La rottura con la dimensione del reale, che permette di sfuggire alle pressioni della società contemporanea, può essere semplicemente il frutto della complessità della vita moderna. La gente è schiacciata da una mole tale di informazioni e di aspettative pressanti, legate alla necessità di essere informata su qualunque argomento, che tutto ciò può diventare opprimente. In un mondo di fantasia non esistono simili aspettative. Il desiderio di semplicità e isolamento, tipico dell’arte romantica, è divenuto universale in un’epoca profondamente non romantica; esso è una caratteristica comune a ogni generazione, che si realizzi nella ricerca della bellezza pura e semplice, nell’edonismo o nel fondamentalismo.
Un mondo fantastico interiore spesso rappresenta una possibilità di conforto, che esprime bene il desiderio crescente della classe media americana di rifugiarsi in un guscio sicuro, al riparo dalle problematiche della realtà. Questa tendenza è stata ben documentata (sopratutto da Faith Popcorn nei primi anni Novanta) e risale al rapido popolamento delle periferie urbane che avvenne negli Stati Uniti durante gli anni Cinquanta, quando la classe media bianca volle fuggire dai problemi che affliggevano i centri cittadini per godersi una vita agiata che permettesse di avere il controllo sulla casa e sulla famiglia. Il risultato più comune di una simile linea di pensiero è una deliziosa forma di miniaturizzazione che si può apprezzare nelle opere di artisti come Patrick Jacobs, che David McFadden chiama “piccole realtà” (McFadden 2010).
A interpretare fedelmente l’idea del guscio è Nick Cave, i cui Soundsuits (Abiti musicali) danno vita a un ambiente del tutto isolato, un rifugio ideale dalla realtà. Abiti incredibilmente diversi per forma, colore e proprietà cinestetiche contribuiscono a isolare dalla realtà chi li indossa. Tramite delle proiezioni musicali, essi agiscono su due livelli: la persona che indossa l’abito viene isolata dalla realtà mentre, per chi osserva, gli abiti creano una panoplia di figure magiche che fanno pensare a creature fantastiche o ad antichi rituali dal significato oscuro.
La creazione di un insieme surreale di rituali celebrativi può essere apprezzato nell’opera di Laura Ball Mandala I (2011). I suoi acquerelli mettono insieme immagini surrealiste e forme simil-religiose che alludono a società fantastiche, ciascuna dotata di un suo particolare significato.
Richard Deon, seguendo la prospettiva di un revisionismo storico del tutto particolare, crea delle storie americane personali e uniche, come Storytown (2007), usando immagini estratte da libri di testo americani degli anni Cinquanta, caratterizzati dal trionfalismo tipico di quella età dell’oro. Le immagini dei politici di quell’epoca rappresentano un monito nostalgico, ci ricordano l’America di quegli anni come una sorta di Eden prima della caduta, un’epoca di unità culturale e di crescita economica, e spronano il Paese a lottare per tornare a un’età simile. Deon estrae le immagini e crea a partire da esse degli eventi storici basati sulla realtà ma sviluppati in chiave fantastica.
I piccoli oggetti realizzati minuziosamente dall’artista Thomas Doyle in opere come Acceptable Losses (Perdite accettabili, 2008), danno vita a società esemplari dal punto di vista dell’ordine e del controllo sociale, inserite in mondi sotto campane di vetro. Ma all’interno di queste realtà è in agguato il pericolo. Doyle mette spesso in scena un cliffhanger, raffigurando il momento immediatamente precedente all’esplosione del caos, come nel caso di una classica villetta americana sospesa nel vuoto; in altre occasioni a essere rappresentato è il momento immediatamente successivo a un disastro, e lo sconvolgimento di un ordine altrimenti perfetto. Sebbene le sue opere esprimano spesso una paura incombente, possono essere lette in una prospettiva più positiva come una sfida alla gravità, come nel caso di una casa che danza sopra la propria tomba. I lavori di Doyle riescono a isolare, e in tal modo a esorcizzare, un vaso di Pandora di paure sociali. Lo studioso John Mack ritiene questi microcosmi così irresistibili da chiamarli “versioni circoscritte e precise di universi più grandi, o incredibilmente più grandi” (Mack 2007).
