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  La Cina è lontana: Considerazioni
sul tema di un dialogo difficile

Francesca Dal Lago
   
  Lavorando per la maggior parte della mia vita all’estero, per alcuni anni anche in Cina, ma rimanendo pur sempre in stretto contatto con la realtà non dico Italiana, ma almeno Veneta del nostro paese, ho riscontrato negli ultimi anni un notevole mutamento negli atteggiamenti del pubblico della mia città natale nei confronti di quelli che fino ad ieri si potevano definire i miei ‘esotici’ interessi . Mentre all’inizio della mia carriera (che allora veniva infelicemente definita come sinologia, espressione che indicava soprattutto una tuttologia Cinese di carattere prevalentemente filologico e incentrata su periodi a noi precedenti di almeno di un millennio) quando percorrevo di ritorno a Vicenza il corso o la piazza della mia città e mi imbattevo in amici o conoscenti l’esclamazione di prammatica era solitamente “ma non te xe ancora vegnù i oci storti a magnar tuto quel riso” (pronunciato con tonalitá di solito abbastatanza elevata), negli ultimi tempi una frase più ricorrente, ma in genere pronunciata a mezza voce, sembra essere “Gheto sentío? i Cinesi i ga comprà anca el ristorante XX .”

A parte l’humour goldoniano che queste espressioni possono suggerire a un pubblico non locale, e culturalmente più elevato di quello da cui io provengo (come é certamente il fiorentino, non per niente questa mostra “China! China! si tiene in Toscana, non a Venezia e neppure in Lombardia) il significato fondamentale di tali affermazioni é, alla fine, uno solo. Che la Cina, di cui adesso facilmente si straparla più che parlare, era e rimane una grande incognita, per non dire un mistero, di cui per la maggior parte non si conosce ancora nulla, o del cui universo al massimo si gratta la superficie. Mentre una volta ‘i cinesi’ erano precipuamente ciclisti e mangiatori di riso, adesso sono i nuovi ricchi del pianeta e costituiscono una minaccia crescente alla nostra economia (soprattutto quella piccola, come in Veneto). Quando iniziai a studiare la lingua e la cultura cinese la Cina era un paese appena uscito dal Maoismo e aveva alle spalle decenni di devastanti sconvolgimenti politici. Della Cina si sapeva solo che c’era stata una rivoluzione che secondo noi Europei, forse perchè era più lontana e si capiva meno, sembrava essere stata migliore di quella bolscevica, che c’erano tante biciclette, la Grande Muraglia, la Città Proibita, che c’erano stati gli imperatori e poi Mao Zedong, che parlavano un linguaggio impossibile e che ,appunto, mangiavano riso. La Cina era così lontana che si utilizzava come destinazione finale per mandare la gente a quel paese, quando veniva meno ogni possibilità di dialogo: “ma và in Cina!“ voleva dire “con te non c’e’ niente da fare, non si può proprio parlare, lasciamo perdere”. Quindi, vai nel posto più lontano che c’è e restaci.
Non so se questa espressione si usi ancora, certo con me non la usa nessuno da un pò perchè io in Cina ci ho vissuto per più di nove anni. Sicuramente di questi tempi “andare in Cina” pare sia il sogno o l’intenzione di tanti. Per continuare in questa serie di squisiti stereotipi , la Cina remota di ‘ma và in Cina’ pare adesso essere molto ‘vicina’ (sarebbe interessante stilare una classifica di eventi e articoli che negli ultimi anni sono stati organizzati o pubblicati in Italia esattamente con l’originale titolo “la Cina é vicina”).
Cina come Eldorado, “ un paese di enormi possibilità,” “un mercato di un miliardo di persone,” “ più di cento milioni di milionari” , Ferrari che si vendono a go go , grattacieli che si innalzano dalla mattina alla sera, ‘una pesante sfida alla nostra economia’ e avanti di questo passo (ma certo, loro non hanno la democrazia).

