Ulrich Beck

Ulrich Beck

Lo sguardo cosmopolita

Estratto dal catalogo Territori instabili, ed. Mandragora, Firenze, 2013.

Non viviamo in un’era di cosmopolitismo ma in un’era di cosmopolitizzazione: l’altro globale è in mezzo a noi

Il collasso di un ordine mondiale è spesso l’occasione per riflettere sulla teoria e sulla ricerca sociale dominanti del momento: sorprendentemente, questo non succede oggi. La teoria sociale dominante sta ancora volteggiando altezzosamente sulle distese di trasformazioni epocali (cambiamento climatico, crisi finanziaria, Stati nazionali) in una condizione di superiorità universalista e di sicurezza istintiva. Questa teoria sociale universalista, che sia strutturalista, interazionista, marxista, critica o sistemica, è oggi obsoleta e provinciale. Obsoleta, perché esclude a priori ciò che può essere osservato empiricamente: una trasformazione fondamentale della società e della politica “all’interno” della modernità (dalla prima alla seconda modernità); provinciale, perché assolutizza erroneamente la traiettoria, l’esperienza storica e le attese future della modernizzazione occidentale, cioè prevalentemente europea o nordamericana, e pertanto non riesce nemmeno a vedere la propria particolarità. Ecco perché abbiamo bisogno di una svolta cosmopolita nella teoria e nella ricerca politica e sociale (Beck e Grande 2010a): come possono la teoria politica e sociale aprirsi, tanto teoricamente ed empiricamente quanto metodologicamente e normativamente, a modernità storicamente nuove e intrecciate che minacciano i loro stessi fondamenti? Come possono spiegare la fragilità e la mutevolezza radicali delle dinamiche sociali del dominio e del potere, nel momento in cui queste sono modellate dalla globalizzazione del capitale e dei rischi all’inizio del XXI secolo? Quali problemi teorici e metodologici sorgono, e come possono essere affrontati nella ricerca empirica? Qui voglio discutere queste questioni in cinque step.

Primo, metterò in discussione uno degli assunti più potenti sulla società e sulla politica, che vincola sia gli attori sociali, sia gli scienziati sociali: il nazionalismo metodologico. Il nazionalismo metodologico interpreta la società moderna come una società organizzata in Stati nazionali territorialmente delimitati. Secondo, propongo di tracciare una distinzione essenziale tra cosmopolitismo in un senso filosofico normativo e la cosmopolitizzazione come programma di ricerca nelle scienze sociali. Terzo, illustrerò questo cambiamento di paradigma rimappando le disuguaglianze sociali e quarto, discuterò la società mondiale del rischio e la sua dinamica politica. Quinto e ultimo, affronterò la questione: che cosa implica una “visione cosmopolita” per le scienze sociali e umanistiche all’inizio del XXI secolo?

1. Critica del nazionalismo metodologico

Nel 1986, nel mio libro Risk Society (La società del rischio), sostenevo che esiste un cambiamento epocale dalle società industriali alle società del rischio. Le prime erano basate sull’industria e sulle classi sociali, sullo Stato sociale e sulla distribuzione di vari “beni” (in quanto opposti ai mali) organizzati e distribuiti attraverso lo Stato: in particolare la salute, un’istruzione diffusa e forme eque di assistenza sociale. Le società erano organizzate dallo Stato, si condivideva un destino nazionale e c’erano movimenti politici di larga scala, basati soprattutto sulle divisioni di classe, che combattevano per la distribuzione dei vari “beni”. Nel secondo dopoguerra, in quelle società industriali in Europa occidentale c’era un accordo di Stato sociale basato sul raggiungimento di una distribuzione più equa di quei beni.

Al contrario, il concetto di “società del rischio” si basa sull’importanza dei “mali” rischio sono fondate sulla distribuzione dei mali che scorrono all’interno dei vari territori e tra un territorio e l’altro, senza essere limitati nei confini di una singola società. Le radiazioni nucleari sono un esempio cruciale di questi fenomeni, ma anche i rischi finanziari, il riscaldamento globale, la SARS1 e così via. Questi rischi non possono essere confinati in nessuno spazio scientifico e in nessun segmento temporale attuale. Contro questi rischi, dunque, non ci si può assicurare. Sono incontrollati e hanno conseguenze incalcolabili.

