Michela Marzano

Il saggio è parte del catalogo “Francis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporenea”, a cura del CCC Strozzina, Fondazione Palazzo Strozzi ed edito dalla casa editrice Hatje Cantz (www.hatjecantz.de).


Michela Marzano

La filosofia del corpo

Il corpo è uno dei dati costitutivi ed evidenti dell’esistenza umana: è nel corpo e tramite il corpo che ciascuno di noi è nato, vive, muore; ed è nel corpo e per suo tramite che ci s’inserisce nel mondo e si incontrano gli altri. Ma è dato parlare dell’esistenza carnale senza cadere in un discorso di stampo riduzionistico o restringersi viceversa a una mera elencazione delle “tecniche del corpo”? Come costruire una filosofia del corpo in grado di mostrare il senso e il valore della corporeità?

I filosofi hanno spesso preferito meditare sull’anima e le sue passioni, indagare sull’intelletto o criticare la ragion pura anziché rivolgere la loro attenzione alla realtà del corpo e alla finitudine della condizione umana. Questo ha fatto sì che il corpo sia stato spesso concepito come un corpo-gabbia, un corpo-macchina, un corpo-materia, anche se non mancano i pensatori che puntualmente hanno tentato di contrastare tale tendenza – basti pensare a Spinoza per il quale, come vedremo, corpo e anima costituiscono una sola e identica sostanza, o ancora a Nietzsche, per il quale il corpo è un signore potente rispetto a cui lo spirito è solo uno strumento.

Per quanto nel corso del XX secolo la fenomenologia abbia operato un’autentica rivoluzione nell’ambito della riflessione sul corpo, contrapponendo alla concezione classica che concepiva il corpo come uno strumento al servizio dell’uomo, un modello intenzionale che vede invece nel corpo “lo strumento che non si può utilizzare per mezzo di un altro strumento, il punto di vista sul quale non posso più prendere dei punti di vista” (Sartre 2008), ci si ritrova ancora oggi di fronte a posizioni ideologiche che da un lato riducono il corpo a un fardello di cui ci si dovrebbe liberare, dall’altro lo identificano con un organismo complesso, subordinato a un sistema di sinapsi neuronali in grado di determinare ogni comportamento o decisione dell’uomo.

Lo statuto ambiguo del corpo umano

Uno dei problemi principali con cui i filosofi che si occupano del corpo umano devono misurarsi è quello del suo statuto estremamente ambiguo che fa sì che lo si consideri irriducibile a semplice cosa o a coscienza pensante. “Il termine esistere ha due significati, e due soltanto: si esiste come cosa o si esiste come coscienza. Per contro, l’esperienza del corpo proprio ci rivela un modo di esistenza ambigua”, annota Maurice Merleau-Ponty (Merleau-Ponty 1965).

In effetti il corpo umano è prima di tutto un “oggetto materiale” e, in quanto tale, appartiene al regime del “divenire” e dell’ “apparire”, donde il suo carattere apparentemente inafferrabile sul piano concettuale e il rifiuto, da parte di taluni pensatori, di considerarlo un soggetto degno di interesse filosofico. Eppure il corpo è altresì “l’oggetto che noi siamo” ed è pertanto segno della nostra umanità e della nostra soggettività, di qui l’importanza di riflettere filosoficamente su di esso ogniqualvolta si tenta di comprendere che cosa è l’uomo. Per questo sostenere che il corpo è un oggetto non implica necessariamente che esso sia una cosa al pari delle altre, a meno che non si voglia prendere in considerazione, almeno sul piano mentale, la possibilità di affrancarsene. Ma è davvero possibile tenere il corpo a distanza?

La presa di coscienza dell’impossibilità di una “messa a distanza” va ricercata, secondo molti filosofi, nella rilevanza che “il corpo soggettivo” viene ad assumere nella filosofia post-kantiana. Si fa strada allora l’idea che il corpo non sia unicamente un oggetto: quell’oggetto che chiamiamo “corpo”, lungi dall’essere una mera cosa, un oggetto dell’agire o del contemplare, risulta essere in effetti qualcosa di più complicato proprio nell’azione e nella contemplazione. È precisamente in questa ottica che Merleau-Ponty ha fatto del corpo il perno della propria riflessione filosofica, il cuore stesso dell’ “in-sé” e del “per-sé” di ciascuno di noi: una traccia nel mondo; un “toccante-toccato”, un “vedente-visto”. Ed è per questa ragione che nel corso del XX secolo, il concetto di corpo-carne ha costituito un tema cruciale, dove con “carne” si vuole designare la modalità stessa dell’esistenza umana.