Quando cerco di spiegare ai miei amici cinesi in Cina il modo in cui é cambiata la percezione della Cina in Italia, o almeno a Vicenza, loro scuotono la testa. Da una parte sono contenti di stare economicamente e materialmente meglio, di avere un’appartamento decente, invece di una stanza senza bagno e cucina che gli fa da casa e da studio, come accadeva fino a una decina, forse meno, di anni fa; di avere una macchina, di avere soldi per invitarmi a mangiare nei migliori risoranti ogni volta che sono da quelle parti, di poter viaggiare facilmente all’estero. Dall’altra molti di loro, o almeno quelli che frequento io e che appartengono a una generazione di mezza etá, adolescenti durante la Rivoluzione Culturale, sono molto scettici sul reale progresso esistente nella comprensione del loro paese e della loro cultura da parte dell’Occidente, nonostante tutto il parlare che da alcuni anni si fa da noi su tutto ció che é cinese. É come se, adesso che in teoria siamo più vicini, si vedesse più chiaramente quanto ancora siamo lontani.

La nostra cultura (quella Europea, in cui io includo anche il Nord America per quanto riguarda la cultura alta) non ha mai considerato ‘gli altri’ come una reale possibile interlocutore culturale alla pari (basti pensare a i ‘diversi tra di noi’ come gli Ebrei e a quello che é successo con loro) l’unico modo é stato quello di cercare negli altri solo quello che interessava a noi in un preciso momento storico. Senza sforare in campo filosofico (che certo non é il mio ma al quale questa discussione si potrebbe certo ampliare) e rimanendo in quello più prettamente artistico, piú adatto a questa sede, basti pensare al fenomeno della Chinoiserie nel Settecento. Io adesso vivo in Olanda e sono stata più volte al Rijksmuseum di Amsterdam dove c’e’ una bella collezione di ceramica di Delft. Alcuni de piatti e delle coppe esposte sembrano in tutto e per tutto cinesi e in alcuni casi riportano anche degli ideogrammi inventati, bruttissimi dal punto di vista calligrafico ma bellissimi come decorazione occidentale. Uno si immagina questo bel vasellame esposto in una bella stanza con vista sul canale di una casa olandese, con luce fredda radente alla Vermeer, in un periodo in cui la Compagnia delle Indie Orientali faceva avanti e indietro dall’Asia all’Europa portando in qua tutto quanto di più affascinante e esotico si poteva immaginare. E la passione per queste cose cinesi, in particolare la porcellana, fu tale che portó alla volontà di riprodurne l’ estetica con il bianco e blu che come sappiamo è poi diventata uno dei tratti principali della identitá nazionale Olandese.
Appena fuori Vicenza, la mia bella e ristretta cittá, sulla collina che sorge dietro alla villa Rotonda di Andrea Palladio, c’e’ un’altra villa, la Villa Valmarana ai Nani, famosa gli affreschi di Gianbattista e Giandomenico Tiepolo. Nella foresteria, dipinta da Giandomenico nel 1757, c’é una stanza delle Cineserie dove la Cina viene rappresentata in maniera fantastica basata fondamentalmente sul materiale visivo e l’oggettistica disponibile a quel tempo: probabilmente stampe, come si può immaginare dalle pagode e dai paesaggi monocromi sullo sfondo, certamente statuette di porcellana, che sono lo spunto per i personaggi (i famosi ‘mandarini’) che popolano la scena (e che peró non hanno tutti gli occhi a mandorla), tessuti di seta e drappeggi che però non sono molto differenti da quelli indossati della nobiltà veneta del ‘700 rappresentata nelle stanze adiacenti. La camera da letto é piccola, intima, bellissima. Fuori dalle finestre si ammira la Valletta del Silenzio e la sinuosa dolcezza delle colline venete. E’ tutto esteticamente raffinato, non esageratamente sfarzoso, da vacanza in villa, appunto. Certo ha molto più da raccontare sulla vita della nobiltà veneta e della Repubblica di Venezia poco prima della sua ingloriosa fine con il trattato Camporformio nel 1797, che della Cina dell’epoca di Qianlong, un imperatore che per lunghezza di regno, ampiezza di prospettive e espansione geografica si può considerare una specie di Regina Vittoria orientale (regnó dal 1735 al 1796 e abdicó in segno di rispetto solo per non regnare più a lungo del nonno). Qianlong fu l’ultimo grande e forse tra i più esagerati degli imperatori cinesi alla cui corte lavorarono, come ‘addetti culturali’ Gesuiti europei che lo erudivano con la matematica, la geometria, l’astronomia e che gli costruirono anche una piccolissima Versaille barocca alla periferia di Pechino (ognuno ha il suo Luigi XIV).