Al contrario i diorami idealizzati dell’artista Patrick Jacobs, composti da cerchi magici e denti di leone, rappresentano un’incarnazione positiva del desiderio di creare un perfetto mondo in miniatura. All’interno di questi cerchi incantati non si troverebbero fuori posto i personaggi di Titania e Oberon di Sogno di una notte di mezza estate, così come li ha rappresentati l’artista vittoriano Arthur Rackham. Il fascino dei modelli è eterno: Ralph Rugoff sostiene che “proprio perché i diorami non rappresentano più una novità stupefacente dal punto di vista tecnologico, essi hanno assunto per chi li osserva lo status metaforico di un modello”, mantenendo la loro importanza grazie alla natura del loro gioco di luci e colori (Rugoff cit. in McFadden 2010).
Sia i lavori di Kirsten Hassenfeld che quelli di Mandy Greer pongono l’accento sulla dimensione manuale e artigiana della realizzazione. L’opera di Hassenfeld Star upon star (Stella su stella, 2011), illuminata dall’interno e posta in una sala buia, sviluppando una serie di strutture architettoniche di fantasia, evoca un universo lontano. Mentre Hassenfeld lavora con la carta, Mandy Greer crea manualmente un mondo fantastico di lampadari di stoffa. La semplicità dei materiali da lei utilizzati non svaluta la pienezza del loro impatto all’interno di un’installazione, come nel caso di un’inquietante sala da ballo in fiore dai contorni sovrannaturali. L’artista riesce a combinare un’impronta delicata con un’accentuata sensibilità gotica. I lampadari, avvolti da filamenti simili a tralci d’uva, creano un’atmosfera decadente che è comune tra gli artisti della mostra “American Dreamers”. Greer dà vita con la sua installazione a un ambiente onirico in cui gioia e meraviglia celano sfumature inquietanti.
I dipinti murali in grandi dimensioni di Adam Cvijanovic, realizzati su misura per location specifiche, presentano l’immagine di una periferia urbana americana perfetta, e sottolineano la persistente centralità della casa nel linguaggio artistico statunitense, mettendo in luce i pericoli a cui questa fragile struttura si trova esposta. Le sue opere raffigurano la casa sia in un contesto tranquillo che all’interno di un vortice in cui gli oggetti quotidiani sono scagliati ovunque. All’interno di queste immagini viene posta in evidenza la relazione tra il concetto di “abitazione” e quello di “casa”. Mentre il primo fa riferimento semplicemente a una struttura architettonica, il secondo racchiude un intero mondo di speranze e aspirazioni, ed è proprio quest’ultimo concetto, alla base del sogno americano, che è stato seriamente messo in discussione negli ultimi quattro anni da un’ondata senza precedenti di pignoramenti e bancarotte.
Le opere di Will Cotton come Cotton Candy Katy (Katy zucchero filato, 2010), caratterizzate da riferimenti a Tiepolo, traggono invece ispirazione dalla pittura francese del Settecento, dalle raffigurazioni di pin-up realizzate da Alberto Vargas negli anni Cinquanta del Novecento e dalle immagini tipiche dell’era del consumismo. In Consummation of Empire (La consumazione dell’Impero) edifici fatti di zucchero e dolciumi fanno riferimento direttamente alla celebre serie di opere The Course of Empire (Il corso dell’Impero) dell’artista americano del XIX secolo Thomas Cole, che già intorno al 1830 metteva in guardia sul possibile esito drammatico delle ambizioni imperialistiche americane. Per quasi duecento anni, la preoccupazione del declino dell’America ha costituito una forma di influenza diretta sull’arte statunitense.
