Walter Guadagnini

Walter Guadagnini
Il n’y a plus des Pyrénées

Estratto dal catalogo Territori instabili, ed. Mandragora, Firenze, 2013.

Da qualunque punto di vista, con qualsiasi chiave di lettura lo si voglia affrontare, il tema del confine – e i numerosi a esso collegati – si presenta oggi con la caratteristica primaria del paradosso, di un’ambiguità di lettura e di definizione che lo rende particolarmente affascinante anche se apparentemente sin troppo frequentato, tanto dagli studiosi quanto dagli artisti.

Il paradosso primario è senza dubbio quello per cui l’esistenza di confini politici, fisici – a causa dei quali continuano ancora oggi a scatenarsi conflitti e intere popolazioni vivono drammi reali – convive con una conformazione sociale, in particolare negli ambiti dell’informazione e dell’economia, che attraverso l’utilizzo della tecnologia ha abbattuto l’idea stessa della possibilità di porre limiti al flusso di notizie e di denaro attraverso gli Stati.

È questo un paradosso derivante dei più recenti sviluppi dell’informatica, ma è anche, a ben vedere, uno degli elementi costitutivi, ontologici, dell’idea stessa di confine, della sua esistenza: sia che lo si intenda in senso fisico, sia che lo si intenda come metafora, il confine esiste per essere attraversato, esiste solamente attraverso la sua negazione, o quantomeno il suo superamento. Se il confine rimane intatto, se all’interno della linea di demarcazione non vi è un punto attraverso il quale passare, ciò che sta all’interno di quella linea – ideale o concreta che sia – è destinato, in tempi più o meno lunghi, ad atrofizzarsi e a morire.

Il confine implica evidentemente un dentro e un fuori (se inteso sul piano simbolico, un prima e un dopo), un al di qua e un al di là, che chiamano in questione innanzitutto il rapporto con l’Altro da sé, con una alterità che, a sua volta, è condizione essenziale per l’esistenza della linea di divisione. In assenza dell’Altro, non ha senso la presenza di un sistema di esclusione e di inclusione quale quello previsto dal confine. Allo stesso modo e allo stesso tempo, questo rapporto – che sia conflittuale o pacifico – è destinato, dal punto di vista del corpo sociale e politico, a vivere a sua volta di mutamenti e di trasformazioni. Creato per chiudere, il confine finisce sempre per indurre all’apertura e soprattutto al cambiamento.

Diventa allora paradossalmente la figura del mutamento, che trova una sua letterale incarnazione nella pelle, che insieme separa e unisce il corpo all’ambiente circostante. Le parole di Giuseppe Penone, un artista italiano che ha elaborato una parte cospicua della propria ricerca intorno a questo tema, possono aiutare a chiarire il pensiero: «La pelle è limite, confine, realtà di divisione, il punto estremo in grado di addizionare, sottrarre, dividere, moltiplicare, annullare ciò che ci circonda, il punto estremo in grado di avvolgere fisicamente estensioni enormi, contenuto e contenitore. La mobilità permette all’uomo di contenere una grande quantità di cose con la stessa pelle in momenti diversi e continui, con il contatto, l’impressione, la conoscenza, la scoperta, la presa, la repulsione…, azioni che sono un continuo sviluppo o svolgimento della propria pelle su altre cose o su stessa». La riflessione affronta da un punto di vista analogo anche la questione della vista : «Le lenti a contatto specchianti coprono l’iride e la pupilla, indossandole mi rendono cieco. […] poste sull’occhio, indicano il punto di divisione, di separazione da ciò che mi circonda. Sono come la pelle un elemento di confine, l’interruzione di un canale di informazione che usa come medium la luce. La loro caratteristica specchiante fa sì che l’informazione giunta al mio occhio venga riflessa».

