Franziska Nori

Franziska Nori
Territori instabili

Estratto dal catalogo Territori instabili, ed. Mandragora, Firenze, 2013.

Lo straordinario sviluppo della mobilità di persone e beni, la digitalizzazione dei mezzi di comunicazione e della conoscenza, i processi economici sempre più globali hanno radicalmente trasformato la percezione di territori, frontiere e confini. Flussi migratori si amplificano e si moltiplicano in modo sempre più complesso e spesso anche più drammatico del passato. Negli ultimi anni, forse con una frequenza e un impatto sempre maggiori, stiamo assistendo ad avvenimenti naturali catastrofici e a guerre che costringono le persone coinvolte a rimettere in discussione tutta la propria vita, costrette ad abbandonare la casa e tutto ciò che possiedono.

A ciò si uniscano i nuovi fenomeni di migrazione dovuti a motivi economici e sociali, che non sono più monodirezionali, dal Sud verso il Nord, dai cosiddetti paesi del terzo mondo verso quelli industrializzati, e non riguardano più solo persone con un basso grado di educazione, ma individui di tutti i ceti sociali e di estrazione culturale e nazionalità diverse.

Da una parte questa trasformazione di prospettiva su territori e confini ha generato una nuova e propulsiva spinta democratica, una nuova energia di confronto e contaminazione tra popoli, ma dall’altra ci troviamo di fronte a una instabilità, a un venir meno di punti di riferimento che ha condotto a un diffuso senso di precarietà e incertezza tra le persone.

Il termine “territorio” ci riconduce a un’entità contemporaneamente fisica e simbolica, è espressione di un luogo di appartenenza, ed è anche strumento di definizione dell’identità perché delimita uno spazio all’interno del quale un individuo o una comunità può riconoscersi, permettendo di tracciare una linea tra l’io e l’altro, tra un noi e un voi, tra il proprio corpo e il mondo esterno. In un mondo globalizzato, dove la sfera digitale è diventata un’agorà pubblica sempre più significativa, contribuendo all’abbattimento di confini e frontiere, ci domandiamo se la relazione tra territorio e identità sia ancora valida.

La mostra “Territori instabili” pone domande su questi temi proponendo opere di artisti che hanno differenti attitudini e modi di vivere ed esprimono differenti pensieri sul rapporto instabile tra identità, territorio e confine, in un’epoca di grandi aspettative (e illusioni) su una borderless society, una “società senza confini”, un territorio globale condiviso. Il percorso artistico presenta riflessioni diverse sulla nozione di frontiera come scoperta o barriera, sull’ibridazione tra cosmopolitismo e rivendicazione territoriale, sul ruolo stesso dell’artista nella condizione di viaggiatore, nomade o sperimentatore di nuovi possibili modelli.

Gli artisti coinvolti nella mostra costituiscono testimonianze di pratiche culturali sintomatiche del nostro tempo, dimostrando come la stessa figura dell’artista costituisca un esempio dell’instabilità di territori e contaminazione di identità. Tadashi Kawamata crea simboli e metafore di un sentimento di precarietà diffusa; Jo Ractliffe o Richard Mosse propongono uno sguardo di osservazione, documentazione o ricerca su luoghi del mondo in cui emergono frammenti, spesso incoerenti, di storie e racconti del passato e del presente; Paulo Nazareth afferma un modello di vita che si slega radicalmente dalle regole di un’esistenza scandita dal consumo a favore di una pratica dell’incontro più che del possesso. The Cool Couple offrono una possibilità di confronto con la storia presente e passata di un territorio, attraverso immagini di archivio, testi e fotografie che affiancati insieme servono all’osservatore per pensare visivamente, lasciando spazio a una lettura trasversale, a un’interpretazione che va oltre la mera somma di frammenti. Come sottolinea Georges Didi-Huberman, è fondamentale nel linguaggio dell’arte la dicotomia tra la presa di distanza e il coinvolgimento empatico, tra la spiegazione oggettiva e l’implicazione soggettiva. Si apre così la costruzione di un rapporto tra territorio e identità che riporta alla condizione dell’esilio, una condizione di drammatica lontananza che permette uno sguardo diverso, da lontano, empaticamente coinvolto, ma allo stesso tempo esterno e più consapevole.

