Robert Borosage / Katrina vanden Heuvel

Il seguente testo è tratto dal catalogo della mostra, pubblicato da Silvana Editoriale e acquistabile online sul sito della casa editrice, www.silvanaeditoriale.it

 

Robert Borosage e Katrina vanden Heuvel

Può un movimento sociale salvare il sogno americano?

L’articolo, scritto il 21 settembre 2011, è apparso in “The Nation” il 10 ottobre 2011.

Il 3 ottobre attivisti da ogni parte del Paese si ritroveranno a Washington alla conferenza “Take Back the American Dream” (Riprendiamoci il sogno americano), con la convinzione che solo un movimento di cittadini possa salvare quel sogno americano che appare oggi sempre più distante dalla realtà. Di fronte al fallimento dell’economia e alla corruzione della politica, la sola speranza di rinnovamento è nelle mani dei cittadini.

Il moderno sogno americano fu ispirato dall’espansione della classe media che rappresentò il trionfo della democrazia dopo la Seconda Guerra Mondiale. La promessa in esso contenuta, ora come allora, è l’opportunità: l’idea che lavorando duramente sia possibile guadagnarsi un’esistenza felice, fatta di un buon lavoro con uno stipendio adeguato, una casa in un quartiere tranquillo, un’assistenza sanitaria alla portata di tutti, la sicurezza della pensione, una buona educazione per i figli. La promessa non si è mai realizzata del tutto – specialmente per quanto concerne le minoranze etniche e razziali, gli immigrati e le donne – e l’America non è mai stata all’altezza dell’Europa nel permettere al povero di sollevarsi dalla miseria. Ma almeno un’ampia classe media e un benessere largamente diffuso fornivano una possibilità di ascesa sociale.

Ora la classe media sta sprofondando, messa in pericolo da un’economia che non sembra funzionare per i lavoratori. Venticinque milioni di persone sono in cerca di un impiego a tempo pieno, gli stipendi stanno calando e una persona su sei vive in povertà, il livello più alto mai raggiunto negli ultimi cinquant’anni.

 

Ogni elemento del sogno è in pericolo. I salari del 70% degli americani privi di un’educazione universitaria sono diminuiti in modo drammatico nel corso degli ultimi quarant’anni, mentre gli stipendi dei dirigenti e i guadagni delle imprese salivano alle stelle. Le grandi aziende continuano a spedire all’estero buone opportunità di lavoro, mentre i pochi posti di lavoro creati in patria sono specialmente nel settore dei servizi a basso reddito. Una casa su quattro vale meno del mutuo acceso per acquistarla, con conseguenze devastanti sugli investimenti della maggior parte delle famiglie della classe media. I costi dell’assistenza sanitaria stanno salendo vertiginosamente, e quasi 50 milioni di persone sono prive di un’assicurazione medica. Metà degli americani è priva di piani previdenziali, le pensioni stanno scomparendo e persino programmi di assistenza sociale e sanitaria come Social Security e Medicare rischiano di finire sotto la scure dei tagli. Il debito accumulato per l’iscrizione al college ha superato quello delle carte di credito, il numero degli inadempienti cresce e i giovani che non possono permettersi gli studi universitari sono sempre di più.

L’economia funziona incredibilmente bene per una minoranza. L’1% dei più ricchi è beneficiario di quasi un quarto delle entrate del Paese e controlla circa il 40% della sua ricchezza. Questa minoranza si è messa in tasca praticamente tutti i benefici della crescita economica del decennio scorso. Piazza Tahrir è scoppiata in rivolta a gennaio1, ma al momento gli Stati Uniti soffrono di disuguaglianze persino maggiori di quelle egiziane. Invece del sogno americano, ci troviamo a fare i conti con un incubo: come ha scritto il premio Nobel Joseph Stiglitz “siamo in presenza di un governo dell’1%, esercitato dall’1% e a favore di quell’1% stesso”.

