Il seguente testo è tratto dal catalogo della mostra, pubblicato da Silvana Editoriale e acquistabile online sul sito della casa editrice, www.silvanaeditoriale.it
John Kenneth White e Sandra L. Hanson
L’elaborazione e la sopravvivenza del sogno americano nel XXI secolo
Il “sogno americano” rimane un concetto ancora vivo, che gli americani identificano in vari modi come un elemento chiave della loro vita. Il persistere di questa “grande epica”, com’è stata una volta notoriamente descritta (Adams 1941, 405), è assolutamente sorprendente, specie se si considerano le recessioni, le difficoltà, le crisi economiche e le battaglie per i diritti civili, i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere di cui gli Stati Uniti sono stati testimoni nel corso degli anni. Queste difficoltà economiche sono state particolarmente dure e sono tutt’ora presenti, a partire dalla crisi che si è scatenata nel dicembre 2007, con il salvataggio da parte del Governo del sistema bancario nazionale e dell’industria automobilistica e l’elezione alla presidenza di Barack Obama. Ma sono state anche difficoltà e battaglie di altro genere a causare una ridefinizione del sogno americano da parte dei cittadini. Per gran parte della nostra storia, gli afroamericani e le donne sono state escluse da quell’ideale e dalle sue promesse. È stato compito di Martin Luther King e delle leader femministe ampliare il sogno americano fino a divenirne parte essi stessi e incoraggiare i propri sostenitori a partecipare al suo successo. Nel 2008, gli americani hanno eletto il primo presidente afroamericano. […]
Il sogno americano attraverso la storia
L’origine del sogno americano può essere rintracciata nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 e nella sua promessa che tutti i cittadini della nuova Nazione nascessero per volontà divina con certi diritti inalienabili, tra cui la vita e la libertà, e che a queste stesse persone fosse data facoltà di ricercare in varie forme la felicità. Questa ricerca della felicità spesso si concludeva con il conseguimento da parte di molti di un qualche grado di soddisfazione. Nel 1831, Alexis de Tocqueville scriveva che gli americani che aveva incontrato “avevano acquisito o mantenuto un’istruzione e un benessere tali da soddisfare i loro desideri”. Tocqueville aggiungeva che essi “non sono debitori di nessuno, non aspettano niente da nessuno, si abituano a rimanere sempre distinti dagli altri, sono convinti che il destino riposi interamente nelle loro mani” (Tocqueville 1989).
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Sorprendentemente l’espressione “sogno americano” non è così antica. Il giornalista Walter Lippmann la utilizzò per la prima volta in un libro del 1914 intitolato Drift and Mastery, nel quale invitava i lettori a trovare un nuovo sogno per il ventesimo secolo, che ponesse fine alla mancanza di iniziativa da parte del Governo che aveva condotto alla deriva la politica americana (Jillson 2004). Ma fu lo storico James Truslow Adams a rendere popolare l’espressione “sogno americano” nel 1931. Nel suo libro The Epic of America (il cui titolo provvisorio era stato proprio The American Dream), Adams descriveva il sogno americano in termini che il commediografo Moss Hart avrebbe riconosciuto: “quel sogno di una terra in cui la vita fosse migliore e più ricca e più piena per ogni uomo, con opportunità per tutti secondo le proprie abilità e i propri meriti” (Adams 1941, 404). Per Adams il sogno americano riguardava però qualcosa di più della mera acquisizione di ricchezza e successo. […]
Nella sua essenza il sogno americano rappresenta una condizione spirituale, ossia l’ottimismo tenace di colui che, pur tentato dal soccombere alle avversità, si risolleva dalle macerie per contribuire alla costruzione di una grande nazione. Persino nel mezzo della Grande Depressione Adams era fiducioso che gli Stati Uniti avrebbero superato le difficoltà e che il sogno americano sarebbe sopravvissuto grazie all’ottimismo che lo sostiene. “Questo ottimismo duro a morire”, sosteneva Adams, “aveva condotto la nazione dalle sue origini fino al ventesimo secolo e rimaneva la fonte del suo continuo successo”. […]