Ciò che le due citazioni mettono in evidenza è la complessità della definizione di confine, e la sua presenza all’interno di ogni momento della nostra esistenza. Il confine presente in noi stessi (la pelle) può essere creato artificialmente interrompendo il flusso della comunicazione (le lenti specchianti). Però mentre la prima condizione ha valenze positive in termini di rapporto con il mondo e con l’Altro, la seconda lascia intendere una negatività di fondo, rappresentata da una cecità che non è quella del poeta visionario, ma è quella che impedisce il rapporto, l’attraversamento.

È su tale differenza, che investe tanto la dimensione spaziale quanto quella temporale, che si misura la contradditorietà del termine, a partire dalla sua ineludibilità relativamente a qualsiasi discorso sull’umano. Un discorso che peraltro investe direttamente la conformazione stessa del mondo ed è difficilmente contestabile, nonostante tutto, in termini politici : la presuntuosa affermazione messa in bocca a Luigi XIV da Voltaire, «il n’y a plus des Pyrénées» (non ci sono più i Pirenei), è destinata a essere smentita dalla presenza di quella catena montuosa che continua a incidere sui popoli che vivono in quell’area, indipendentemente dai matrimoni regali o dalle decisioni politiche che si susseguono nel corso del tempo.

Insomma, da qualunque prospettiva si affronti la questione, il superamento del limite convive con la sua affermazione: quando questi due elementi assumono una dimensione sociale, tale contraddizione è destinata a esplodere. Ogni linea di demarcazione tracciata, ogni muro alzato, fisico o simbolico che sia, porta con sé il soggetto che li vuole attraversare, e la conseguenza di queste azioni e reazioni può essere solo il mutamento o il conflitto. Per questo motivo i territori di confine sono i più instabili e, per questo, alcuni artisti hanno concentrato sul corpo una parte cospicua del pensiero e dell’azione artistica, come evidenziano i casi di Sigalit Landau e Kader Attia. Nella Landau è facile riconoscere un agire politico a partire dall’esperienza del proprio corpo, che si carica a sua volta di rapporti con il contesto naturale e con le memorie collettive dei luoghi; mentre in Attia è il corpo delle vittime della storia che diviene tramite di un discorso politico sviluppato attraverso diverse forme di apparizione, che trovano continuità in una frase emblematica, usata dall’artista in differenti occasioni, “the body as object and target of power” (il corpo come oggetto e obiettivo del potere).

Proprio l’inestricabile unione di valori individuali e di valori collettivi ha fatto sì che queste tematiche siano presenti da sempre nella narrazione del mondo, sia in quella storica – dove le cartine geografiche con le costanti modifiche dei confini politici rappresentano la migliore illustrazione di quanto affermato sinora – sia in quella artistica e filosofica, dall’hic sunt leones alla Linea d’ombra di Joseph Conrad. Certo, e non a caso, il primo modello ha un riferimento diretto e preciso a un confine di ordine naturale, esistente per ragioni culturali, ma anche e soprattutto per ragioni tecnologiche; mentre il secondo ha primariamente un significato culturale, sebbene riferito all’individuo, come se alla soluzione della questione tecnologica (le colonne abbattute dal progresso scientifico) facesse seguito l’aprirsi di quella psicologica. Certo, anche l’innominato protagonista della novella di Conrad si rapporta con la natura, ma il confine che deve superare è al suo interno e il confronto, oltre che con la malattia e con l’ostilità degli elementi, è con lo sconfinamento dalla normalità avvenuto nella psiche di chi lo ha preceduto al comando della nave e con il primo ufficiale.