 

Non è un incidente, è una sconfitta. È il prodotto di un conflitto sociale portato avanti e vinto, come ha sottolineato l’imprenditore statunitense Warren Buffett, dalla minoranza dei più ricchi. Gli economisti evocano la globalizzazione, la tecnologia e l’educazione come fattori responsabili dell’estrema disuguaglianza propria della nostra epoca. In realtà, quest’ultima è il prodotto di politiche che hanno indebolito i lavoratori, dato mano libera ai dirigenti, tagliato sugli strumenti di protezione sociale e aggredito la classe media.

Per più di trent’anni si è mantenuto un occhio di riguardo nei confronti delle grandi aziende, e determinate idee conservatrici hanno consolidato la loro presa su entrambi i maggiori partiti politici. Le politiche commerciali sono state lasciate in mano alle multinazionali e alle banche, che non solo hanno trasferito all’estero buone opportunità di lavoro, ma hanno anche prodotto un deficit della bilancia commerciale di oltre 2 miliardi di dollari al giorno. L’assistenza sanitaria è in mano alle industrie farmaceutiche e alle compagnie assicurative, col risultato che i costi pro capite del nostro sistema sono quasi doppi rispetto al resto del mondo industrializzato mentre la qualità del servizio è inferiore. Big Oil e King Coal esercitano una stretta alla gola sulle nostre politiche energetiche, tanto che gli Stati Uniti hanno finito per perdere il primato nello sviluppo di tecnologie verdi, che saranno cruciali nei mercati del futuro. La finanza si è liberata di ogni regola, scatenando la follia incontrollabile di Wall Street che, nel 2008, ha gettato l’economia mondiale giù da un dirupo. Il budget del Pentagono è più alto di quanto fosse durante la guerra fredda.

 

Speranza frustrata

I tre anni scorsi hanno fornito una prova concreta del potere degli interessi corporativi. Eletto nel mezzo della peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione, il presidente Obama ha raccolto la maggior parte dei voti (primo democratico a farlo dai tempi di Jimmy Carter) con un mandato per il cambiamento. Nel gennaio 2009 i democratici controllavano 58 seggi al Senato e la maggioranza alla Camera, dove a guidarli era lo speaker più di sinistra della storia, Nancy Pelosi. La crisi, un mandato preciso, una solida maggioranza: sembravano esserci tutte le componenti per il cambiamento.

Obama ha messo in campo riforme in ogni area chiave: l’assistenza sanitaria, l’energia e la finanza. Le proposte del presidente sono state caute, preventivamente di compromesso e, ciò nonostante, egli è uscito dal dibattito politico con le ossa rotte. Il piano per il rilancio dell’economia è stato depotenziato, la riforma dell’energia bloccata, il tentativo di reinserimento di regole in campo finanziario è stato castrato, il modello di assistenza sanitaria deformato. Le manovre ostruzioniste dei conservatori e gli interessi delle grandi aziende hanno impedito il cambiamento.

Questo fallimento ha alimentato lo scetticismo degli elettori nei confronti del Governo. Washington ha salvato Wall Street, ma ha fatto poco per la gente comune. Il debito pubblico è cresciuto senza che si riuscissero a creare nuovi posti di lavoro. La Casa Bianca ha finito per ascoltare le richieste dell’establishment per una svolta prematura sulla riduzione del deficit, invece di concentrarsi sulla necessità di un maggior intervento statale per stimolare la ripresa economica. Il sondaggista Stanley Greenberg sostiene che secondo gli elettori “il gioco è truccato”. Come da lui riassunto, essi “vedono un intreccio di denaro e potere, alimentato da interessi lobbistici e da grandi campagne di finanziamento. Non credono che certi meccanismi siano cambiati da quando Obama è al potere”.