È importante notare che Adams scriveva queste parole in un momento storico in cui dilagavano i timori economici, il mercato azionario era crollato due anni prima, era Presidente un incapace come Herbert Hoover e la sopravvivenza stessa della Nazione sembrava in dubbio. Nel 1933 la borsa aveva perso il 75% del suo valore rispetto al 1929, gli introiti della Nazione erano ridotti a metà, le esportazioni avevano raggiunto i livelli più bassi dal 1904, e su oltre seicentomila proprietà (per la maggior parte fondi agricoli) non era più possibile riscattare l’ipoteca (Alter 2006). Valutando la situazione di crisi economica nel gennaio 1933, l’ex Presidente Calvin Coolidge sottolineò che “In altri periodi di depressione è sempre stato possibile vedere qualcosa di solido sul quale fondare la speranza. Ma adesso, per quanto guardi intorno a me, non riesco a vedere niente sul quale erigere una simile speranza – quantomeno niente di terreno” (Ibid.). Nel giro di pochi giorni, Coolidge morì. Sebbene il New Deal di Franklin D. Roosevelt avesse prodotto benefici dal punto di vista economico, il nuovo Presidente sapeva bene che per dare una prospettiva di lungo termine alle sue iniziative, queste dovevano essere legate a un nuovo sogno americano. Alla luce di ciò sono significative le parole che Roosevelt pronunciò dinanzi ai suoi compagni democratici nel 1936, in occasione della sua ricandidatura: “Affinché ci sia davvero libertà, tutti devono potersi guadagnare una vita dignitosa, e avere non solo di che vivere, ma anche qualcosa per cui vivere”. “Senza questa opportunità”, continuò Roosevelt, “la vita non è più libera, la libertà non è reale; gli uomini non possono più ricercare la felicità” (Roosevelt 1936).
Persino in mezzo alla Grande Depressione, gli americani rimanevano convinti che ad attenderli ci sarebbe stato un futuro radioso, se non per loro stessi quantomeno per i loro figli. Un sondaggio che la Roper Organization condusse nel 1938 rilevò che solo il 30% della popolazione condivideva l’idea di porre un limite massimo ai guadagni, facendo sì che chi lo avesse superato dovesse versare al Governo la differenza sotto forma di tasse; ben il 61% degli intervistati era contrario al progetto. Gli americani rimanevano convinti che il benessere economico fosse possibile, e che ottenerlo avrebbe sancito la realizzazione del sogno americano, per il quale è il duro lavoro (e non la fortuna) a condurre alla ricchezza. Questa convinzione è in realtà sopravvissuta a ogni epoca storica, fosse essa gloriosa o tragica. Adams sosteneva che il sogno americano fosse il collante che teneva insieme il Paese: “Dobbiamo percorrere una strada lunga e difficile se vogliamo realizzare in pieno il sogno americano, ma se non ci riusciamo, su questa terra non ci rimane nient’altro. Saremmo di fronte al fallimento dell’auto governo, al fallimento dell’uomo comune che si rivela incapace di ergersi alla sua piena statura, al fallimento di tutte le speranze e le promesse per il genere umano contenute nel sogno americano” (Adams 1941, 416).
Le parole di Adams sono risuonate attraverso i decenni, in particolare all’inizio della presidenza Obama. Come Roosevelt prima di lui, Obama ha dovuto far appello alla Nazione per risollevarla da una condizione di profonda disperazione. Accettando la nomination dei democratici alla presidenza nel 2008, Obama ha cercato di presentarsi come un modello del sogno americano e come la persona che meglio di ogni altra poteva resuscitare questo sogno e reclamarlo a nome di noi tutti:
“Quattro anni fa mi sono presentato dinanzi a voi e vi ho raccontato la mia storia, la storia della breve unione tra un giovane del Kenya e una giovane del Kansas, persone né ricche né famose, ma che condividevano la convinzione che in America il loro figlio potesse realizzare i suoi sogni.