Non tutti gli artisti lavorano sulla rappresentazione dell’intera dimensione sociale. È infatti la persona a essere al centro delle fotografie di donne, sospese in apparente assenza di gravità, realizzate da Adrien Broom (che condivide con Cotton dei riferimenti alle opere di Tiepolo). Il desiderio di queste figure di sfuggire ai freni razionali, raggiungendo uno stato di grazia, è assolutamente palpabile. Sebbene le donne nelle immagini di Broom siano caratterizzate da una sensualità decadente, in opere come Rapture (Estasi, 2010) le figure femminili sono colte in uno stato di abbandono interiore o di estasi, che sembra richiamare la paura della classe media di sprofondare nell’età dell’incertezza, una paura che il critico Barbara Ehrenreich già notava all’inizio degli anni Novanta.
Lo scenario economico e sociale americano degli ultimi anni, durante i quali sono state realizzate le opere presentate nella mostra “American Dreamers”, è stato del tutto imprevedibile. Come la regina Elisabetta II d’Inghilterra, che una volta indicò il 1992 come annus horribilis per la famiglia reale, un anno nel quale si succedettero tutta una serie di disgrazie, buona parte del mondo si è trovata sotto assedio. Per gli Stati Uniti, una volta patria di un ottimismo smisurato, questa novità rappresenta qualcosa di sconvolgente. L’America sembra perdere progressivamente la propria eccezionalità e gli americani non sono più così ottimisti riguardo al loro futuro, sia dal punto di vista personale che da quello dell’intero Paese.
Sebbene la crisi abbia colpito buona parte del mondo, il declino economico degli Stati Uniti sembra avere radici più profonde. Secondo l’economista Joseph E. Stiglitz “Negli Stati Uniti ci sono 6,6 milioni di posti di lavori in meno rispetto a quattro anni fa. Circa 23 milioni di americani che vorrebbero avere un’occupazione a tempo pieno non riescono a trovare lavoro […] gli stipendi stanno diminuendo” (Stiglitz 2012). Nonostante lo sviluppo economico dei ruggenti anni Ottanta, il boom legato a internet negli anni Novanta e la bolla immobiliare tra il 2000 e il 2008, che hanno permesso a molti di arricchirsi, l’equilibrio nella distribuzione della ricchezza sembra sempre meno presente. La sperequazione sociale non è mai stata così ampia dalla Gilded Age, l’età compresa tra la Guerra Civile (1861-1865) e la Prima Guerra Mondiale (1914-1918) (Deprez e Homan 2011). Il fatto che l’attuale soglia di povertà sia calcolata al 15% significa che 46 milioni di americani vivono al di sotto di essa, e molti di questi sono bambini (Kiviat 2011). I ritratti glamour della minoranza dei più fortunati, realizzati da Will Cotton, esprimono bene la consapevolezza di vivere in una nuova Età dell’oro.
Gli stipendi delle tute blu, nonostante l’adeguamento all’inflazione, sono in calo sin dagli anni Settanta, e sono più bassi adesso rispetto a quarant’anni fa (Greenberg 2005). Questo problema può essere imputato alla crisi dell’industria automobilistica, che ha avuto effetti pesanti specie negli stati in cui essa rappresentava uno dei principali motori dell’economia. Detroit, che da anni conosce una pesante crisi, è il quartier generale della cosiddetta “Rust belt” (la cintura della ruggine), un’espressione dispregiativa con cui vengono indicate le città del Midwest che hanno perso la loro base manifatturiera, finendo preda della recessione. La stessa Detroit ha rappresentato un “canarino in una miniera di carbone”, un campanello d’allarme che metteva in guardia sull’ondata di disoccupazione che avrebbe investito gli Stati Uniti (Linsky 2011). Molti americani finiscono oggi per ritrovarsi nella celebre frase che Lewis Carroll fa pronunciare alla Regina di Cuori in Alice nel paese delle meraviglie: “Ora, qui, per restare nello stesso posto è necessario correre più veloce che puoi. Se vuoi arrivare da qualche parte, devi correre due volte più veloce!”.