 

Il disastro economico e la collusione bipartisan con Wall Street hanno preparato il terreno per la protesta dei cittadini. Coi democratici al potere, la destra ha fatto appello alla rabbia popolare, in particolare tramite il famigerato Tea Party. Contrariamente a quanto si credeva all’inizio, questo movimento non era composto da indipendenti, ma da attivisti di destra, molti dei quali guidati inizialmente dal risentimento razziale. I suoi membri erano tendenzialmente bianchi, più anziani e benestanti della media della popolazione. La sua base popolare era supportata da organizzazioni che godevano di larghe sovvenzioni come Freedom Works di Dick Armey, appoggiata in parte dai miliardari fratelli Koch.

I membri del Tea Party hanno usato lo spettacolo della corruzione politica per avanzare una tesi tipicamente conservatrice: “Washington non lavora per voi; riprendetevi i vostri soldi”. I suoi leader hanno spesso dato voce a slogan populisti, come l’estate scorsa Sarah Palin alla manifestazione del Tea Party: “I membri di questa classe politica a tempo indeterminato se la passano proprio bene.

[…] Riescono a trarre potere e ricchezza dall’accesso ai nostri soldi, al denaro di chi paga le tasse. E con questi soldi tirano fuori dai guai i loro amici di Wall Street e delle grandi aziende, ricompensano quanti hanno finanziato le loro campagne, comprano voti con lo stanziamento di fondi pubblici. […] E tutto questo ha un nome: si chiama capitalismo clientelare”. Si tratta di una fandonia trita e ritrita: il programma del Tea Party non è altro che la solita retorica populista travestita. L’attuale maggioranza repubblicana alla Camera, presumibilmente dominata dal Tea Party, è composta dalla stessa élite politica che ha contribuito a creare lo sfacelo nel quale ci troviamo grazie all’abbassamento delle tasse per i più ricchi, il taglio dei servizi sociali, l’aggressione ai sindacati, il corporate trade, le politiche energetiche lasciate in mano a Big Oil, la deregulation finanziaria. L’unica differenza sta nella misura delle loro ambizioni: i seguaci del Partito repubblicano non solo tornerebbero indietro rispetto alle riforme di Obama, ma persino rispetto alla Great Society e al New Deal – di fatto, a gran parte del XX secolo. Non c’è da meravigliarsi che questi obiettivi abbiano avuto scarso appeal presso la maggior parte degli americani.

 

 

Aspettando la sinistra?

In tutto questo dov’era la protesta di sinistra? Storicamente, ogni volta che l’America ha raggiunto questo estremo limite che gli analisti di Citigroup chiamano “plutocrazia”, masse popolari si sono sollevate per farsi portavoce della giustizia sociale. I movimenti populisti della fine del XIX secolo si confrontarono con i grandi magnati del tempo. Il Partito comunista, quello socialista e il movimento di Huey Long Share Our Wealth crebbero minacciosamente fino a spingere Franklin Roosevelt a realizzare il secondo New Deal, che comprendeva il Social Security Act, il Wagner Act, il riconoscimento del diritto dei lavoratori a riunirsi in organizzazioni e molto altro. E in epoche di maggior benessere, il movimento per i diritti civili ha contribuito alla fine dell’apartheid negli Stati del Sud; il movimento contro la guerra in Vietnam ha impedito la rielezione di Lyndon Johnson; i movimenti per i diritti delle donne e dei gay, il movimento dei consumatori e quello per l’ambiente hanno tutti contribuito a rendere migliore l’America. Più recentemente, il movimento contro la guerra in Iraq ha favorito il trionfo elettorale dei democratici nel 2006 e nel 2008.

I progressisti hanno organizzato manifestazioni sulla scia della crisi economica. Gruppi come National People’s Action hanno tentato di difendere i proprietari di casa dal pignoramento e hanno guidato la protesta contro le grandi banche. L’ampia coalizione We Are One, sostenuta dai sindacati, ha promosso una marcia nazionale per il lavoro subito prima delle elezioni del 2010. Ma questi come altri sforzi hanno ricevuto un’attenzione vergognosamente scarsa da parte della stampa, ottenendo modesti risultati. Un’attenzione maggiore è stata dedicata, da parte della sinistra, all’impegno per l’approvazione delle riforme volute da Obama. L’appoggio al Presidente ha di fatto messo a tacere molti critici, specie tra gli afroamericani particolarmente colpiti dalla crisi economica.