È questo l’ideale che ha sempre contraddistinto questo Paese, che attraverso il duro lavoro e il sacrificio ognuno di noi possa realizzare i propri sogni e al contempo che il nostro essere una grande famiglia americana rappresenti la garanzia che i nostri figli possano fare lo stesso. È questa la ragione per cui mi trovo qui stasera. Perché per duecentotrentadue anni, ogni qual volta questo ideale americano è stato minacciato, gli uomini e le donne di questo Paese – studenti e soldati, contadini e insegnanti, infermieri e bidelli – hanno trovato il coraggio di difenderlo.
Ci troviamo in un momento cruciale, un momento in cui il nostro Paese è in guerra, l’economia è in crisi e il sogno americano è minacciato ancora una volta” (Obama 2008).
La minaccia della quale Obama parlava era assolutamente reale. Nel momento stesso in cui egli pronunciava quelle parole, il Paese era impantanato in quella che gli economisti ritenevano la peggiore recessione dai tempi della Grande Depressione. Si erano persi più di 7 milioni e 200 mila posti di lavoro, il tasso ufficiale di disoccupazione superava il 10% per la prima volta da ventinove anni, e il numero di americani che aveva rinunciato a cercare un lavoro o lavorava solo saltuariamente aveva raggiunto la soglia del 17% (Fox 2009). Riflettendo su queste terribili statistiche, Obama dichiarò che rappresentavano “il rovesciamento del sogno americano” (Kamp 2009). Nonostante queste statistiche sfavorevoli e l’incertezza sulla reale efficacia delle iniziative dell’amministrazione Obama per il rilancio economico, la fiducia nel sogno americano rimane molto forte. Nel 2009, il 75% dei partecipanti a un sondaggio di “CBS News” e del “New York Times” sosteneva di aver già realizzato il sogno americano o di essere convinto di realizzarlo in un prossimo futuro; solo un intervistato su cinque riteneva che quell’obiettivo fosse irraggiungibile. Il sociologo Barry Glassner ha fornito una spiegazione del perché il sogno americano non sia in pericolo, nonostante la drammatica situazione economica:
“Nei momenti difficili tutti vogliono rimanere aggrappati ai propri sogni. Per la maggior parte degli americani, in ogni momento della storia, la possibilità di realizzare il sogno americano è sempre stata piuttosto modesta, ma la promessa era così grande… Di per sé l’idea che chiunque possa diventare presidente o diventare miliardario è assurda. Un sacco di americani lavorano duramente, ma non per questo diventano presidenti o guadagnano miliardi” (Seelye 2009).
Ma per molti americani aggrapparsi a quel sogno è diventato sempre più difficile. Durante la sua presidenza, Bill Clinton ha definito il sogno americano in questo modo: “Se lavori duramente e giochi secondo le regole, devi avere la possibilità di spingerti fin dove il tuo talento ti può portare” (Jillson 2004). Tuttavia negli anni trascorsi da allora, molti americani si sono scontrati inaspettatamente con ostacoli invalicabili. A partire dal 2002, Barbara Ehrenreich è stata criticata da alcuni laureati e colletti bianchi per non aver saputo dare voce alle loro storie sfortunate, nonostante essi avessero fatto “ogni cosa secondo le regole”. Così un cittadino affranto della classe media presentava alla Ehrenreich la propria condizione:
“Prendete in esame la gente come me, che non ha avuto figli quando era ancora alle superiori, che si è laureata bene, che lavora duramente e non passa il tempo a leccare il culo, e invece di essere promossa o pagata adeguatamente si ritrova costretta a lavorare per 7$ l’ora, deve dilazionare i debiti per il college, deve vivere a casa dei propri genitori e più in generale coesistere con una quantità di debiti di cui non potrà mai sbarazzarsi” (Ehrenreich 2005).
Come osservato da Phyllis Moen e Patricia Roehling, “Il sogno americano è una metafora del successo professionale, una metafora che funziona per chi ha vinto il gioco della formazione universitaria e della carriera professionale, ma che rimane irraggiungibile per un numero crescente di uomini e donne di ogni età, classe sociale, razza, etnia e provenienza” (Moen e Roehling 2005).