Come dimostra tutta la storia dell’arte, dagli scambi tra le corti europee rinascimentali fino alle diaspore di artisti tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, l’arte funziona e vive di una fertilizzazione di pensieri, nello scambio di contesti e nella circolazione di idee, nozioni, progetti, informazioni e persone a prescindere dalle loro appartenenze nazionali. Nell’epoca contemporanea, tuttavia, l’arte è diventata uno dei mezzi privilegiati per osservare i mutamenti semantici, politici e sociali del concetto di territorio. A partire dagli anni Sessanta del XX secolo una nuova prospettiva dell’artista come individuo cosmopolita ha preso il sopravvento, proponendo un nuovo rapporto con la società. La performance, la Land Art, l’Institutional Critique sono tutte espressioni di uno sperimentalismo che tenta di analizzare e il più delle volte criticare le frontiere fisiche e le barriere politico-culturali.

L’instabilità territoriale, così come inquadrata dal lavoro dei dieci artisti presentati in mostra, diviene metafora di problematiche sociali, politiche e culturali, emblema di fenomeni come l’emigrazione, lo stato di precarietà perdurante delle periferie emarginate dai centri delle grandi metropoli, la persistente contrapposizione tra luoghi e comunità che sono parte di una stessa nazione, la ricerca di identità perdute e di specificità uniformate o annullate dalla globalizzazione economica e culturale. I confini territoriali, intesi come zone di transizione, possono così assumere un connotato positivo e divenire sinonimo di spazi neutrali, liberi, dove poter abbandonare ogni convenzione prestabilita. Il viaggio diventa così lo strumento estetico di conoscenza e di trasformazione fisica dello spazio da attraversare. Se da un lato permette di reinventare il nostro Io, dall’altro pone il soggetto in una situazione di ascolto e allerta.

Partendo dalla convinzione che ogni individuo può potenzialmente percepire e vivere un “territorio fluido” nel quale utopicamente le demarcazioni sono mere convenzioni, è possibile leggere il lavoro di alcuni artisti, in particolare quelli che operano sul campo, come il tentativo di osservare i conflitti e le tensioni inerenti a specifici territori intervenendo attivamente con pratiche trasformative. La terra di confine diviene meta di coloro che sfuggono un pericolo in cerca di rifugio. Ciò che sembra uno spazio simbolico diviene brutalmente tangibile e concreto. Il sociologo e teorico dello sviluppo urbano Mike Davis, nel suo celebre testo Il pianeta degli slum (Davis 2006), constata che attualmente lungo i confini tra Stati si è innalzata una muraglia di barriere tecnologiche che permettono di bloccare le migrazioni su grande scala per salvaguardare i paesi ricchi e dunque rimane solo lo slum, area periferica e marginale delle città, dove poter stivare il surplus di umanità del nostro secolo. La povertà che contraddistingue queste fasce desolate di territorio, caratterizzate da costruzioni effimere e precarie, contraddistinte da situazioni igienico-sanitarie disastrose, esclude colui che le abita dalla vita culturale e politica della città tradizionale. Si tratta del nuovo volto della disuguaglianza. Al territorio marginale e di confine, molto spesso scenario di guerre e battaglie sanguinose, si è sostituito un nuovo spazio, situato nei più disparati poli del pianeta, che si caratterizza per miseria, violenza e disagio. Spesso si tratta di luoghi nati abusivamente e precari, ma che diventano stabili e parti integranti di città o territori: favelas, banlieue, bidonville, campi profughi. Sono spazi che potremmo definire globali, frutto di un programma che dimentica certe fasce di popolazione vittime delle dinamiche economiche mondiali. Davis nel suo saggio afferma con certezza che inspiegabilmente solo le alte sfere militari hanno iniziato a pensare seriamente al problema degli slum, ma in quanto possibile centro di una futura rivolta delle periferie contro i centri ufficiali, evento che ribalterebbe le dinamiche militari tradizionali: non più una lotta tra Stati, bensì una globale insurrezione degli emarginati contro gli organi dirigenziali. Sono proprio questi i territori all’interno dei quali si giocano le sorti di un equilibrio globale tutt’altro che stabile.