Per quanto ai nostri giorni i dualismi tradizionali non siano più in voga, il corpo rimane una realtà a cui taluni pensano di potersi sottrarre, sia con i mezzi offerti dall’evoluzione della tecnica sia attraverso l’onnipotenza di una volontà disincarnata. Di qui l’importanza che viene ad assumere una filosofia del corpo capace di decifrare la realtà contemporanea e di interrogarsi sul senso dell’esistenza carnale degli esseri umani. La questione non è irrilevante, in particolare se si considerano i comportamenti contraddittori che gli individui manifestano oggi in rapporto alla propria corporeità. Se da un lato il corpo sembrerebbe essere stato accettato nella sua realtà materiale, nei suoi travagli e nelle sue necessità, ma anche nella sua bellezza, al punto da tributargli un vero e proprio culto, dall’altro lato esso appare invece “asservito”, posto al servizio delle nostre costruzioni culturali e sociali.

La maggior parte delle discussioni intorno al corpo sembra trovarsi in un vicolo cieco: da una parte è analizzato come se si trattasse di una materia plasmabile a seconda dei nostri desideri mutevoli e perennemente insoddisfatti; dall’altro viene identificato col destino o con il fato. È pur vero che il corpo viene inteso da molti come un sostrato carnale della persona, sede delle esperienze individuali, ma forse ancora più spesso è concepito invece come un oggetto di manipolazioni, di cure e di costruzioni culturali e mediche. All’ambivalenza tra un corpo-soggetto e un corpo-oggetto si è sostituita l’opposizione tra un corpo-totalità, che parrebbe coincidere con la persona e il corpo-insieme d’organi cui spetterebbe lo stesso statuto assegnato alle cose. Se nel primo caso l’identificazione si traduce in una riduzione materialistica della persona, nel secondo l’alterità conduce alla certezza di possedere un corpo-oggetto, cosicché l’uomo può pensare se stesso come “altro” rispetto al proprio corpo. Come si esce da questi paradossi?

L’essere umano: una persona incarnata

Il corpo umano è sicuramente un oggetto. Lo si può contemplare dall’esterno e tenerlo in tal modo “a distanza”. È il corpo degli altri: un corpo in mezzo agli altri, ma che nondimeno non cessa di rinviare a una presenza diversa da quella degli altri oggetti materiali, un corpo che permette l’accesso a un’immagine, a un simulacro ma che nel contempo rinvia all’essere stesso della persona che si trova dinanzi. Ma è anche il nostro corpo: un corpo-immagine che possiamo contemplare in uno specchio; un corpo diviso, come quando guardiamo mani o piedi; un corpo che nondimeno cammina quando camminiamo e che soffre o gioisce quando soffriamo o gioiamo. “La nuca è un mistero per l’occhio” – scrive a questo riguardo Paul Valery. “Come si rappresenta il proprio volto l’uomo senza specchio? E come raffigurarsi l’interno del corpo se non si conosce l’anatomia? E anche se la conoscessimo, l’intimità con cui operano gli organi ci sfuggirebbe nella misura in cui difettiamo di ciò che occorre per vederla e rappresentarla. Non è lei a sottrarsi o a recedere davanti a noi, siamo noi che non riusciamo ad avvicinarci” (Valery 1960, p. 798.).

In realtà, l’esperienza quotidiana del corpo scombina un po’ la distinzione tra soggetto e oggetto perché il corpo umano è assieme tanto un corpo-soggetto quanto un corpo-oggetto, il corpo che si ha e il corpo che si è. Come aveva già affermato Simone de Beauvoir: “La donna, al pari dell’uomo, è il proprio corpo, ma il suo corpo è una cosa diversa rispetto a lei” (De Beauvoir 2008). Come non possiamo “essere” semplicemente il nostro corpo perché ciascun individuo è irriducibile alla materia o alla funzione dei suoi organi, parimenti, non possiamo “avere” semplicemente un corpo, a meno che non si presuma che il soggetto di tale possesso sia un’anima disincarnata che anima il proprio corpo come il timoniere la sua nave. Ognuno di noi è sia un corpo fisico proiettato nel mondo “di fuori” sia un corpo psichico che rimanda al “di dentro”.

L’essere umano è una persona incarnata: senza corpo non esisterebbe; tramite il corpo è legato alla materialità del mondo. Per questo l’esperienza del corpo è sempre duplice: intratteniamo col corpo una relazione che è assieme strumentale e costitutiva. La pelle conosce e procura il piacere della carezza, così come patisce il dolore di un’ustione o la morsa del gelo. Il corpo celebra la vita e le sue possibilità, ma proclama altresì la morte e la finitudine. Ogni parte del corpo è assieme una parte di noi e un oggetto esteriore passibile di contemplazione: “Si consideri la propria mano sul tavolo, ne deriva sempre uno stupore filosofico – scrive ancora Paul Valery – Io sono in questa mano e non ci sono. Essa è me e non è me. E in effetti, tale presenza esige una contraddizione; il mio corpo è una contraddizione, ispira, impone una contraddizione: essa consiste in questa proprietà, che sarebbe fondamentale per una teoria dell’essere vivente, semmai la si sapesse esprimere in termini precisi” (Valery 1960, p. 519).