Il tema della  “sconfinatezza” della società del rischio e gli scritti di molti altri hanno dato impulso all’analisi delle implicazioni della “globalizzazione” relativamente alla sociologia. Da allora, ho prestato particolare attenzione alla natura e ai limiti del nazionalismo metodologico: che cosa significa e che cosa ha di sbagliato?

In breve: il nazionalismo metodologico ipotizza che la Nazione, lo Stato e la Società siano le forme sociali e politiche “naturali” del mondo moderno. Dove gli attori sociali sottoscrivono questa convinzione, parlo di “sguardo nazionale”; laddove essa determini la prospettiva degli osservatori scientifici della società, parlo di “nazionalismo metodologico”. È essenziale distinguere tra la prospettiva dell’attore sociale e quella dello scienziato sociale, perché la connessione tra le due è meramente storica, non logica. Basta questa connessione storica tra attori sociali e scienziati sociali a far nascere l’assiomatica del nazionalismo metodologico. Il nazionalismo metodologico non è un problema superficiale, né un errore di poco conto. Riguarda sia le procedure della raccolta e della produzione di dati, sia i concetti basilari della sociologia e della scienza politica moderne, come società, classe sociale, Stato, famiglia, democrazia, relazioni internazionali, ecc.

Inoltre, i sociologi tendevano a generalizzare, partendo dalla “loro” società particolare, elaborando una teoria su come la “società” in generale è organizzata (questo vale anche per il mio libro Risk Society). La sociologia americana, in particolare, si è sviluppata in questo modo, presumendo che tutte le società fossero più o meno come quella degli Stati Uniti, solo più povere! Era perfettamente possibile studiare quella particolare società e poi generalizzare, come se tutte le altre, o almeno la maggior parte (almeno quelle che contavano!) fossero, tutto sommato, identiche. Questo ha portato a dibattiti sulla natura generale dell’ordine o del conflitto all’interno della società basati sul tipico schema statunitense. Le teorie dell’ordine e del conflitto dovevano essere collaudate all’interno degli USA; si presumeva poi che queste conclusioni si potessero generalizzare a tutte le società o, per lo meno, a tutte le ricche società industriali. Per decenni la sociologia ha funzionato così; era il modo scontato di fare sociologia, fino all’ingresso dei global studies.

2. Come si ricerca la “cosmopolitizzazione realmente esistente”?

Possiamo distinguere tre fasi nell’impiego della parola “globalizzazione” nelle scienze sociali: la prima, di negazione, la seconda, di raffinamento concettuale e di ricerca empirica, la terza, di “cosmopolitizzazione”. La negazione iniziale è finita perché il raffinamento teorico ed empirico ha rivelato un nuovo panorama sociale in via di creazione (Held et al, 1999). Tra le sue caratteristiche dominanti c’è l’interconnessione, cioè il contatto e interdipendenza tra gli esseri umani da una parte all’altra del globo. Di fatto, tutta la gamma delle esperienze e delle attività umane è influenzata, in un modo o nell’altro, dalla schiacciante interconnettività del mondo. (Ciò non dovrebbe essere confuso con il sistema mondiale e le teorie della dipendenza.)

La terza fase rivela la conseguenza fondamentale, non vista e non desiderata, di questa interconnettività globale: la cosmopolitizzazione realmente esistente, la fine dell’altro globale. L’altro globale è qui in mezzo a noi. Questo è precisamente il mio punto: distinguere chiaramente tra cosmopolitismo filosofico e cosmopolitizzazione nelle scienze sociali.