Le schiaccianti vittorie dei repubblicani nelle elezioni dell’ultimo anno hanno mandato in frantumi questo atteggiamento benevolo nei confronti del Presidente. Nonostante il persistere della disoccupazione di massa, i repubblicani hanno dominato il dibattito su chi dovesse pagare per risolvere i disastri lasciati da Wall Street, e su che tipo di economia si prospettasse per il futuro. La loro offensiva è stata la scintilla che ha scatenato una vigorosa reazione della sinistra.

Quando insegnanti, studenti e pompieri si sono uniti nel Wisconsin per difendere i diritti dei lavoratori e opporsi all’offensiva contro la scuola e i servizi pubblici, le manifestazioni di massa hanno dato la scossa alla sinistra e hanno catturato l’attenzione di tutto il Paese. Quando i deputati repubblicani hanno approvato un provvedimento che avrebbe messo fine al Medicare2 così come lo conosciamo e al tempo stesso avrebbe tagliato le tasse per i più ricchi, cittadini infuriati hanno riempito le assemblee generali degli elettori in ogni parte d’America.

 

L’American Dream Movement

Il caso del Wisconsin ha ispirato l’azione di Van Jones e altri che hanno lanciato l’American Dream Movement. Jones, fondatore di Green For All, ha riunito MoveOn.org, il Center for Community Change, la Campaign for America’s Future e decine di sindacati e altre organizzazioni di sinistra per dare vita a un’iniziativa alla quale tanti attivisti potessero partecipare e alla quale potessero contribuire a dare una forma.

 

Così come il Tea Party è stato un punto di riferimento per gruppi di destra dai programmi più disparati, dai liberisti ai fondamentalisti cristiani fino a organizzazioni razziste, l’American Dream Movement spera di rappresentare un analogo punto di riferimento per promuovere organizzazioni di sinistra altrimenti prive di visibilità su scala nazionale. Tuttavia, diversamente dal Tea Party, l’American Dream Movement si fa portavoce di istanze che godono di reale supporto popolare.

Come primo passo il movimento ha organizzato mille e cinquecento occasioni di ritrovo e confronto in ogni parte del Paese per tentare di definire un “contratto” per l’American Dream. Oltre 130 mila persone hanno partecipato, online o di persona, alla creazione di un programma per il cambiamento che superasse i limiti del dibattito attuale. Questa agenda di riforme prevede importanti iniziative a favore dell’occupazione e della crescita: l’impegno a reinvestire nelle nostre infrastrutture malridotte e a riconquistare il primato nel campo della green economy; il tentativo di ristrutturare i nostri servizi sociali, con investimenti nell’educazione dal periodo prescolare fino al college, l’assicurazione sanitaria Medicare per tutti e la protezione garantita da Social Security. Questo programma mira a far sì che il lavoro paghi davvero, e a dare maggior potere ai lavoratori di organizzarsi in sindacati e battersi per un salario sufficiente per vivere; si fa portavoce di una riforma delle tasse e dell’impegno a porre fine alle guerre all’estero per poter mettere i conti a posto; infine invoca riforme radicalmente democratiche per porre un freno al potere della politica governata unicamente dal denaro e per far piazza pulita di quanto c’è di marcio a Washington.

La prima grande manifestazione si è tenuta ad agosto (2011, ndr), quando vari gruppi, guidati dai sindacati e da MoveOn, sventolando striscioni inneggianti al sogno americano, hanno intrapreso un’aggressiva campagna denominata “Jobs, Not Cuts”(Lavoro, non tagli) nelle varie circoscrizioni elettorali, con attivisti che fronteggiavano i parlamentari dei due partiti maggiori. Tali iniziative hanno ricevuto una notevole attenzione da parte della stampa locale, mettendo in difficoltà alcuni parlamentari che hanno finito per cancellare gli incontri pubblici previsti per non incorrere in situazioni di imbarazzo.

