Il seguente testo è tratto dal catalogo della mostra, pubblicato da Silvana Editoriale e acquistabile online sul sito della casa editrice, www.silvanaeditoriale.it
Franziska Nori
American Dreamers
Sogno americano, realtà o immaginazione?
Esiste ancora il sogno americano? Qual è il suo futuro in un’epoca in cui la promessa di felicità e di prosperità economica sembra scontrarsi con una realtà sempre più complessa e difficile?
Mito fondativo degli Stati Uniti d’America, l’“American dream” trovava, nelle parole di Bill Clinton nel 1996, ancora una sua riproposizione nel mondo contemporaneo: “If you work hard and play by the rules, you should be given a chance to go as far as your God-given ability will take you” (se lavori duro e rispetti le regole, puoi avere l’opportunità di arrivare fin dove ti portano le capacità che Dio ti ha dato). All’interno di un sistema di valori condiviso che esalta la libertà e la pari opportunità, ogni uomo è artefice del proprio destino e, credendo in se stesso e nelle proprie capacità, deve saper cogliere le occasioni che gli si presentano.
Nel corso degli ultimi quindici anni tuttavia è sorto un forte dubbio sulla possibilità di realizzare nel presente questo sogno. La globalizzazione e la crisi del sistema economico capitalistico hanno fatto cadere certezze di invulnerabilità e sicurezza che sembravano ormai solide e immutabili, facendo emergere un forte senso di precarietà e di incertezza nel presente e verso il futuro. Allo stesso tempo tuttavia la capacità di immaginazione e la volontà di credere in un futuro sempre migliore sono rimasti elementi centrali nell’idea stessa di “essere americani”.
Affrontare questo tema per noi europei significa porsi di fronte a un momento di verifica sui nostri valori. La storia dei paesi europei si è contraddistinta per una sostanziale differenza nel rapporto tra individuo e collettività, con un concetto di welfare ben diverso da quello americano. Nel corso degli ultimi decenni, sulla spinta dell’economia di mercato globale, questi modelli si sono avvicinati: l’Europa è sempre più simile al modello sociale americano basato sulla responsabilità dell’individuo, mentre gli Stati Uniti di Barack Obama hanno iniziato apparentemente a muoversi verso una direzione più vicina a quella del motto “nobody must be left behind” (nessuno deve essere lasciato indietro) .
Il movimento Occupy Wall Street è espressione di una nuova riflessione da parte della classe media che nutre sempre più malessere e sfiducia nei confronti di un sistema che non mantiene più le proprie promesse. La gioventù americana si ritrova ad avere a che fare con una società in cui la disoccupazione e l’assenza di nuove prospettive sembrano ormai realtà inevitabili.
La deregulation e il predominio delle logiche finanziarie sono penetrate persino nel funzionamento del sistema educativo, trasformando in pacchetti finanziari l’investimento di decine di migliaia di dollari di giovani studenti che, una volta conclusi gli studi universitari, non trovano il lavoro necessario per ripagare i loro debiti accumulati e per permettersi una vita in cui realizzarsi.
Pur nella sua diversità di proposte la mostra “American Dreamers”, curata da Bartholomew Bland, si pone in diretto legame con la recente “Declining Democracy” (Centro di Cultura Contemporanea Strozzina 22 settembre 2011-22 gennaio 2012). Se gli artisti di “Declining Democracy” cercavano di indagare la validità odierna dei principi della democrazia, analizzando i meccanismi di funzionamento della collettività o proponendo un approccio documentaristico come cronisti della realtà, gli artisti di “American Dreamers” sottolineano il valore evocativo e trasformativo dell’immaginazione artistica, partendo dalla realtà per indicare o immaginare nuove prospettive sul mondo.
Molti di questi artisti operano ritirandosi nella dimensione privata dei loro studi in cui si vedono ancora capaci di agire e creare opere che partendo dalla loro individualità possono essere in grado di leggere la realtà e produrre mondi estetici autonomi. Molti creano spazi teatrali, scenografie in cui lo spettatore si può immergere, diventando parte della realtà elaborata dall’artista come espressione del proprio immaginario.