Il cosiddetto Sud del mondo, con le sue contraddizioni e le sue feroci ostilità, ci mostra costantemente quanto l’instabilità di alcuni assetti possa essere determinante per intere popolazioni. Tuttavia lo stesso caso dell’Europa sembra rivelatore di una crisi culturale non più limitata ai margini del mondo occidentale ma al suo interno. Il continente sembra attualmente in uno stato di costante emergenza che, partita da una crisi meramente finanziaria è diventata crisi culturale ed esistenziale, con un diffuso ma tangibile sentimento di incertezza e mancanza di prospettiva per il futuro.

Soltanto fino a pochi anni fa la territorialità transnazionale europea, basata sull’idea di un continente unificato sotto nozioni come la libertà dell’individuo e lo stato di diritto, sembrava poter diventare un modello simbolo, un punto di riferimento per altri luoghi del mondo. Che cosa è successo in questi pochi anni?

Il concetto di globalizzazione, che ormai da decenni costituisce uno dei temi più ampiamente (e quasi ossessivamente) discussi in ambito accademico e culturale, rappresenta un imprescindibile spunto di riflessione. Nel testo Globalization and its discontents Joseph E. Stiglitz, economista statunitense che ha lavorato per organizzazioni come la Banca mondiale, sostiene l’inevitabilità dei processi economici della globalizzazione, ma allo stesso tempo ritiene fondamentale un ripensamento della sua dinamica, che si avvicini di più al suo reale potenziale egualitario: una ridistribuzione economica verso il basso e una maggiore dinamicità e mobilità sociale e culturale. Citando eventi come la transizione dal Comunismo all’economia di mercato nell’ex Unione Sovietica, la crisi finanziaria dell’Est asiatico nel 1997 o le diverse bolle finanziarie degli anni 2000, Stiglitz denuncia quanto la globalizzazione economica e alcuni degli organi che cercano di regolamentarne lo sviluppo, come il Fondo monetario internazionale o l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), abbiano fallito nel tutelare classi sociali o interi paesi in difficoltà (Stiglitz 2002).

Tutto ciò ha portato a una forma di difesa ideologica dei territori e a una ribellione protezionista nei confronti dell’idea che vede nel superamento delle frontiere nazionali un futuro modello da sviluppare. Un numero sempre crescente di comunità e singoli individui ha iniziato un percorso di riavvicinamento a tradizioni regionali e locali, ricercando una risposta al problema dell’appartenenza e dell’identità culturale, ma anche al bisogno di una sicurezza economica e sociale di fronte alla mobilità e alla liquidità delle nozioni di frontiera e territorio. Già nel 1999 un testo scientifico a cura di Guntram H. Herb e David H. Kaplan, intitolato Nested identities. Nationalism, Territory and Scale poneva l’accento sulla nozione di nidificazione che facilitava la comprensione delle identità collettive. Nella sua introduzione al concetto delle nested identities, Herb afferma che lo spazio confinato è uno degli elementi di maggiore tensione tra il potere politico e l’identità dei suoi cittadini. Solo il territorio sembra permettere un’identificazione nazionale tangibile. La tesi avanzata dai due geografi, che si basa sull’analisi delle nuove divisioni avvenute all’interno di gruppi nazionali ormai privi di Stato, dimostra al contrario come gli individui ricerchino le proprie radici negli spazi a loro più prossimi secondo un processo che possiamo descrivere come “nidificazione micro-regionale”, che trova i suoi esempi nelle rivendicazioni indipendentiste di regioni come la Catalogna, la cosiddetta Padania o i Paesi Baschi. La creazione di zone arbitrarie e territori confinati apre nuovi orizzonti per una considerazione sul rapporto di omologazione o contrapposizione tra il sé e l’altro. È quindi interessante notare come il territorio marginale, nella sua accezione di “spazio di esclusione”, diventa uno spazio in cui uno stato di emergenza può diventare spinta propellente per la formazione di pratiche e modelli sociali alternativi (Herb e Kaplan 1999).