Per ampie fasce della popolazione non è più possibile vivere con un unico stipendio in famiglia, e con l’aumentare dei divorzi e del conseguente numero di single il tasso di povertà continua a crescere. L’attuale crisi economica ha esasperato il problema, e col tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 9% su scala nazionale e ancora più in alto negli stati maggiormente in difficoltà, la situazione rimane piuttosto grave. La crisi economica tutt’ora in crescita che sta divorando l’Unione Europea contiene in sé i germi di potenziali ulteriori problematiche per gli Stati Uniti.
Un altro elemento che contribuisce a generare un senso di spaesamento è la cosiddetta “guerra al terrorismo”. Gli Stati Uniti, territorialmente più estesi delle loro controparti europee e isolati geograficamente dal resto del mondo, sono stati al riparo fino agli anni Novanta dalle crescenti azioni politiche aggressive portate avanti da singoli individui o piccoli gruppi. Per quanto l’attentato al World Trade Center del 1993 rappresentasse un evento drammatico, non riuscì a minare il senso generale di sicurezza che pervadeva gli Stati Uniti. Né ci riuscì l’attentato del 1995 al Federal Building di Oklahoma City, nel momento in cui fu accertato che a realizzarlo era stato un cittadino americano frustrato. Questo senso generale di sicurezza è stato spazzato via dagli eventi dell’undici settembre, che non solo hanno portato alla morte di oltre 3000 persone, ma sono sfociati in due guerre apparentemente infinite, vaghe negli obbiettivi e assai dispendiose dal punto di vista economico. Todd S. Purdum sostiene che l’enorme sviluppo dell’industria bellica e i costi che essa comporta hanno condotto gli Stati Uniti a una situazione di sovra-armamento, nella quale le priorità della spesa pubblica sono totalmente sbilanciate e mancano le risorse economiche per far fronte alle difficoltà interne al Paese (Purdum 2012).
Al tempo stesso l’America ha dovuto pagare per queste guerre: la bolla immobiliare dei primi anni 2000 e la sua esplosione nel 2008 hanno avuto un effetto enorme e duraturo sull’economia, specialmente in quegli Stati dell’area sud-sud ovest del Paese come California, Nevada, Arizona e Florida dove i prezzi delle case avevano raggiunto livelli vertiginosi, finendo per influenzare anche il resto del Paese (Florida 2009). Le abitazioni in bilico su fondamenta instabili, realizzate dall’artista Thomas Doyle, rappresentano una metafora del pericolo al quale molti proprietari di casa si trovano oggi a far fronte.
L’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti nel 2008 ha rappresentato un evento elettrizzante per molti americani, ponendo fine a una lunga storia di conflitti razziali con l’ascesa di un afroamericano alla Casa Bianca. In larghi settori della popolazione albergava la speranza e il Paese guardava al nuovo, giovane leader fiduciosa di poter uscire dal pantano economico. Ciò nonostante l’azione del Governo è andata incontro a un’impasse, la situazione economica non è migliorata e buona parte di quella speranza è svanita, tramutandosi in rassegnazione (Wallace-Wells 2011).
Poiché gli Stati Uniti hanno un welfare state assai più leggero di quello della maggior parte dei Paesi europei, la crisi ha fatto molte più vittime. Poiché l’autosufficienza economica è un concetto chiave all’interno della società americana, molte persone, specie della classe media, sono sconvolte dalla propria incapacità di trovare un lavoro. E anche quando ci riescono, il loro stipendio non è paragonabile a quello che riscuotevano prima, specie considerando che i benefit destinati agli impiegati sono ridotti all’osso. Negli anni Settanta, il presidente Jimmy Carter fu duramente criticato per il suo discorso sullo spirito americano e il malessere del Paese, e per le sue considerazioni sugli elementi di cui la società americana sarebbe stata carente. Eppure oggi le sue parole sembrano incredibilmente attuali. Il consigliere di Carter, Pat Caddell, sosteneva che dopo quindici anni in cui si era assistito all’assassinio di Kennedy, alla guerra del Vietnam, allo scandalo Watergate e al progressivo declino economico, gli americani soffrivano di una generale “crisi di fiducia”. Tali parole sembrano applicarsi bene alla situazione odierna, tanto che non rappresenta una sorpresa il fatto che un recente studio affermi: “la felicità sta diminuendo” (Bosker 2011).