Sotto l’egida di ProgressiveCongress.org, i leader del Congressional Progressive Caucus hanno promosso un tour, intitolato “Speakout for Good Jobs Now” (Facciamoci sentire per un buon lavoro adesso), che prevedeva incontri pubblici e intendeva raccogliere le storie di disoccupati in ogni parte del Paese. Tutto questo è culminato nell’elaborazione di un chiaro progetto per l’occupazione di cui essi si faranno portavoce. Le proteste – e un’economia stagnante – hanno aiutato il Presidente Obama a presentare l’American Jobs Act in un discorso pronunciato all’apertura di una sessione parlamentare a camere congiunte.

 

L’assalto portato avanti dalla destra a livello statale e federale e la determinazione a difendere i propri privilegi condurranno a numerose battaglie. Un primo test per il movimento sarà rappresentato dalla “supercommissione”, un gruppo di dodici parlamentari incaricati di tagliare 1200 miliardi di dollari o più del deficit previsto per i prossimi dieci anni, e di presentare un rapporto in tempo utile per un voto prima di Natale (2011, ndr). La commissione, figlia del dibattito sul tetto massimo al debito pubblico, torna a prendere di mira il deficit in un momento di disoccupazione di massa. Obama continua a darsi da fare per la realizzazione del patto da lui proposto l’estate scorsa durante i negoziati sul debito pubblico: in cambio di tagli su Medicare e Medicaid si otterrebbero maggiori entrate dall’aumento delle tasse sui più ricchi e dall’eliminazione di qualsiasi scappatoia fiscale per le grandi aziende. Questo accordo, presentato come un “sacrificio condiviso”, gode di ampio sostegno da parte dell’establishment e delinea un netto contrasto con i repubblicani, che sono strenui sostenitori della classe privilegiata. Tuttavia, quando i benefici dell’economia non sono condivisi, il “sacrificio condiviso” non fa che tirare in ballo ciò che Martin Luther King Jr. chiamava “giustizia uova e prosciutto”, ossia il caso in cui alla gallina si chiede un uovo, e al maiale un’intera zampa. La sinistra deve darsi da fare affinché l’occupazione rimanga l’obiettivo fondamentale, e non i tagli. E a pagare i conti dovrebbero essere le banche che hanno fatto saltare per aria l’economia e i ricchi che si sono intascati i benefici della crescita, piuttosto che i più deboli.

A novembre il referendum3 in Ohio sui diritti dei lavoratori rappresenterà un momento chiave della mobilitazione nazionale. Il tentativo dei repubblicani di ridurre i diritti degli elettori in trentotto stati dovrebbe dare la scossa alle organizzazione studentesche e alla protesta di massa. La pressione delle banche per sfuggire alla responsabilità di frodi e abusi sui mutui, un problema già affrontato dalla coalizione New Bottom Line e da altri gruppi, finirà per scatenare l’indignazione popolare. Il progetto di Big Oil di costruire un oleodotto per sfruttare le sabbie bituminose canadesi ad alto potenziale inquinante ha scatenato una manifestazione di disobbedienza civile mai vista prima. I sondaggi rivelano un’opposizione crescente alle politiche commerciali che hanno condotto alla crisi e ai tentativi del Pentagono di portare avanti guerre costosissime e di cui non si intravede una fine.

La sfida per l’American Dream Movement è quella di raccordare tutte queste battaglie e contribuire a dare voce e amplificare la protesta. Affinché questo accada è necessario che il movimento non si limiti a sfidare l’estremismo della destra, ma combatta anche i dogmi ormai falliti dell’establishment. È necessario fronteggiare la componente conservatrice di entrambi i maggiori partiti.