Ciò nonostante il sogno americano sembra resistere, e la sua sopravvivenza è prova della sua forza. Qualche anno fa il cantautore Bruce Springsteen si domandava, in un brano intitolato “The River”, se il sogno americano non fosse che una menzogna, o rappresentasse qualcosa di persino peggiore (White 1990). Ma questa è una domanda che la maggior parte degli americani non vogliono neppure porsi. Invece di metter in dubbio il sogno americano, essi sono pronti a incolpare se stessi quando le cose non funzionano come sperato. Quasi mezzo secolo fa, un meccanico arrivava ad ammettere tutto questo in un’intervista:
“Sarei potuto essere molto più ricco, ma per via della mia stupidità non lo sono. Qual è la causa della povertà? La stupidità. Quando ho smesso di lavorare, mia moglie aveva messo da parte qualche soldo, e anch’io avevo qualche risparmio. Però me la volevo spassare, e ho gettato al vento un sacco di soldi. Credetemi, avessi usato la testa a quest’ora avrei una casa. Non sono dispiaciuto per me stesso, quel che accade, accade. Ma ovviamente ne paghi le conseguenze” (Lane 1962).
[…]
Una ragione per cui il sogno americano sopravvive è il suo essere strettamente intrecciato con i valori fondanti dell’America, in particolar modo la libertà e l’uguaglianza delle opportunità. In un sondaggio del 2008, il 75% degli intervistati dichiarava di condividere fortemente l’idea che l’America sia “unica fra tutte le nazioni, in quanto fondata sugli ideali di libertà, uguaglianza e opportunità” (Greenberg Quinlan Rosner Research 2008). I sondaggisti di “CBS News” e del “New York Times” hanno rilevato che il 27% degli intervistati indicava un collegamento tra il sogno americano e i valori di libertà e uguaglianza delle opportunità. Le risposte più comuni suonavano così:
“Libertà di vivere la propria vita.”
“Farsi da soli, costruendo a partire dal nulla.”
“Tutti hanno una chance di avere successo.”
“Diventare chi voglio essere davvero.”
“Avere salute, amici e una famiglia felice.”
“Fare come Huckleberry Finn: inseguire l’ignoto, seguire i propri sogni” (Seelye 2009).
Il collegamento tra il sogno americano e l’uguaglianza delle opportunità è particolarmente importante per comprendere la sopravvivenza del sogno stesso. L’uguaglianza delle opportunità è un concetto molto forte perché, a differenza di altri diritti individuali che possono essere revocati da governi di tipo autoritario (come la libertà di parola e quella di culto), si tratta di una condizione mentale, un approccio alla realtà che è teoricamente impossibile eliminare.
[…]
Come testimoniato dalle lotte per il diritto di manifestare e i diritti delle donne e dei gay, il sogno americano non è un concetto statico. Nonostante il popolo americano abbia sempre associato questa idea di sogno ai valori di libertà e pari opportunità, questi valori hanno subito significative trasformazioni negli anni. È significativo che la prima indagine sul sogno americano sia stata portata avanti solo nel 1985, quando “CBS News” e il “New York Times” presentarono un interrogativo che collegava esplicitamente il sogno americano con la proprietà di una casa: “Pensate che chi non potrà mai possedere una casa si perda una parte importante del sogno americano?” Il fatto che il 76% degli intervistati rispondesse “sì” non rappresenta certo una sorpresa (CBS News/New York Times 1985).
Ulteriori indagini hanno mostrato quanto il sogno americano sia connesso con la quantificazione del successo economico (in particolare dal punto di vista dell’istruzione conseguita). Alla domanda “che cosa significa la realizzazione del sogno” gli intervistati hanno risposto (“Wall Street Journal” 1986):
– l’ottenimento di un’istruzione liceale, 84%.
– possedere una casa, 79%.
– poter mandare al college i propri figli, 77%.
– essere ottimisti riguardo al futuro, 76%.
– conseguire un’istruzione universitaria, 68%.
– avere una sicurezza economica tale da garantirsi abbondante tempo libero, 64%.