Per alcuni artisti la costruzione di mondi fantastici costituisce la propria critica alla società contemporanea; per altri ciò permette di realizzare soluzioni alternative in cui far riemergere significati e valori che sembrano ormai persi. Il ritiro dal reale non si traduce in un ritiro autobiografico o in un isolamento personale o in un approccio di stampo diaristico, gli artisti ripartono infatti dall’individuo connesso alla collettività, tracciando riferimenti alla tradizione della storia dell’arte, all’etnografia, alla psicanalisi e alle tradizioni popolari.
Tutti prendono le mosse dall’osservazione del mondo in cui vivono (generalmente grandi città americane), rispondendo con traduzioni estetiche che esprimono lo zeitgeist della realtà, a volte volgendo lo sguardo verso una dimensione microscopica del mondo, come a contemplare paesaggi interiori più che la realtà esterna: alcuni si indirizzano direttamente verso mondi interiori in cui inseriscono proprie regole alla ricerca di un equilibrio, altri invece creano mondi fantastici che sembrano voler cogliere atmosfere più cupe e al limite del catastrofismo, in cui dominano solitudine e disfacimento.
La tipica casa americana è spesso soggetto di tutto ciò, simbolo per eccellenza dell’isolamento, della sicurezza e del possesso. Nella tradizione dell’arte americana, che spesso omaggia il paesaggio e l’orizzonte infinito di terre ancora da scoprire, la casa è il punto di ritiro, la sicurezza per l’individuo e il nido del nucleo familiare. Nelle opere in mostra questa immagine viene messa in crisi e rielaborata in modo da far riflettere sulla crisi di valori che il presente ci pone. Il processo di produzione artistica diventa un percorso mentale, un viaggio nella riflessione che lascia fuori dalle mura dello studio un mondo, che più lo si osserva più non lo si riconosce.
Questa mostra ci dà occasione di riflettere su un fenomeno che sta sempre più dilagando, e non solo in America, ossia una tendenza al ritiro verso il privato o alla reinvenzione del rapporto tra individuo e comunità. Se la società sembra essere sempre più complessa e vasta, l’individuo restringe il raggio della propria azione in una dimensione più circoscritta (la propria comunità, la propria famiglia, la propria casa) dove è in grado di cambiare e può sentirsi al sicuro. È in quest’ottica che molti artisti puntano sul concetto di miniatura e sulla costruzione di microcosmi chiusi e ben controllati, che impongono allo spettatore un approccio ravvicinato, perdendo l’ampiezza della prospettiva a vantaggio di una focalizzazione sul dettaglio.
Alcuni degli artisti in mostra hanno in comune un’attenzione alla manualità che rimanda a principi di produzione pre-industriale o a forme di organizzazione alternativa della vita. Molti utilizzano nelle loro opere elementi quotidiani, materiali riciclati, scarti a cui dare un nuovo valore e una nuova funzione. Il recupero di frammenti e parti di materiali già esistenti viene condotto seguendo i principi dell’appropriazione, del collage, dell’assemblage e del sampling: appropriarsi di frammenti della realtà per decontestualizzarli e affidargli un nuovo significato.
Il riferimento alla tradizione dell’Arts & Crafts diviene quindi fondamentale per capire un atteggiamento esplicitamente anticonformista e contrario ai principi di produzione in serie, all’eccesso di velocità imposto dalla società moderna e alla dipendenza dal consumo, regola cardine del capitalismo. Così come William Morris e gli altri esponenti di questa corrente artistica e di pensiero di fine Ottocento si rifecero alle tecniche della tradizione e a un nuovo rapporto tra cultura e natura, negli artisti coinvolti nella mostra avvertiamo l’aspirazione a ritirarsi da un mondo sempre più razionale e accelerato alla ricerca nostalgica di mondi interiori e spirituali.
Il tempo diventa un fattore centrale. Se nella realtà contemporanea il concetto di manualità e di decelerazione temporale, in quanto limiti nella logica della produzione di massa, non trovano più spazio e hanno perso valore, gli artisti in mostra puntano invece proprio su questi concetti, esaltando il loro lavoro nella manualità del fare, a volte con un’estetica di sovrabbondanza altre volte evocando una sobrietà estranea al mondo attuale. Caratteristico per l’arte stessa è il riflettere attraverso l’azione e la manualità su concetti complessi che cercano di cogliere il senso dell’esistenza. La grande diffusione dell’handmade e dell’homemade – come ripensamento sulle pratiche di produzione, ma anche sull’organizzazione del proprio tempo libero e sul rapporto con gli altri – testimonia una penetrazione di questo tipo di riflessioni a livello della società americana in generale. Possiamo arrivare a parlare di un vero e proprio movimento che ormai ha preso piede anche in Europa e che unisce artisti, crafters e designer che lavorano sia con media tradizionali che con nuove tecniche.