A metà del 1994, il North American Free Trade Agreement (Accordo nordamericano per il libero scambio) fu approvato con accordo bipartisan dall’amministrazione Clinton e dal Congresso a maggioranza repubblicana; sebbene questo provvedimento portasse dei benefici a determinate industrie, finì per danneggiarne altre. Un risultato fu l’aumento della concorrenza tra gli agricoltori statunitensi e quelli del centro America. Un altro fu l’accelerazione del processo di delocalizzazione produttiva, specie verso il Messico, una tendenza che era cominciata ben prima di allora e che ha contribuito a tenere bassi gli stipendi delle tute blu.
Persino durante l’attuale crisi economica, le classi salariate sono state colpite più duramente delle altre. La porzione di ricchezza nazionale nelle mani dei più abbienti è cresciuta, in gran parte in seguito al tanto dibattuto taglio delle tasse per i più ricchi. A subire maggiormente gli effetti della crisi sono stati i giovani, i membri delle minoranze etniche e i giovani veterani dell’esercito (Haynie e Neary 2011). La recessione ha avuto effetti nefasti sui risparmi di coloro che erano vicini alla pensione, quando la Federal Reserve, che gestisce la politica monetaria degli Stati Uniti, ha ridotto i tassi di interesse per aiutare la crescita economica. Tale provvedimento ha colpito in particolar modo i risparmiatori, che in generale hanno un’età media piuttosto elevata. Per molti anni, il tasso di risparmio dei cittadini americani è stato molto basso (Associated Press), e ciò ha finito per danneggiarli nel momento in cui parte di loro ha perso il lavoro a causa della crisi economica. Poiché il debito degli Stati Uniti è stato acquistato da molti altri Paesi, e in particolar modo dalla Cina, l’impatto drammatico legato alla scarsità dei risparmi si è fatto sentire solo al momento della recessione.
E poi è esplosa la bolla. La crisi del mercato immobiliare ha colpito moltissimi proprietari di casa, e l’azione del Governo ne ha aiutati assai pochi. Il malcontento è salito alle stelle quando sono stati messi in campo provvedimenti per il salvataggio di alcune grandi multinazionali, specie nel settore automobilistico e in quello bancario. Molte persone, a torto o a ragione, sono convinte che il Governo sia troppo intento ad aiutare i ricchi e le grandi aziende, e questa sfiducia ha dato vita a due movimenti sociali assai diversi: il Tea Party e l’Occupy Wall Street. Il movimento del Tea Party, il cui nome fa riferimento alle proteste anti-britanniche del 1770, sostiene la linea dura contro ogni forma di intervento pubblico a sostegno dell’economia, invoca un taglio delle tasse (nonostante queste siano ai minimi storici dal 1970) e della spesa, sostenendo il principio della responsabilità individuale. Il movimento Occupy Wall Street si è invece costituito nel 2011, nella convinzione che il denaro speso dal Governo fosse investito unicamente per perpetuare le disuguaglianze sociali esistenti, inasprite dalla crisi. Tale movimento, privo di un leader come il Tea Party, è però ancora più vago riguardo ai suoi obbiettivi (Klein 2011). Nonostante molti americani ne condividano la filosofia, per la quale il singolo individuo è ben più importante della grande azienda, di fatto Occupy Wall Street non si è spinto oltre il dar voce all’insoddisfazione dei cittadini.