Linea d’ombra narra dei riti di passaggio che si collegano all’idea e alla natura del viaggio, a quel percorso di distacco, transito e arrivo che ha innervato la letteratura sin dalle sue lontane origini nei miti di Gilgamesh e Ulisse. Anche questi elementi sono parte integrante della individuazione di una tematica del confine all’interno della società contemporanea, che peraltro, nei confronti del movimento, del viaggiare ha atteggiamenti paradossali, fondati su una sorta di sdoppiamento della personalità collettiva. La società capitalista, più di ogni altra prima, ha consentito il viaggio; e in essa gli spostamenti delle merci e delle persone – e con essi delle idee – sono stati rivendicati come valori assoluti, come fondamenti sui quali costruire la narrazione della bontà della società stessa che li promuoveva (in antitesi, ad esempio, alla chiusura del blocco comunista così efficacemente rappresentata dal Muro di Berlino). Attraversati e poi superati i sensi di colpa del colonialismo, la trasformazione del Grand Tour in turismo di massa – avvenuta a partire dalla metà del XIX secolo, in singolare e paradigmatica coincidenza con la nascita e la diffusione della fotografia – ha compiuto l’opera definitiva di anestetizzazione del viaggio, o quantomeno di quella parte fondamentale che è rappresentata dal tempo del transito ma, per pure ragioni di economicità, ha anche diminuito la percezione dei confini tra le entità statali.

Dal punto di vista europeo, la conclusione apparentemente trionfale di questo percorso è stata rappresentata dalla caduta del Muro e dalla successiva nascita dell’Europa di Schengen (apparenza ottenuta grazie alla rimozione collettiva della tragedia balcanica, guerra di etnie e confini).

L’ulteriore paradosso di questa vicenda sta, evidentemente, nella considerazione che negli stessi anni venivano costruiti nuovi muri qua e là per il mondo – esemplare rimane quello alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, poiché non è nemmeno giustificato dalla complessità storica, ad esempio, della situazione israelo-palestinese – e soprattutto venivano costruiti muri all’interno delle città, a dividere gli spazi in pura chiave di esclusione, non solo peraltro dalle classi alte verso quelle basse, ma anche all’interno di una stessa classe. Si tratta di una raffigurazione plastica di una immobilità che da fisica si fa sociale, una immobilità che deriva dalla mobilità dei flussi migratori, e che proprio perciò si rivela perdente, almeno nel lungo periodo, ma che, per quanto riguarda lo specifico ambito culturale, ha dato vita a ulteriori narrazioni e a ulteriori forme di rappresentazione, che tengono conto di questa complessità sociale.

Queste considerazioni valgono in relazione alla domanda primaria alla quale la mostra “Territori Instabili” cerca di fornire alcune risposte, vale a dire: in quale modo alcuni artisti reagiscano a queste condizioni e a questi paradossi? E allo stesso tempo quante di queste condizioni e di questi paradossi sono riscontrabili nella ricerca artistica contemporanea?

La prima considerazione merita di essere fatta a proposito dell’attraversamento disciplinare messo in atto da tutti gli autori invitati, escludendo l’opera rigorosamente ed esclusivamente fotografica di Jo Ractliffe. A oltre un secolo dall’apparizione delle avanguardie e dei loro postulati, questa affermazione può apparire banale, ma è innegabile che anche sul tema della interdisciplinarietà l’ultimo decennio abbia visto mutazioni non marginali, se non addirittura epocali. È questione di strumenti e di spazi, in effetti, come nel caso del rapporto tra fotografia e video, che può essere letto in una chiave totalmente nuova a partire dall’immissione sul mercato di macchine che compiono entrambe le operazioni, la ripresa fotografica e quella video, senza che l’utilizzo dell’una prevalga sull’altra.

Non è solo questione, pur significativa, di qualità del prodotto finale, ma si tratta di un elemento che incide sull’atteggiamento nei confronti del linguaggio, è un elemento materiale che diviene concettuale proprio perché ha eliminato un confine che è sempre rimasto tale, quello tra l’immagine fissa e l’immagine in movimento. Nessuna delle due, oggi, può essere uguale a prima, perché all’interno della loro lingua è già presente, in origine, anche l’altra, e le scelte nascono dunque su una base differente, sulla base, sostanzialmente, del possibile e non del necessario.

Inoltre, è chiaro che tale duplice natura del mezzo produttivo porta con sé anche una remise en question dei canali di diffusione, con conseguenze se possibile ancora più profonde sulla natura stessa delle opere realizzate.