– fare meglio dei propri genitori, 61%.
– riuscire ad aprire una propria attività, 58%.
– riuscire a divenire, da commesso o semplice impiegato, dirigente di un’azienda, 52%.
Il sogno americano rimane strettamente legato ai valori di libertà e uguaglianza, ma la sua interpretazione si è andata a modificare nel corso del tempo. Quando nelle indagini condotte dalla Penn, Schoen, and Beriand Associates è stato chiesto di definire il sogno americano, le risposte si sono concentrate più sulla dimensione spirituale ed emotiva che su quella materiale. La maggior parte degli intervistati ha ritenuto i seguenti elementi delle “componenti fondamentali” del sogno americano:
– avere una serena vita familiare, 93%
– avere un’assistenza sanitaria di qualità per se stessi e per la propria famiglia, 90%
– avere opportunità di istruzione per se stessi e per la propria famiglia, 87%
– essere liberi di esprimere la propria opinione qualunque essa sia, 85%
– godere di una pensione agiata e sicura, 85%
– essere in grado di avere successo indipendentemente dalle proprie origini familiari e dalla propria condizione di partenza, 82%
– godere di sicurezza economica e potersi permettere di spendere senza troppe preoccupazioni, 81%
– realizzare la pace nel mondo, 63%
– avere il tempo per godersi le cose belle della vita senza dover dedicare troppe ore al lavoro, 59%
– ridurre gli effetti del surriscaldamento globale, 56%.
Senza dubbio, sebbene la sicurezza economica continui a rappresentare un nodo centrale del sogno americano, il sogno stesso si è ampliato fino a inglobare una concezione più estesa del benessere della persona e della qualità della vita che include, per esempio, l’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità, l’impegno per la pace nel mondo, la riduzione degli effetti nocivi del surriscaldamento globale.
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Sandra L. Hanson è professore in Sociology and Research all’Institute for Policy Research and Catholic Studies presso la Catholic University of America. Nel libro Swimming Against the Tide: African American Girls in Science Education (Temple University Press, 2009), ha analizzato comportamenti e condotte di ragazze afroamericane nel sistema educativo scientifico. Il suo volume Lost Talent: Women in the Sciences (Temple University Press, 1996) ha rappresentato invece la conclusione delle sue ricerche sulla mancanza di giovani donne ricercatrici di talento in campo scientifico. Le sue ricerche sono state pubblicate in numerose riviste tra cui “Sociology of Education”, “Public Opinion Quarterly”, “Journal of Women and Minorities in Science and Engineering” e “Journal of Marriage and Family Studies.
John Kenneth White è professore di Scienze politiche presso la Catholic University of America. È un esperto del rapporto tra religione e politica e autore di testi come Still Seeing Red: How the Cold War Shapes the New American Politics (1997) e The Values Divide: American Politics and Culture in Transition (2003). Ha collaborato a numerose pubblicazioni sulla politica e sulle figure di presidenti americani. Il suo ultimo libro è Barack Obama’s America: How New Conceptions of Race, Family, and Religion Ended the Reagan Era (2009). Le sue analisi di politica contemporanea sono riportate in riviste come “The Washington Post”, “The Boston Globe”, “The Christian Science Monitor”, “Hartford Courant”e molti altri quotidiani nazionali e sui programmi della BBC, National Public Radio, Christian Science Monitor Radio.
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Con la grande mostra dedicata ad Ai Weiwei (23 settembre 2016-22 gennaio 2017) per la prima volta Palazzo Strozzi diventa uno spazio espositivo unitario che comprende facciata, Cortile, Piano Nobile e Strozzina.
L’arte contemporanea esce dalla Strozzina e si espande sia a livello espositivo che di comunicazione, in uno scenario in cui Palazzo Strozzi partecipa attivamente all’avanguardia artistica del nostro tempo.
Per questo motivo le informazioni relative alla mostra Ai Weiwei. Libero e il programma di mostre e attività future dedicato all'arte contemporanea saranno consultabili direttamente al sito www.palazzostrozzi.org e sui canali social di Palazzo Strozzi.
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