 

Un movimento costruisce la propria identità attraverso le battaglie combattute, le tattiche che adotta, i messaggi che lancia. La destra ha speso interi decenni nella formazione del proprio coro politico: gli adepti conoscono il gospel, sanno dare voce alle parole della loro canzone. I progressisti sono stati meno bravi, specie sul versante delle problematiche economiche. Persino l’azione dei presidenti democratici è stata in certi casi fuorviante, finendo per appoggiare la deregulation finanziaria, gli accordi sul corporate trade e il taglio delle tasse sul capital gain.

Un compito decisivo per l’American Dream Movement – come nel caso dei movimenti populisti della fine del XIX secolo – sarà l’educazione dei cittadini; starà al movimento stesso promuovere i prossimi dibattiti pubblici, l’equivalente moderno delle assemblee di cortile, per diffondere le proprie idee. I leader progressisti possono contribuire all’elaborazione di alternative che per il momento paiono escluse. Nessun movimento può crescere a meno che i cittadini non siano convinti dell’esistenza di reali alternative.

Come ha sostenuto Van Jones, ciò richiede che alla gente venga fornita una rappresentazione semplice delle cose, fatta di un obiettivo che sappia entusiasmare, una minaccia, dei nemici e degli eroi. L’obiettivo è far rivivere il sogno americano. La minaccia è chiara a tutti. La democrazia americana è stata corrotta dal denaro e dagli interessi corporativi che costituiscono un pericolo per quel sogno. La politica alimentata unicamente da fiumi di denaro si è guadagnata il supporto dei conservatori in entrambi i maggiori partiti, con risultati disastrosi. Il nostro compito è quello di ripulire la politica e ricostruire un’economia funzionale agli interessi dei lavoratori. E ciò richiede che un movimento di cittadini indipendenti abbia il coraggio di sfidare il regno degli interessi privati. Ciò può essere realizzato solo da “eroi comuni”, cittadini disposti a mettere da parte la loro routine quotidiana per salvare il sogno americano.

 

La questione Obama

Può l’American Dream Movement, o qualunque altro movimento popolare, crescere e svilupparsi con Barack Obama alla Casa Bianca? La delusione nei confronti di Obama ha acceso un forte dibattito tra gli attivisti. Molti temono nel dar vita a qualunque iniziativa che possa indebolirlo ulteriormente, considerata la sciagura che potrebbe derivare dalla presa della Casa Bianca da parte degli estremisti repubblicani. Alcuni invocano una sfida al Presidente in occasione delle primarie; altri sostengono che sia l’ora di abbandonare del tutto il Partito democratico.

Il test per un movimento popolare è rappresentato dall’energia che sa esprimere e dalla sua integrità morale. Deve essere capace di difendere i poveri e i lavoratori, ponendo al bando tutti i falsi miti della nostra epoca, anche se è lo stesso Obama a riproporli. Deve dare voce alle necessità e all’indignazione degli americani. Abbiamo bisogno di un movimento capace di realizzare un sit-in di protesta presso il Dipartimento di Giustizia quando quest’ultimo si dimostra incapace di perseguire penalmente le frodi che sono al cuore del crollo finanziario. C’è bisogno di un movimento che faccia marciare cinquemila disoccupati a Washington per chiedere un posto di lavoro, e li faccia accampare al National Mall fin tanto che non si trovi una soluzione.

Nel suo discorso presso la Democratic National Convention nel 1996, il reverendo Jesse Jackson riassunse così il rapporto tra i movimenti sociali e i Presidenti degli Stati Uniti:

“Il progresso si realizza attraverso un presidente illuminato, coalizzatosi con dei cittadini politicamente partecipi. Nel 1932, Roosevelt non si presentò alle elezioni col programma del New Deal. Fu la gente a mobilitarsi per un piano di riforme economiche, ed egli rispose col New Deal. Roosevelt rappresentava una possibilità. Fu la gente però a fornire la soluzione. Nel 1960, né Kennedy né Nixon giocarono la loro corsa alla Casa Bianca sulla fine della segregazione razziale. Ma Martin Luther King appoggiò Kennedy, che rappresentava l’opzione migliore. La fine della segregazione negli edifici pubblici fu il prodotto delle manifestazioni di Greensboro e di Birmingham, dei sit-in e delle marce; fu il risultato del fatto che noi, la gente, ci eravamo messi in moto. Nel 1964 né Goldwater né Johnson fecero campagna elettorale sul Voting Rights Act. Ma Martin Luther King appoggiò Johnson; era l’opzione migliore. Siamo stati noi a ottenere il diritto di voto per tutti con le marce sul ponte di Selma, in Alabama. Noi, la gente, abbiamo fornito la soluzione.”