Il cosmopolitismo nel senso della filosofia di Immanuel Kant (1957[1795]) e di Jürgen Habermas (1997) ha un significato attivo, indica un compito, una scelta consapevole e volontaria, chiaramente la decisione di un’élite, un’indicazione dall’alto verso il basso. Nella realtà di oggi, comunque, una cosmopolitizzazione “banale”, “forzosa” e “impura” si dispiega senza essere vista e senza essere desiderata, potente e aggressiva sotto la superficie o dietro la facciata della persistente nazionalità degli spazi, delle giurisdizioni e delle etichette. Si estende dall’apice della società fino alla vita quotidiana nelle famiglie, nelle situazioni di lavoro e nelle biografie individuali, anche quando le bandiere nazionali continuano a sventolare e anche se si riaffermano con forza gli atteggiamenti, le identità e le coscienze nazionali. Scendiamo più nel dettaglio:

Cucina

Una cosmopolitizzazione banale si vede, ad esempio, nella vasta gamma di cibi e cucine normalmente disponibili nella maggior parte delle grandi e piccole città in tutto il mondo. Se si ha abbastanza denaro è possibile “mangiare il mondo”.

Migrazione

I migranti organizzano una sorta di “mobilità verso l’alto oltre i confini nazionali” per se stessi e le loro famiglie. In questo modo diventano artisti di confine. Descrivendo i “transmigranti” come un rischio per la sicurezza politica, come socialmente marginali e come un’eccezione alla regola del confinamento territoriale, gli studi dominanti di teoria delle migrazioni hanno rispecchiato e affermato l’immagine nazionalista della vita normale (Wimmer e Glick Schiller 2003).

Lavoro e lavoratori

Le aziende transnazionali, cercando forza lavoro a minor prezzo, stanno esternalizzando posti di lavoro verso Paesi esteri. Durante la prima modernità, i confini nazionali hanno ridotto la concorrenza internazionale tra ogni categoria di lavoratori di nazionalità diverse. Nella seconda modernità, il capitalismo che esternalizza induce alla concorrenza tra la forza lavoro interna ed estera di molte categorie (stesse qualifiche, minor reddito). Qui si ha una cosmopolitizzazione forzata che si dispiega senza essere desiderata e spesso senza essere vista sotto la superficie degli spazi nazionali, con impatti terribili. Questa cosmopolitizzazione della forza lavoro non implica il cosmopolitismo, ma è lo sfondo per la rinazionalizzazione, soprattutto nell’antico centro del mondo.

Amore

Si può osservare una cosmopolitizzazione dell’amore? Sì, si può. La fede nell’o/o, che una volta era presa come una verità manifesta (o noi o loro, o qui o là) sembra essere in declino, se non di fatto sparita dall’orizzonte dell’amore. Ora niente sembra separare più gli esseri umani in alcun modo assoluto, né il colore della pelle, né l’ostilità nazionale, né le differenze religiose né le distanze tra i continenti, e così via. Al contrario, gli esseri umani sono sensibili all’attrazione e addirittura alla seduzione delle possibilità illimitate che vedono nell’altro globale, in quelli che sono lontani: lamore a distanza (Beck e Beck-Gernsheim 2011). Ciò spiega la sparizione delle lontananze insuperabili: siccome ora esse appaiono superabili, sembra che siano effettivamente superate.

L’elemento chiave che ci permette di valutare le dimensioni dei nuovi panorami che si stanno aprendo per l’amore e la famiglia è il seguente: l’unità di lingua, passaporto, colore della pelle e struttura familiare che aveva apparentemente prevalso come modello nazionale della famiglia dalla notte dei tempi è ora al collasso.

L’amore a distanza e le famiglie globali non sono più fenomeni marginali; da molto tempo hanno conquistato una posizione al cuore della “maggioranza della società”. “L’altro globale è in mezzo a noi” acquisisce qui un significato letterale, intimo, familiare. Nostro cognato adesso ha una moglie thailandese. Una donna polacca è stata assunta per prendersi cura del nonno. Nostra nipote ha recentemente cominciato a vivere con un teologo del Togo. Ma dov’è il Togo? Come mai lui è qui? È qui in cerca di un permesso di soggiorno o per “vero amore”?