È qui che risulta cruciale sottolineare l’importanza della riflessione del sociologo tedesco Ulrich Beck, di cui presentiamo un contributo all’interno di questo catalogo. Beck rappresenta uno dei pensatori di riferimento su quello che egli definisce cosmopolitan turn, un ribaltamento di approccio nella nozione di cosmopolitismo sia in filosofia politica che nell’ambito della ricerca sociologica. Nella pubblicazione Der kosmopolitische Blick oder: Krieg ist Frieden del 2004 Beck getta le basi per una teoria che tenta di dimostrare quanto, nell’epoca globale e contemporanea, vi sia la necessità assoluta di un nuovo pensiero cosmopolita. La sua critica verte principalmente sul concetto di nazione protezionista e parte da un’analisi che risale addirittura al 1986, poco prima del disastro di Chernobyl, nella quale affermava che la società moderna si configura sempre di più come una “società del rischio”, caratterizzata dall’accumulazione di problemi ecologici, finanziari, militari, terroristici, biochimici e informativi (Beck 1986).

L’unica via d’uscita, secondo Beck, è il superamento del tradizionale concetto di nazione. L’isolazionismo, il protezionismo, le piccole rivendicazioni sono frutto di un pensiero che si radica nella cultura della nazione. Il superamento di questa forma mentis può avvenire solo ed esclusivamente attraverso un pensiero e una filosofia politica che valichino i limiti dei confini nazionali, a favore di un pensiero di inclusione e di cooperazione internazionale. Vi è la necessità di un’apertura individuale e di un abbattimento dei limiti e delle barriere che creano strutture di pensiero e d’identità inamovibili. Per questo si potrebbero prendere in prestito le parole di Michel Foucault, quando parla di libertà nei confronti dell’identità, la libertà di non essere vincolati a un’identità assunta come norma, ossia la capacità di trasformazione, di perdere se stessi e il proprio contesto sociale (Sorrentino 2010): un invito a ripensare i luoghi sociali, culturali e identitari per una nuova definizione dell’individuo.

 

Franziska Nori (1968, Roma) è direttore del Centro di Cultura Contemporanea Strozzina (Fondazione Palazzo Strozzi, Firenze). Dal marzo 2007 è responsabile per il programma artistico del centro di cui è stata curatrice delle mostre “Sistemi emotivi” (2007), “Arte, prezzo e valore” (2008), “Gerhard Richter e la dissolvenza dell’immagine nell’arte contemporanea”, “As Soon As Possible” (2010), “Identità virtuali” e “Declining Democracy” (2011), “Francis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea” (2012), “Un’idea di bellezza” (2013) e delle installazioni site specific nel Cortile di Palazzo Strozzi, realizzate da artisti come Michelangelo Pistoletto, Yves Netzhammer e Loris Cecchini. Si è laureata in antropologia culturale, letterature romanze e storia dell’arte presso l’Università Johan Wolfgang Goethe di Francoforte. Dal 2000 al 2003 ha diretto il dipartimento di arti digitali “digitalcraft” presso il Museo di Arti Applicate di Francoforte (MAK), in cui è stata inaugurata la prima collezione museale dedicata a manufatti digitali, organizzando mostre dedicate a temi della cultura digitale come “I Love You”, sul mondo degli hacker e dei virus informatici, o “adonnaM.mp3”, un’analisi del file e network sharing sulla rete. Dal 2005 al 2007 ha fatto parte del comitato scientifico della New Media International School dell’Università di Lubecca. Nel 1998 ha svolto per la Commissione Europea uno studio sulle future strategie per i musei europei nel loro lavoro sul patrimonio culturale digitale. Dal 1994 al 1997 ha lavorato come curatrice indipendente d’arte moderna e contemporanea per istituzioni internazionali come la Schirn Kunsthalle di Francoforte, il Museum für Moderne Kunst di Vienna, il Museo Nacional Reina Sofia di Madrid, la Fundación la Caixa a Palma di Maiorca e la Fondazione Lucio Fontana.

 



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