È emersa soprattutto nelle giovani generazioni, una nuova (sub)cultura espressione di una comunità di persone che uniscono tecniche tradizionali, cultura punk e la cosiddetta “D.I.Y. ethos” (Do It Yourself : l’etica del fai da te). Queste persone condividono idee, si danno sostegno e si appoggiano reciprocamente tramite i canali di comunicazione digitale, autorganizzandosi anche in gallerie, negozi e fiere in cui esibire i propri prodotti. Ne è nato un collettivo internazionale che ha forgiato un’economia e uno stile di vita alternativi basati sulla creatività, l’autodeterminazione e sull’idea del fare rete. Una delle correnti più politicizzate di questo movimento è il Craftivism (craft – activism) che cerca di sviluppare modi alternativi alla fruizione passiva della società dei media tenendo vive le proprie forze creative. Obiettivo politico non è tanto ambire a grandi azioni di massa, quanto contribuire in prima persona a innescare un processo di miglioramento a partire dalla propria comunità.
Il possesso individuale di oggetti non è la meta a cui aspirare, la proprietà non viene più vissuta come privilegio, ma come peso laddove si impone il desiderio di una vita senza legami e libera dal peso della materia: “la condivisione si rapporta al possesso come l’iPod al nastro a 8 piste, il pannello solare alla miniera di carbone. Condividere è pulito, fresco, urbano, postmoderno; il possesso è noioso, egoista, pauroso e retrogrado.” (Mark Levine, New York Times Magazine, marzo 2009).
Come afferma la sociologa Rachel Botsman in What’s mine is yours : The Rise of Collaborative Consumption (Harper Business, ottobre 2010), dove l’individuo creava l’immagine della propria persona attraverso il possesso di oggetti che lo caratterizzavano, ora quello stesso possesso rappresenta un peso nella mobilità e precarietà della vita, che richiede di viaggiare leggeri verso un futuro incerto e tutto da costruire. Emergono infatti fenomeni come la collective consumption, un’idea di “consumo collettivizzato” di cui il car sharing è forse l’esempio più conosciuto, in cui non cambia necessariamente ciò che si consuma, ma la modalità di consumo.
Jeremy Rifkin dichiarò già anni fa la fine dell’iperconsumismo verso una nuova era economica: dall’accumulo di oggetti tipico dell’era della rivoluzione industriale a una forma di fruizione collettiva e di consumo collaborativo. Secondo la logica per cui nessun oggetto è inutile se si trova al posto giusto al momento giusto, si sono sviluppati fenomeni come Netcycler, la piattaforma che permette di disfarsi di cose in cambio di altre cose, una forma di baratto del terzo millennio.
La nuova generazione di consumatori non desidera il possesso dell’oggetto, ma il suo utilizzo, la sua funzione. Musica e film sono fruiti tramite lo streaming diretto su internet, non si acquista più il vinile o il dvd; l’automobile si affitta o si condivide tramite il carsharing. Il possesso di oggetti impegna, lega al luogo; l’acquisto di prodotti e il loro accumulo richiede spazio, ordine, sorveglianza. I cittadini americani affittano spazi e depositi, container e cantine che, sommati insieme, danno tre volte la superficie intera di Manhattan. Nel tempo scopriamo che gli oggetti che custodiamo e conserviamo sono completamente superflui, pesi morti. Ed è qui che subentra una cultura dello scambio, del dono, della condivisione. Ciò che nel mondo digitale è già diventato normalità sta conquistando anche il mondo dei prodotti: l’utilizzo comune delle risorse.
Il percorso espositivo di “American Dreamers” esplora queste diverse tematiche facendo emergere le poetiche degli artisti coinvolti, così da creare mondi paralleli spesso anche in forte contrasto tra loro.