Che cosa intendo per “famiglie globali”? Le famiglie globali incarnano le contraddizioni del mondo e queste contraddizioni sono elaborate in esse. Non tutte le famiglie incarnano tutte le contraddizioni, ma ognuna ne incarna qualcuna. Per esempio, ci sono matrimoni, genitori e coppie con doppia nazionalità, che possono incarnare le tensioni tra due Paesi o tra le comunità di maggioranza e di minoranza in quei Paesi, mentre le famiglie di immigrati possono assorbire le tensioni tra il centro e la periferia. Le famiglie globali e le relazioni a distanza rispecchiano uno stato di ignoranza che è stato programmato a livello nazionale e fissato nelle leggi. Ne deriva che l’amore e la famiglia diventano lo sfondo su cui sono sopportate e risolte le “ferite culturali”, la rabbia e il rancore che le ineguaglianze globali e la loro storia imperiale continuano a generare negli animi dei viventi ancora oggi.

Le famiglie globali, dunque, non sono famiglie con potere globale, né famiglie con orizzonti globali; né sono famiglie di un solo mondo, né famiglie di cittadini del mondo. Potremmo piuttosto chiamarle famiglie che incarnano conflitti mondiali, famiglie cariche di avventure mondiali o anche famiglie che cercano la fortuna nel mondo, famiglie che cercano di trasformare in “oro” la povertà e il conflitto. Ma ciò che dimostrano è che l’immagine universale della buona famiglia che abbiamo sempre data per scontata attraversa ora un’evoluzione radicale, e questo sviluppo ha qualche responsabilità per le reazioni fondamentaliste e i movimenti contrari.

E c’è anche una cosmopolitizzazione della maternità. La riproduzione medicalmente assistita apre un mondo inesplorato di opzioni (che non sappiamo come chiamare!): la “madre che dona l’ovulo” o la “madre surrogata”; nascono espressioni come: “Mia madre era una donatrice di ovuli spagnola” o “mia madre era una madre surrogata indiana”. Così dalla manipolazione bio-scientifica la disuguaglianza globale viene incorporata nel corpo e nell’identità degli esseri umani.

Reni

La vittoria del trapianto medico (e non la sua crisi!) ha rimosso i suoi fondamenti etici e ha spianato la strada a un’economia parallela nascosta, che rifornisce di organi “freschi” il mercato mondiale. In un mondo radicalmente disuguale, ovviamente, non mancano mai individui disperati disposti a vendere un rene, una porzione del loro fegato, un polmone, un occhio o anche un testicolo per somme ridicole. Il destino dei pazienti disperati in attesa di organi si è oscuramente intrecciato con il destino di esseri umani poveri e non meno disperati, dato che entrambi i gruppi lottano per trovare una soluzione a problemi basilari di sopravvivenza. Questo è ciò che crea l’era dell’e: un cosmopolitismo di deprivazione, impuro e realmente esistente.

In un affascinante caso studio, l’antropologa Nancy Scheper-Huges (2005) ha mostrato come gli esclusi del mondo, i diseredati economicamente e politicamente (i rifugiati, i senzatetto, i bambini di strada, i lavoratori illegali, i carcerati, le prostitute che invecchiano, i contrabbandieri di sigarette e i ladri di piccolo calibro) siano indotti a vendere i loro organi e a finire così “incarnati” fisicamente, moralmente ed economicamente in corpi dallo spessore mortale e in persone dalla ricchezza sufficiente a comprare e “incorporare” gli organi di poveri altri globali.

Nel nome dell’ideologia neo-liberista del libero mercato e del diritto democratico basilare alla scelta illimitata, i valori fondamentali della modernità, come la sovranità sul corpo, l’essere umano e il significato della vita e della morte, sono in corso di eliminazione, senza che nessuno se ne accorga, e tantomeno riconosca questo fenomeno per quello che è: un processo che simboleggia la nostra epoca.

Viviamo nell’era dell’e ma pensiamo con le categorie dell’o/o. La nozione di ‘e’ non è concepita per trasmettere il superficiale messaggio politico che “siamo tutti connessi”; nemmeno si riferisce allo ‘e’ inclusivo o sintetizzante che normalizza l’imperialismo e le relazioni di potere esistenti puntando agli organi “di ricambio” degli “altri globali” che salvano la vita. La nozione di e/e discontinuo e contraddittorio che ho in mente racchiude cosmopolitismo “impuro” e commercio, consenso e coercizione, dono e furto, scienza e stregoneria, cura e sacrificio umano. Questo cosmopolitismo dei “reni viventi” impuro, banale, coercitivo, sporco e cruento ha “colmato” l’o/o tra nord e sud, centro e periferia, ricchi e poveri, libertà illimitata e feticismo per le merci.