Ciascuno possiede un corpo e al tempo stesso ne dipende: solo quando si avverte la sensazione di abitarne ogni minimo recesso non ci si riduce più a esso, a meno che non si voglia seguire una “via folle” che consiste nel “disancorarsi dal proprio corpo”, oppure una “via perversa” nella quale “non ci si distingue più da esso” (Nusinovici 2006).

Il corpo è il nostro destino. Non perché l’essere umano non sia libero di scegliere la vita che meglio gli conviene o, ancora, sia geneticamente determinato a realizzare taluni compiti invece di altri in ragione della propria natura corporea, ma perché, indipendentemente da ogni scelta e decisione, il corpo è sempre qui davanti a noi, insormontabile, sia per il migliore che per il peggiore di noi. “Mi domando chi io sia – scriveva Antonin Artaud – non l’io che si trova frammezzo al corpo, perché so di essere io in questo corpo e non un altro, e che non vi è un altro io all’infuori del corpo, e del mio corpo, ma quell’io che si sente ciò che viene chiamato essere, essere un essere perché possiedo un corpo” (Artaud 1981). Ciascuno è il proprio corpo essendolo. Ognuno ha il proprio corpo possedendolo. Il corpo ci ricorda costantemente la nostra finitudine e la nostra fragilità e come esso ci “inchiodi” alla realtà, sottomettendoci ai limiti imposti dallo schema spazio-temporale ed esistenziale all’interno del quale evolviamo. Ed è sempre il corpo che ci permette di “assaporare” il mondo e di abitarlo, di provare emozioni e passioni, di incontrare e conoscere gli altri.

La filosofia del corpo, in definitiva, prende come punto di partenza questo stesso corpo, che riflette a partire dalla finitudine e si interroga sull’essere-al-mondo corporeo di ciascun individuo. Una filosofia che tenta di comprendere l’azione umana senza mai dimenticare la dimensione del corpo. Indipendentemente dal fatto che il corpo sia stato spesso pensato come un fardello che ostacola il raggiungimento della conoscenza e della virtù, non vi è filosofia che abbia potuto fare a meno della sua presenza.

Ciò che emerge di nuovo oggi sono le svariate possibilità offerte dalla scienza e dalla tecnica, che ci consentono di agire direttamente sulla corporeità, di controllarla, di tenerla a distanza e di fare come se potesse realmente sparire. Ma nonostante ogni tentativo di annullarlo, il corpo è sempre presente, pronto a ricordarci la sua esistenza e a tradurre in sintomi il disagio di chi cerca di farlo sparire.

 

Michela Marzano è una filosofa italiana. Laureatasi alla Scuola Normale Superiore di Pisa nel 1993, sempre a Pisa ha conseguito un dottorato in filosofia intitolato “Per uno statuto del corpo umano: una proposta naturalistica”. In seguito ha ottenuto numerose qualifiche e titoli tra Francia e Italia, per poi essere nominata, nel 2009, professore associato all’Università di Laval in Québec. Dal 2011 è direttrice del dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Descartes di Parigi. Autrice di numerosi saggi e articoli, ha curato il Dictionnaire du corps (PUF, Parigi 2007). L’analisi sulla fragilità della condizione umana e sull’idea dell’essere umano come essere carnale rappresenta il punto di partenza delle sue ricerche e delle sue riflessioni filosofiche. Nel 2008, la rivista francese “Le Nouvel Observateur” l’ha inclusa nella lista dei cinquanta pensatori oggi più influenti in Francia, indicandola come una degli otto trentenni che riflettono in modo nuovo sui problemi della società di oggi. Tra le sue pubblicazioni in francese ricordiamo: Penser le corps (Presses Universitaires de France, Parigi 2002), La fidélité ou l’amour à vif (Hachette, Parigi 2005), Je consens, donc je suis… Éthique de l’autonomie (PUF, Parigi 2006), La mort spectacle (Gallimard, Parigi 2007), Visage de la peur (PUF, Parigi 2009). Tra quelle in italiano: Straniero nel corpo. La passione e gli intrighi della ragione (Giuffrè Editore, Milano 2004), Sii bella e stai zitta. Perché l’Italia di oggi offende le donne (Mondadori, Milano 2010), La filosofia del corpo (Il Melangolo, Genova 2010; prima edizione francese PUF, Parigi 2007), Cosa fare delle nostre ferrite (Edizioni Erickson, Trento 2011).

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