La mostra si apre con l’intervento site-specific di Adam Cvijanovic la cui pittura su muro provoca un coinvolgimento visivo illusionistico in un sorprendente panorama che ritrae un idilliaco paesaggio urbano tipicamente americano, volutamente interpretabile sia in disfacimento sia, al contrario, in costruzione. A questo si contrappone l’estetica di Will Cotton e Nick Cave. Se il primo dà vita a un mondo irreale di sovrabbondanza in cui tutto diviene zucchero filato, crema, panna, fondendo riferimenti alla cultura pop americana (dalla cantante Katy Perry alla citazione di Candy Land, gioco molto popolare tra i bambini americani) e alla storia dell’arte (la pittura del Settecento francese di François Boucher o Jean-Honoré Fragonard), il secondo espone una selezione dei suoi cosiddetti “soundsuits”, sculture indossabili colorate e stravaganti, strumento per un’esperienza multisensoriale nell’amplificazione dei movimenti degli arti e nella creazione di inaspettati effetti sonori quando vengono utilizzati dall’artista anche come costumi per le sue performance.
La mostra prosegue con l’immaginario apocalittico di Thomas Doyle i cui micromondi dall’apparenza serena e controllata rivelano a uno sguardo più attento e ravvicinato realtà drammatiche, espressione della precarietà della condizione umana, utilizzando simboli della vita borghese come la casa, il giardino e la famiglia in contesti stranianti, catastrofici o a volte sarcastici. Partendo da immagini stereotipate Richard Deon mette in scena la sua personale e suggestiva estetica da lui stesso definita “surrealismo sociale”. Con opere pittoriche di diversi formati che interagiscono con lo spazio, l’artista crea scene di persone e luoghi che emergono come surreali paradossi e che giocano con immagini e situazioni in apparenza familiari, impiegando forme e figure grafiche tipiche dei manuali di educazione civica degli anni Cinquanta.
Rimandando alla storia dell’arte e ai linguaggi della pubblicità e della moda, Adrien Broom crea visioni di donne sospese tra realtà e sogno, ispirate a figure che spaziano dal drammatico personaggio femminile dell’Ofelia di Shakespeare fino a immagini di sante in estatica adorazione di fronte al divino tipiche dell’arte barocca.
Questa sensazione di sospensione si ritrova anche nel lavoro di Laura Ball che elabora, attraverso la fluidità dell’acquarello, un mondo popolato di immagini allegoriche in continua mutazione e in dialogo con l’autoritratto dell’artista stessa, con chiari riferimenti alla psicanalisi junghiana. Con uno stile immaginifico, paure e sogni assumono una forma corporea come in un libero gioco di associazione.
Seguono le opere di Kirsten Hassenfeld che usano un materiale ordinario come la carta da regalo riciclata per creare sculture sospese, collocate su un confine evanescente tra l’enigmatico e il domestico. A queste si contrappongono i lavori di Christy Rupp, che riflettono sui temi della produzione di massa e dello sfruttamento degli animali nei processi industriali. Entrambe le artiste uniscono riferimenti alla tradizione decorativa dell’Arts & Crafts a elementi di denuncia socio-politica contemporanea. Le sculture di uccelli estinti di Rupp rimandano alle forme di scheletri esposti nei musei di storia naturale, ma in realtà sono costituite da innumerevoli frammenti di ossa raccolti dall’artista tra i rifiuti dei fast-food, luoghi simbolo del consumismo materialistico contemporaneo. Hassenfeld invece, con il materiale effimero della carta, crea oggetti e installazioni che con il loro alto grado di suggestività ci immergono in una dimensione altra, esaltando il valore dell’arte capace di trovare nuovi significati in oggetti e materiali che la nostra società considera soltanto scarti.
Mandy Greer realizza per la mostra un’installazione spaziale site-specific che il visitatore potrà esplorare come in una sorta di foresta fantastica. Utilizzando la tecnica dell’uncinetto con inserti di vari materiali, l’artista crea oggetti scultorei dall’aspetto bio e fito-morfico che riportano a narrazioni mitologiche, unendo insieme sciamanismo e tradizioni degli Indiani d’America.