King è stato critico sia con Kennedy che con Johnson, e ha guidato dimostrazioni di massa contro l’ingiustizia sociale. Egli non vedeva contraddizione tra la protesta di massa e il voto strategico, ma i movimenti sociali venivano chiaramente al primo posto.

 

Può l’American Dream Movement contribuire a infiammare la protesta in modo da favorire un cambiamento radicale? La voragine che si è aperta tra Washington e il popolo americano si fa ogni giorno più ampia. Ci sono elementi che spingono verso una direzione nuova – l’energia pulita, la fine delle guerra e il rilancio degli investimenti in patria, la realizzazione di una nuova strategia industriale; la volontà di porre un freno a Wall Street, una tassazione progressiva, la difesa di Social Security e Medicare – tutto ciò gode del sostegno di un’ampia maggioranza di americani.

Ciò nonostante gli americani dubitano che qualcosa possa davvero cambiare. La maggior parte di loro si sente abbandonata al proprio destino e non ha idea di come un’azione collettiva possa risultare utile. Molti di loro sono estranei sia alle organizzazioni democratiche che ai movimenti. Questi americani vedono una Washington dominata da élite di privilegiati e dagli interessi delle grandi aziende e le loro speranze sono state completamente distrutte negli ultimi tre anni.

La sfida è quindi convincere la gente della possibilità di un reale cambiamento, piuttosto che della necessità di riforme. Per tutto questo c’è bisogno di un movimento. Adesso è arrivato il momento di costruirne uno.

Note

1 Il riferimento è alle sommosse popolari scoppiate a partire dal 25 gennaio 2011 nella piazza Tahir del Cairo (ndr).

2 Medicare è un programma di assicurazione medica gestito dal Governo degli  Stati Uniti, rivolto a persone dai 65 anni in su (ndr).

3 L’8 novembre 2011 gli elettori dell’Ohio si sono espressi negativamente nei confronti della legge introdotta in primavera dal governatore repubblicano John Kasich.

 

Robert L. Borosage è il fondatore e il presidente dell’Institute for America’s Future e co-direttore della sua organizzazione parallela, the Campaign for America’s Future. Scrive di politica, economia e problemi di sicurezza nazionale per un ampio numero di pubblicazioni tra cui “The Washington Post”, “Los Angeles Times” e “The Philadelphia Inquirer”. È Contributing Editor per “The Nation” e scrive regolarmente anche per la rivista “The American Prospect”. È spesso invitato come commentatore per trasmissioni radio e televisive, tra cui Fox Morning News, RadioNation, National Public Radio, C-SPAN e Pacifica Radio. È docente associato per i corsi sul ruolo presidenziale e la questione della sicurezza nazionale presso l’American University’s Washington School of Law.

Katrina vanden Heuvel è caporedattrice, editore e co-proprietaria della rivista “The Nation”. Fin dal 1995 è stata caporedattrice della rivista per cui tiene anche il blog “Editor’s Cut”. Tiene anche una rubrica settimanale per il “Washington Post” ed è frequente ospite di numerosi programmi televisivi. Ha curato o co-curato numerose pubblicazioni, tra cui: The Change I Believe In: Fighting for Progress in the Age of Obama (2011), Meltdown: How Greed and Corruption Shattered Our Financial System and How We Can Recover (2009), Taking Back America — and Taking Down the Radical Right (2004) e Voices of Glasnost: Interviews with Gorbachev’s Reformers (1990).



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