Ancora una volta, semplificando ma non troppo, diventa una questione relativa ai confini, a partire da quelli degli spazi espositivi, che non sono più in grado di contenere per intero prodotti nati e costruiti attraverso linguaggi, e pensando agli utenti, che sono differenti, almeno in origine, da quelli appartenenti al campo tradizionale del mondo artistico. Le strategie sono senza dubbio diverse, e vanno dalla strumentazione adottata ai linguaggi formali sino all’inglobamento nel processo creativo o operativo di figure diverse da quella dell’artista, così come risulta omologata dal sistema. Il risultato è, a livello macroscopico, quello di una diffusione non tanto più vasta in termini quantitativi, quanto maggiore in termini di natura dei luoghi coinvolti, siano essi fisici che immateriali.

Il tema della diffusione, quando si affrontano produzioni artistiche, che per soggetto e per ammissione degli stessi autori si riferiscono direttamente o indirettamente a temi di carattere sociopolitico, è assolutamente centrale, e merita un approfondimento. Lavori come “Chicago” di Broomberg & Chanarin e “The Enclave” di Richard Mosse affrontano tematiche che, per tradizione, sono legate alla pratica del fotogiornalismo. Entrambi sono fortemente legati all’attualità, entrambi propongono temi sufficientemente circoscritti per prestarsi a una trattazione giornalistica, entrambi sono ripresi direttamente nelle aree considerate. A fronte di queste caratteristiche, le fotografie di Broomberg & Chanarin sono state esposte solamente all’interno di spazi artistici, in particolare museali, mentre il lavoro di Richard Mosse ha avuto una destinazione sulla stampa nella sua forma fotografica, ma chiaramente la sua natura di complessa e spettacolare macchina visiva e sonora è destinata a una proiezione anch’essa museale, come ha dimostrato la recente presentazione alla Biennale veneziana.

In entrambi i casi, si assiste a una volontaria rinuncia – in Mosse parziale, nel duo inglese totale – alla grande diffusione garantita dalla stampa periodica mainstream, in favore della maggiore libertà espressiva e della maggiore concentrazione di lettura che vengono permesse dallo spazio artistico. È una rinuncia che ricorda quella che caratterizza il momento della partenza per un viaggio, la perdita delle certezze, il distacco dalle rassicuranti abitudini legate a un luogo conosciuto, una scelta che si pone sotto il segno iniziale della perdita, ma che lungo il viaggio diviene una conquista, la formazione di una nuova identità, che in questo caso è l’identità nuova della fotografia documentaria: «Nel 1960 John Cage compose il suo pezzo oramai leggendario 4 minuti e 33 secondi di silenzio, nel quale un pianista sale sul palco, apre il pianoforte, si siede per quella durata di tempo prima di richiuderlo e andarsene. Tutto quello che si è ascoltato è il rumore nell’ambiente delle persone che sfogliano il programma, della pioggia che batte sul tetto… Cage ci chiedeva di ascoltare, di aspettare. Per Cage, ma anche per i minimalisti, il vuoto di una scultura fatta di lastre di metallo o il silenzio durante una performance musicale non sono semplicemente negazione o privazione, ma un invito a contemplare. A guardare più profondamente ».

In questo modo si comprende il lavoro di “Chicago”, a prima vista di difficile decifrazione, così come quello di Jo Ractliffe sulle conseguenze della “guerra dei confini” combattuta tra Angola, Sudafrica, Namibia, con la partecipazione di centinaia di migliaia di soldati cubani, negli anni finali della Guerra Fredda e oltre.  Queste immagini necessitano di didascalie e concentrazione, di tempo, di uno spazio come quello del museo, che in questo modo assume l’identità di uno spazio di libertà, dove si possa sviluppare un discorso critico altrimenti negato. Anche questa è una delle conseguenze possibili della continua ricerca di nuove identità e nuovi spazi, che nascono dalla nuova conformazione dell’informazione e dei suoi meccanismi.