Infine, dopo anni di immigrazione illegale in crescita, specialmente dal Messico e da altri Paesi dell’America Latina, l’attuale crisi economica sembra aver mutato l’andamento dei flussi migratori verso gli Stati Uniti (Ellingwood 2011). Anche se alcuni economisti sostengono che l’immigrazione sia un bene per il Paese (Isidore 2006), la sensazione comune è che gli immigrati illegali rappresentino un peso dal punto di vista dei servizi sociali e dell’educazione (Fahmy 2010). La difficile congiuntura economica non ha fatto altro che esasperare quest’idea, facendo sì che in Arizona e in Alabama fossero approvate leggi statali assai severe sull’immigrazione illegale e rendendo la questione oggetto di dibattito tra i candidati alla nomination presidenziale. È opinione comune che gli immigrati, per quanto contribuiscano all’economia del Paese, siano responsabili del mancato aumento dei salari per certi lavori a bassa professionalità.
In mezzo a simili difficoltà emergono in ogni caso alcuni elementi positivi. In primo luogo il tasso di criminalità negli Stati Uniti è in calo da quasi vent’anni, e registra nell’ultimo anno una diminuzione del 6,4% (“Mail Online” 2011). Che ciò sia dovuto a questioni demografiche, al buon lavoro svolto dalla polizia o alle rinnovate opportunità di svago offerte dalla rivoluzione delle comunicazioni, si tratta in ogni caso di una tendenza positiva che ha reso le grandi città più sicure e vi ha attratto un numero crescente di persone. Steven Levitt e Malcolm Gladwell sostengono che i nuovi metodi di polizia, che prevedono il perseguimento dei reati minori, abbiano arginato i crimini più gravi (Gladwell 2002). In una delle sue interviste Penelope Fritzer riferisce che un docente universitario sosteneva che la diffusione di internet, dei videogiochi e dei social network, fornendo occasioni di svago e intrattenimento, avesse contribuito alla diminuzione di quei reati perpetrati solitamente da giovani sbandati e privi di prospettive (Fritzer 2011).
La crisi e il mancato sviluppo economico a essa legato hanno contribuito a una diminuzione dei prezzi dei terreni sotto tutela ambientale, e molti grandi proprietari terrieri si stanno mobilitando proprio per la salvaguardia di tali possedimenti (Cristensen, Rempel e Burr 2011). L’ambientalismo e il riscaldamento globale sono divenuti temi di dibattito all’interno dell’opinione pubblica, e l’attenzione all’ambiente è divenuto un principio condiviso da cittadini di ogni parte politica. Un’ulteriore novità è che gli Stati Uniti stanno producendo una quantità maggiore di petrolio, tanto da divenirne esportatori, con la conseguenza di comprarne meno all’estero ed essere sempre più indipendenti dalle politiche dei Paesi produttori. Se a ciò si sommano i progressi nel campo dell’energia solare e idroelettrica e i nuovi standard di efficienza per i prodotti elettrici (dagli elettrodomestici alle lampade a basso consumo), la dipendenza petrolifera da altri Paesi risulta in una certa misura ridotta.
Qual è lo stato d’animo dell’America, considerata questa varietà di fattori in gioco? Così come durante la Grande Depressione degli anni Trenta riscuotevano notevole successo i film sulla vita dell’alta società, oggi al centro dell’attenzione di Hollywood, della letteratura e dei videogiochi troviamo la vita in realtà alternative, di fantasia. Persino il mondo delle belle arti è invaso da maghi, draghi, alieni, vampiri e addirittura da una certa estetica anni Cinquanta. Sorprendentemente, però, tali fantasie presentano i caratteri tipici delle distopie, tanto che non sempre l’evasione si muove in una direzione positiva, che permetta ai fruitori di tali opere di sentirsi meglio e provare sollievo. Kurt Anderson sostiene in modo assai convincente che la cultura popolare vive un momento di stagnazione (Anderson 2012). Graydon Carter ribatte che “Tale stagnazione è iniziata nel momento in cui gli americani hanno cominciato ad amare il passato più del futuro” (Carter 2012).