Non é un caso che Chinoiserie e rococó vadano di pari passo: in quel preciso momento storico a noi interessava, della Cina, una estetica ‘barocca’ appunto, prodotta da una dinastia imperiale, quella Qing che non era neppure cinese, ma mancese, il che secondo la molto bassa tolleranza multietnica dei cinesi Han é come dire poco più un gruppo di barbari nomadi venuti dal Nord (però regnarono per quasi tre secoli). L’estetica cinese vera era quella Ming, l’ultima dinastia autoctona, deposta appunto dai Mancesi nel 1644: molto più essenziale, lineare, quasi minimalista se comparata con quella Qing. Eppure in Europa quando si parla di porcellana cinese in generale, si pensa prima di tutto a quella estremamente decorata, il bianco e blu appunto, o le varie famille rose e famille verte che sono il puro risultato di un gusto mancese, non al celadon o alla pocellana dehua detta anche blanc de chine, raffinatissime e rigorosamente monocrome. Il fenomeno della Chinoiserie continua fino al giorno d’ oggi e si è manifestato in varie reincarnazioni che in genere sono state sempre accolte da un grande successo di pubblico (e mercato) in Occidente: dal japonisme degli Impressionismi, all’influenza Zen sugli espressionisti astratti, siamo sempre stati abili nel prendere ciò che ci serviva, senza badare al resto, al contorno. Non per dire che questo non abbia prodotto grandissima arte, certo un’arte che – come i suoi autori e il suo pubblico – non si poneva proprio il problema di come fossero gli ‘altri’ quelli che avevano inventato le prospettive angolari usate da Van Gogh, o le sinuosità calligrafiche di certe opere di Jakson Pollock. In periodi più recenti, su tale processo di mutua disconoscenza, non ha certo aiutato il fatto che la Cina sia stata chiusa al mondo Occidentale in modo quasi ermetico per circa trent’anni, nè che sia stato un paese comunista durante mezzo secolo di Guerra Fredda. Eppure anche negli ultimi trent’anni di progressiva apertura della Cina al mondo noi certo di lezioni per casa ne abbiamo fatte poche.
Spesso quando sono a Pechino e chiacchiero con i tassisti in mezzo al traffico, che adesso é infernale, alla mia confessione di essere italiana (normalmente rilasciata con riluttanza perché implica discussioni sempre più tecniche e per me incomprensibili sul nostro campionato di calcio di tutte le serie) mi viene fatto notare, in passim, che appunto, io vengo dalla paese di Leonardo, Tiziano e Michelangelo. Adesso io chiedo a chi mi legge (tra cui ho paura, ahimè ci siano pochi tassisti) se colui o colei sappia chi siano Ni Zan, Shi Tao o Dong Qichang. Forse mi sbaglio (e segretamente lo spero) ma ho il vago sospetto che pochi sappiano che questi sono alcuni tra i più grandi pittori della tradizione cinese, assolutamente comparabili per genialità creativa, abilità tecnica e profondità intellettuale ai più grandi dei nostri, molti dei quali esposti qui vicino, agli Uffizi. Anzi, in un certo senso dal punto di vista cinese i grandi pittori del nostro Rinascimento sono poco più che espertissimi artigiani, mentre loro, i pittori letterati, erano artisti, intellettuali, teorici e spesso anche politici. Delle personalità ‘rinascimentali’ appunto.
Tutto questo, non pare, ma é strettamente collegato al contesto socio-artistico che sottende a una mostra come quella presentata negli spazi della Strozzina. L’interesse recente e sfrenato, prevalentemente economico suscitato dall’esplosione del fenomeno ‘Cina’ ha lasciato tutti spiazzati in Occidente. Un paese che appunto fino a poco tempo fa era solo riso e biciclette, adesso ha un PIL piu’ galoppante di quello degli Stati Uniti (9.6%). Serpeggia un certo sgomento nel nostro mondo economico verso il fenomeno cinese. Certo che bisogna fare qualcosa: cosa, pare sia alquanto difficile da decidere o identificare correttamente, soprattutto perchè genralmente si pensa che basti poco, che con le nostre teorie e i nostri termini di paragone si possa arrivare a capire tutto, a convincere i cinesi a comprare dai gioielli alle fonderie. Ma i ‘Cinesi’ non amano sperperare come gli Americani e la loro personale idea di lusso non è quasi mai ostentata come da noi. Gurda caso, sono diversi.