In Broomberg & Chanarin questo atteggiamento incide profondamente sullo stile, sulla formazione dell’immagine, che si costituisce sui modelli della comunicazione interna al campo prescelto, vale a dire quello artistico: i tre wallpapers esposti in questa occasione ne sono l’esempio più lampante.

Il caso di Mosse è per molti aspetti diverso, perché il fotografo e cineasta irlandese pare invece forzare il linguaggio della tradizione fotogiornalistica, facendolo implodere su se stesso, trasformandolo in una visione allucinata, la cui irrealtà cromatica appare come una metafora della irrealtà della violenza incontrata e rappresentata. Anche Mosse costruisce un apparato retorico e strumentale pienamente inserito nel campo artistico, e anche lui prende sostanzialmente le mosse dal linguaggio fotogiornalistico, ma vi reagisce esasperandolo, e accettando di affrontare il soggetto ancora direttamente, frontalmente; mentre Broomberg & Chanarin elaborano una strategia della visione che assume il dettaglio – spesso apparentemente insignificante – come traccia dell’intero, come indizio e non come prova. Sono comunque guerre drammaticamente attuali quelle affrontate da questi artisti; mentre Ractliffe e The Cool Couple mettono in scena la memoria, agiscono sugli spazi e sui tempi di eventi passati, conferendo loro carattere di esemplarità. Anche in questo caso, ciò che conta sono le strategie di rappresentazione, che nel duo italiano riportano la questione sui confini dell’agire artistico all’intersezione delle discipline, se è vero che in questo lavoro si trovano ricerche d’archivio, testimonianze dirette, materiali storici e fotografie d’autore. La specializzazione individuale sembra lasciare il campo a una somma di conoscenze che costruiscono una trama di saperi di difficile definizione, ma il cui scopo è quello di forzare i confini dello spazio museale per dilagare al di fuori, in un costante movimento di andata e ritorno tra l’esperienza della ricerca storica e quella di una formalizzazione estetica comunque avvertita come necessità primaria al compimento di senso della prima.

Questa dialettica tra interno ed esterno trova differenti incarnazioni nelle opere di Ressler e Begg, di Kawamata, di Nazareth e di Cirio, i cui destini non si possono racchiudere all’interno di un luogo espositivo. La coppia austriaca-neozelandese compie una scelta ideologica precisa e non mediata, proponendo la forma del documentario con poche varianti linguistiche rispetto alla sua conformazione classica, seppure estremamente importanti: dai disegni della Begg all’assenza della voce narrante e di una colonna sonora tradizionale, fino ai gesti astratti delle mani attorno ai passaporti. Una forma che, per dichiarazione dello stesso Ressler, immagina di andare a cercare il proprio pubblico anche, e forse soprattutto, fuori dal museo, utilizzando i canali di comunicazione ai quali questo linguaggio è tradizionalmente destinato. Ovviamente, dato l’assunto politico del filmato, la sua presenza al di fuori del museo può avere diversi significati: se proiettato e diffuso all’interno di canali appartenenti all’informazione ufficiale, risulterà come un virus innestato nel corpo “sano” della informazione di regime, se invece continuerà la sua esistenza nei canali della informazione alternativa e antagonista, risulterà come un tassello conoscitivo in più in una comunità già predisposta a questi contenuti. In ogni caso “The Right of Passage”, perfetto gioco di parole che permette anche di riallacciarsi alle considerazioni sviluppate più sopra, funziona rispetto al museo come i giovani sans papiers intervistati funzionano rispetto alla società, presenze capaci di mettere in discussione le nozioni accertate e comunemente accettate di confine. Così come il diritto di passaggio appare come rivendicazione primaria negli atteggiamenti di Nazareth e Cirio, mentre l’idea virale del lavoro sembra appartenere, quanto meno visivamente, anche alle corde di Kawamata.