Nelle forme corporee individualizzate dell’e, tutti i continenti, le razze, le classi, le nazioni e le religioni vengono fuse. Reni di musulmani purificano il sangue di cristiani. Razzisti bianchi respirano con l’aiuto di uno o due polmoni neri. Il manager biondo guarda il mondo con l’occhio di un bambino di strada africano. Un milionario mondano sopravvive grazie al fegato estratto da una prostituta protestante che vive in una favela brasiliana. I corpi dei ricchi sono trasformati in tappeti patchwork. I poveri, al contrario, sono stati mutilati in potenziali o effettivi depositi di pezzi di ricambio con un occhio solo o un rene solo, e questo è accaduto “per loro libera scelta” e “per il loro bene”, come i ricchi malati continuano a ripetersi. La vendita pezzo a pezzo dei loro organi è la loro assicurazione sulla vita. All’altro capo del processo, emerge il “cittadino del mondo” bio-politico: il corpo di un maschio bianco, in forma o grasso, con l’aggiunta di un rene indiano o di un occhio musulmano, e così via. In generale, la circolazione dei reni viventi segue le vie consolidate del capitale: da sud a nord, da corpi poveri a corpi più ricchi, da corpi neri e olivastri a corpi chiari, e da donne a uomini, o da uomini poveri a uomini più ricchi. Le donne sono raramente le beneficiarie degli organi comprati in giro per il mondo. Da questo segue che l’era dell’e è divisa e ricombinata in nazioni che vendono organi e nazioni che li comprano.

Anche le fantasie infernali di Hieronymus Bosch, le visioni da incubo divinatorio di Francisco de Goya con il loro motto “Il sonno della ragione genera mostri” o l’immagine della guerra contemporanea in Guernica di Picasso riconoscono ancora, con tutta la loro negatività, l’ordine morale mondiale di Paradiso e Inferno, ragione e follia, guerra e pace. Questo ordine mondiale, invece, si disintegra nello strano cosmopolitismo dei reni “freschi” della nostra epoca.

 

Ulrich Beck (1944, Stolp, Pomerania, Germania – ora Slupsk, Polonia) è ordinario di Sociologia alla Ludwig Maximilian Universität di Monaco e, dal 2013 è ricercatore capo nel progetto ERC: “Cosmopolitismo metodologico – Nel laboratorio del cambiamento climatico”. Dal 1997 è stato British Journal of Sociology Visiting Centennial Professor alla London School of Economics e, dal 2011, anche professore alla Fondation Maison des Sciences de l’Homme a Parigi. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi internazionali. Le sue pubblicazioni includono: Risk Society (Sage, 1992; trad. it. La società del rischio: verso una nuova modernità, Carocci, Roma, 2000); What is Globalization? (Polity, 2000; trad. it. Che cos’è la globalizzazione, Carocci, Roma, 1999/2009); Individualization (con Elisabeth Beck-Gernsheim; Sage, 2002); Power in the Global Age (Polity, 2005; trad. it. Potere e contropotere nell’età globale, Laterza, Roma – Bari, 2010); The Cosmopolitan Vision (Polity, 2006; trad. it. Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma, 2005); Cosmopolitan Europe (con Edgar Grande; Polity, 2007; trad. it. L’Europa cosmopolita: società e politica nella seconda modernità, Carocci, Roma, 2006); World at Risk (Polity, 2009; trad. it. Conditio humana: il rischio nell’età globale, Laterza, Roma – Bari, 2011); A God of One’s Own (Polity, 2010; trad. it. Il Dio personale: la nascita della religiosità secolare, Laterza, Roma – Bari, 2009); Distant Love (con Elisabeth Beck-Gernsheim; Polity, 2013; trad. it. L’amore a distanza: il caos globale degli affetti, Laterza, Roma – Bari, 2012); German Europe (Polity, 2013; trad. it. Europa tedesca: la nuova geografia del potere, Laterza, Roma – Bari, 2013).

 



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