Si dice che l’arte sveli l’essenza dell’epoca in cui viene realizzata, ma la questione è più sottile: l’arte francese dell’Ancien Régime ci presenta alcuni dei caratteri della società che raffigura, ma non ci fornisce il quadro completo. Molte delle opere di cui si compone questa mostra hanno l’ambizione di essere belle, ma la bellezza è un concetto visto in modo sospetto nell’arte contemporanea, e il suo valore risulta certamente inferiore rispetto a quello attribuito alla verità, alla giustizia sociale o all’impegno politico. Ciò nonostante la dimensione del fantastico ha oggi un posto di primo piano nel mondo dell’arte, come reazione di fronte alla vita moderna, e ciò chiarisce molte cose riguardo alle paure e ai desideri nascosti della società americana.
Il detto cinese “Che tu possa vivere in un’epoca interessante” riassume l’era di “American Dreamers”, esprimendo l’idea che le opere artistiche più vitali e significative siano realizzate in periodi di grande incertezza. Gli artisti cui la mostra dà spazio esprimono le proprie visioni in accordo con quanto scorgono nella società e nella vita americana. Non essendo sociologi né storici, essi riflettono i propri desideri e i propri interessi nella creazione di veri e propri mondi personali. Il significato delle loro opere può essere velato dalla bellezza, dal fascino o dalla fantasia, ma ognuna di esse esprime una forma di disagio dinanzi al mondo di oggi. In ogni caso questi artisti sono caratterizzati da due tratti particolari, l’individualismo e l’ottimismo, che hanno contraddistinto la società americana in ogni epoca, dai difficili inizi delle colonie all’egemonia mondiale per finire con le incertezze e le problematiche del presente.
Bartholomew Bland è direttore del dipartimento curatoriale dell’Hudson River Museum, dove ha realizzato progetto espositivi e cataloghi per mostre come “Paintbox Leaves: Autumnal Inspiration from Cole to Wyeth” e “I WANT Candy: The Sweet Stuff in American Art”, che ha avuto diverse sedi a livello nazionale. Tra i suoi altri progetti ricordiamo anche l’esposizione itinerante “A Field Guide to Sprawl”, esibita anche presso la Yale University. Ha curato anche mostre monografiche come “Winfred Rembert: Amazing Grace”, “Whitfield Lovell: All Things in Time”, “Susan Wides: From Mannahatta to Kaaterskill” e “Red Grooms: In the Studio”. È autore di numerosi saggi e articoli e co-autore del libro Merry Wives and Others: A History of Domestic Humor Writing. Ha anche collaborato per pubblicazioni come Dutch New York: The Roots of Hudson Valley Culture and Westchester: The American Suburb, entrambe edite da Fordham University Press. Durante i suoi precedenti incarichi è stato organizzatore di programmi e progettti per lo Staten Island Museum presso lo Snug Harbor Cultural Center e il Flagler Museum di Palm Beach in Florida.
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Con la grande mostra dedicata ad Ai Weiwei (23 settembre 2016-22 gennaio 2017) per la prima volta Palazzo Strozzi diventa uno spazio espositivo unitario che comprende facciata, Cortile, Piano Nobile e Strozzina.
L’arte contemporanea esce dalla Strozzina e si espande sia a livello espositivo che di comunicazione, in uno scenario in cui Palazzo Strozzi partecipa attivamente all’avanguardia artistica del nostro tempo.
Per questo motivo le informazioni relative alla mostra Ai Weiwei. Libero e il programma di mostre e attività future dedicato all'arte contemporanea saranno consultabili direttamente al sito www.palazzostrozzi.org e sui canali social di Palazzo Strozzi.
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