Dal punto di vista dell’arte contemporanea, la situazione non varia di molto. Adesso i prezzi raggiunti da un certo tipo di produzione soprattutto pittorica (che si potrebbe chiamare ‘export painting’ come nel Settecento si diceva ‘export porcelain’ per quella produzione di porcellana che veniva prodotta in Cina con disegni e decorazioni forniti in Occidente) e il ‘fenomeno Cina’ in generale, hanno fatto accorrere nel Paese di Mezzo curatori, collezionisti e galleristi di tutto il mondo. Da anni non vivo più in Cina , ma da quello che mi raccontano i miei amici artisti di Pechino quando ci torno é che molti di loro adesso vivono quasi braccati dai collezionisti, Cinesi e non, che vogliono possedere i loro quadri. So che ci sono le liste d’attesa (credo di almeno un’anno) per ottenere un’opera di certi artisti (e non sto parlando di quelli da più di un milione di dollari) e che quindi l’opera é venduta prima di essere prodotta (a scatola chiusa). Basta il nome. Ovviamente non si vedono più opere negli studi, non é come una volta quando si andava a trovare un’artista e si passavano ore a chiacchierare, bere birra, fumare, mangiare semi di girasole e parlare di tutto, arte compresa. Adesso tante opere passano direttamente dallo studio dell’artista al magazzino del collezionista, e non le vede più nessuno. Sicuramente nessuno del pubblico per il quale quelle opere avrebbero dovuto essere create.
Se le opere arrivano in Occidente in gran parte dei casi sono state prodotte pensando a questo particolare mercato e pubblico (l’ ‘export painting” appunto): il che vuol dire riferimenti a draghi, piedi bendati, qualche nudo sadomaso, Mao in tutte le salse, colori e fogge possibili e immaginabili, tanto colore rosso, stelle, iconografia mal dipinta della Rivoluzione Culturale, citazionismo sfrenato di famose opere pittoriche, cinesi o occidentali ‘re-interpretate’ in modalità postmoderna cinese. Tipo l’artista Yue Minjun che rifà L’esecuzione di Massimiliano d’Asburgo di Manet, e quando viene uggerito che si tratti di un riferimento indiretto alla strage di Tian’anmen il dipinto batte il record di vendita mai raggiunto da un quadro cinese (fino ad ora) di circa 6 milioni di dollari. Si vede quasi solo quello dalle nostre parti, e non solo in Italia: mai una monografica (a meno che non sia un pet-project della borghesia orientalista newyorchese come Cai Guoqiang che alla fine di Febbraio inaugura una mostra al Guggenheim di New York), mai una mostra a tema, mai un’ analisi particolare. Sempre e solo ‘Cina!’ con punti esclamativi, spesso resa ancora più attuale da avverbi temporali tipo ‘now’ o verbi tipo ‘go’ o aggettivi in rima baciata come appunto‘vicina’ : comunque e sempre associata a espressioni totalizzanti. E’ come se in un’altro continente si facessero mostre dopo mostre in cui il solo elemento della scelta curatoriale fosse la geografia, tipo “Francia Now!” o meglio, “Europe Now!”.
La cosa che manca di più é una coscienza storica di come si é arrivato al “Now!”. Quando si guarda la Primavera di Botticelli la si ammira perché normalmente si sa che prima ci sono stati i Giotto e la Scuola Senesi , un pò prima Piero e poi Tiziano e Caravaggio; idem con l’arte moderna, come per esempio i Futuristi che appaiono dopo i Cubisti e contemporaneamente ai Surrealisti: cioé si l’arte ammira come risultato di un contesto storico e sociale e soprattutto estetico che ne ha favorito quella particolare ed exlusiva forma. Tale conoscenza ci aiuta anche a capire l’eccezionalità dell’arte: perché ci sono dei termini di paragone. Ma quando si tratta di arte cinese contemporanea (di quella moderna non se ne sente neanche mai parlare, forse non esiste?) queste preoccupazioni fondamentali per una accurata valutazione estetica e storico-artistica vengono meno. Il giudizio è sospeso: tanto sono cinesi.