È evidente, in effetti, che le questioni aperte da Kawamata, Nazareth e Cirio appaiono perfettamente in linea con tali atteggiamenti, pur partendo da punti di vista e adottando strumenti totalmente diversi, che portano a risultati iconici e oggettuali incomparabili tra di loro. Tutti e tre ampliano il campo del proprio agire al di fuori degli spazi canonici, spostano se stessi e le loro opere, percorrono e tracciano strade, costruiscono luoghi altri in spazi comuni. Allo stesso tempo, tutti e tre concepiscono l’opera come esperienza in divenire costante e non racchiudibile in uno spazio e in un tempo predeterminati o, per meglio dire, determinano tempi e spazi dell’opera solo in rapporto con l’esperienza specifica che giustifica quello specifico progetto, principio dal quale consegue una formalizzazione altrettanto libera, ma non per questo meno rigorosa. Ma ciò che in conclusione più preme sottolineare, è come il loro lavoro preveda sempre la presenza di un altro da sé, che non è semplicemente il pubblico, ma è l’imprescindibile materia di cui l’opera è fatta, senza la quale l’opera stessa non ha senso di esistere. L’instabilità apparente delle costruzioni di Kawamata, l’instabilità nomadica di Nazareth, quella economica sbeffeggiata da Cirio, presuppongono sempre la presenza di altri individui capaci di costruirle, di abitarle, di attivarle, di farle diventare qualcosa di diverso da un’opera d’arte, di trasformarle in territorio i cui confini si modificano a seconda delle volontà, delle necessità e talvolta anche delle casualità, e la cui instabilità è valore primario, fondante tanto il pensiero quanto l’azione.

 

Walter Guadagnini (1961, Cavalese, Trento; vive e lavora a Bologna) è curatore, critico e storico dell’arte. Dal 1992 è titolare di una cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dal 2011 tiene la cattedra di Storia della Fotografia ed è coordinatore del Biennio Specialistico in Fotografia della stessa Accademia. Presidente dal 2004 della Commissione Scientifica del progetto “UniCredit e l’Arte”, ha diretto dal 1995 al 2005 la Galleria Civica di Modena e dal 1995 al 2003 la manifestazione internazionale “Modena per la fotografia”. Il suo lavoro come curatore include mostre come “Mel Ramos” (Galleria Civica, Modena,1999), “Domenico Gnoli” (Palazzina dei Giardini, Modena, 2001), “Peter Phillips” (Galleria Civica, Modena, 2002), “Allan D’Arcangelo” (Galleria Civica, Modena, 2005); “Pop Art UK – British Pop Art 1956-1972” (Galleria Civica, Modena, 2004, con Marco Livingstone), “Pop Art Italia 1958–1968“ (Galleria Civica, Modena, 2005); “Pop Art! 1958-1968” (Scuderie del Quirinale, Roma, 2007), “Faces – Ritratti nella fotografia del XX secolo” (Fondazione Ragghianti, Lucca, con Francesco Zanot); “Past Present Future – Highlights from the UniCredit Group Collection” (Kunstforum, Vienna, 2009; Palazzo della Ragione, Verona; The Yapi Kredi Cultural Centre, Istanbul 2010); “Things are Queer” (MARTa, Herford, 2011) e “People and the City” (Winzavod Centre of Art, Mosca, 2011; CoCa, Torun, 2012). Nel 2007 è Commissaire Unique per la sezione italiana all’interno di “Paris Photo”. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo nel 2000 il volume Fotografia per l’editore Zanichelli, nel 2007 il volume 100 – La fotografia in cento immagini per Motta Editore, nel 2010 Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo ancora per Zanichelli. È curatore del progetto editoriale La Fotografia per la casa editrice Skira. Ha collaborato dal 1995 al 2003, come critico d’arte, con il quotidiano “La Repubblica” e dal 2006 è responsabile della sezione fotografia de “Il Giornale dell’Arte”. Dal 2008 al 2009 è stato co-direttore della rivista “FMR – Bianca”.

 



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