Nella sala dedicata al lavoro di Patrick Jacobs lo spettatore si trova a confronto con piccoli oblò, che permettono di vedere all’interno di diorami dove si schiudono miniature di mondi immaginari, che ricostruiscono in dettaglio delle visioni soggettive di prati o di interni di un appartamento, ingannando lo sguardo tra realtà e illusione.
Il Centro di Cultura Contemporanea Strozzina è nato nella volontà di creare un laboratorio di pensiero attivo e partecipato sulla contemporaneità, un luogo dedicato all’espressione, la creazione e la ricezione della produzione artistica attuale e delle sue ripercussioni e tangenze con la società di oggi. È secondo questa impostazione che durante la mostra “American Dreamers”, il CCC Strozzina presenta un ciclo di appuntamenti pomeridiani con esperti invitati ad ampliare la riflessione proposta dalla mostra, con interventi dedicati ad aspetti specifici della cultura americana contemporanea, una finestra sulla produzione culturale del decennio che ha seguito la tragedia dell’11 settembre. Ogni appuntamento sarà dedicato a un distinto settore della produzione artistica e culturale statunitense: la letteratura con Luca Briasco, il cinema con Roy Menarini e l’architettura con Marco Biraghi. Proprio l’architettura e il cinema hanno contribuito a formare un immaginario americano legato all’occupazione dello spazio in uno scenario di frontiera permanente, tema sul quale verterà l’intervento di Emiliano Ilardi.
Il ciclo di appuntamenti non sarà rivolto soltanto alle arti visive o ai prodotti della cosiddetta cultura “alta”, ma lascerà ampio spazio anche alle forme dell’intrattenimento come il videogame (Gianfranco Pecchinenda) o le contaminazioni tra musica pop e linguaggi visivi (Lucio Spaziante), tessere importanti per comporre il complesso mosaico della cultura americana. Un appuntamento speciale sarà inoltre dedicato all’artista americano Matthew Barney, su cui Cosetta Saba compirà un excursus sulla sua produzione video e scultorea. Durante il periodo della mostra si rinnova inoltre la collaborazione con Festival dei Popoli e se ne inaugura un’altra con Fabbrica Europa, due realtà di riferimento per la promozione dei linguaggi della contemporaneità.
Franziska Nori è direttore del Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Firenze, per il quale ha anche curato le mostre “Sistemi Emotivi” (2007), “Arte, Prezzo e Valore” (2008), “Gerhard Richter e la dissolvenza dell’immagine nell’arte contemporanea”, “As Soon As Possible” (2010), “Identità Virtuali” e “Declining Democracy” (2011). Sue specializzazioni a livello universitario sono state antropologia culturale, letterature romanze e storia dell’arte. Prima di arrivare a Palazzo Strozzi è stata project leader del digitalcraft.org Kulturbüro di Francoforte, con cui ha organizzato mostre dedicate a temi sulla cultura digitale, come “I Love You”, sul mondo degli hacker e dei virus informatici, o “adonnaM.mp3”, un’analisi del file e network sharing sulla rete. Dal 2005 fa parte del comitato scientifico della New Media International School dell’Università di Lubecca. Nel 1998 ha ricevuto l’incarico, da parte della Commissione Europea, di effettuare una valutazione sulle future strategie per i musei europei che lavorano con i new media. Dal 1994 ha lavorato come curatrice indipendente per istituzioni internazionali come la Schirn Kunsthalle di Francoforte, il Museum für Moderne Kunst di Vienna, il Museo Nacional Reina Sofia di Madrid e la Fundación la Caixa a Palma di Maiorca.
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Con la grande mostra dedicata ad Ai Weiwei (23 settembre 2016-22 gennaio 2017) per la prima volta Palazzo Strozzi diventa uno spazio espositivo unitario che comprende facciata, Cortile, Piano Nobile e Strozzina.
L’arte contemporanea esce dalla Strozzina e si espande sia a livello espositivo che di comunicazione, in uno scenario in cui Palazzo Strozzi partecipa attivamente all’avanguardia artistica del nostro tempo.
Per questo motivo le informazioni relative alla mostra Ai Weiwei. Libero e il programma di mostre e attività future dedicato all'arte contemporanea saranno consultabili direttamente al sito www.palazzostrozzi.org e sui canali social di Palazzo Strozzi.
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