Basta che ci siano degli elementi che sembrano cinesi, almeno nella nostra visione limitata di quello che la Cina dovrebbe sembrare ( tipo quella degli ‘oci storti’ di cui sopra): poi lo si sbandiera in giro con rosso e tanti punti esclamativi, si organizzano mostre a metã tra l’evento culturale e la mostra mercato, con un pizzico di questo o quello, un’artista da Pechino e un’altro da Canton (che in distanza é come Roma/Amsterdam) e sono tutti contenti, perché la Cina quando ‘sembra cinese’ piace tanto. E soprattutto resta lontana, nell’ambito del sogno e di fantasie imperiali, non pericolosamente vicina e angosciante. Una Cina che è uno specchio nel quale riflettiamo, le nostre fantasie, aspettative e angoscie. Di quello che pensano “i cinesi”, di quello che provano questi particolari artisti, di quello che vivono tutti i giorni, di quello che hanno veramente dire a proposito di se stessi generalmente si discute, perché “lo sappiamo già noi.” Come ha dichiarato recentement Zhang Peili, uno dei più famosi e impegnati video artisti contemporanei, in un congresso tenutosi qui in Olanda, gli artisti cinesi non sono mai degli individui nella percezione occidentale, almeno dal punto di vista dei curatori. Sono sempre e solo considerati collettivamente, come un gruppo etnico la cui base geografica è la Repubblica Popolare Cinese (anche se poi si mettono dentro artisti che risiedono in America e in Europa, come se fosse la stessa cosa).
Purtroppo non ho avuto l’opportunità di essere informata sul contenuto della mostra sulla alla quale sto scrivendo (forse anche questo é sintomatico) : mi sono stati forniti solo i nomi di alcuni artisti, ma non il contenuto specifico delle opere che verranno esposte, né sono al corrente se, a parte la modalità secondo le quali l’esposizione é stata organizzata attorno alle figure di tre curatori, ci siano delle specifiche strategie che verrano seguite nella disposizione degli spazi e delle opere negli spazi. Quindi non posso esprimermi sulle qualità estetiche e formali dell’ evento. Certamente chiedere a dei curatori operanti in Cina mi sembra sia già un passo notevole rispetto ai one-week-tours che spesso bastano agli operatori artistici occidentali per scoprire e “padroneggiare” la realtà artistica cinese contemporanea, basandosi magari su una lista di nomi suggerita da altri, spulciati qua e là su Flash Art, Artforum o addirittura Art News.
Il progetto “40 + 4” che é quello sul quale ho ricevuto più informazioni, documenta attraverso una serie di interviste la situazione artistica di una luogo ben specifico (non “Cina!” ma una città, Shanghai) in un preciso momento storico (adesso) ponendo una serie uguale di domande ad artisti di varie tendenze, stili e etá , selezionati come dichiara Davide Quadrio, arbitrariamente ( e infatti ci sono solo due donne) . A me pare un’idea semplice, assolutamente necessaria, direi quasi ovvia, eppure mai pensata prima, neanche in altri contesti geografici, per documentare seriamente, pazientemente e soprattutto umilmente la realtà artistica cinese, partendo dalla base, e cioé da quello che pensano e vivono e hanno da dire i suoi protagonisti. Come descrive Lothar Spree nella sua introduzione al progetto per quanto riguarda le tecniche filmiche, le scene sono state girate volutamente senza alcun fascino esotico o underground senza abbellimenti decorativi, e sempre in luoghi intimi e silenziosi per focalizzare l’attenzione del pubblico su quanto viene detto e non distrarla con quel genere di sovrastrutta che generalmente impedisce agli Occidentali di considerare e guardare la Cina per quello che é e non per quello che dovrebbe essere. Il progetto di questa mostra in generale é stimolante, e a quanto mi risulta, inedito in Italia. Speriamo che lasci un segno. Ma sarebbe anche interessante raccogliere i commenti del pubblico per vedere quanto questo sia disposto a lasciarsi coinvolgere da una Cina che non sembra ‘Cina’. E alla fine capire se questa possa realmente interessarci e affascinarci anche quando diventa davvero ‘vicina’.

   
   
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