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Lavorando per la maggior parte
della mia vita all’estero, per alcuni anni anche in Cina, ma
rimanendo pur sempre in stretto contatto con la realtà non
dico Italiana, ma almeno Veneta del nostro paese, ho riscontrato negli
ultimi anni un notevole mutamento negli atteggiamenti del pubblico
della mia città natale nei confronti di quelli che fino ad
ieri si potevano definire i miei ‘esotici’ interessi .
Mentre all’inizio della mia carriera (che allora veniva infelicemente
definita come sinologia, espressione che indicava soprattutto una
tuttologia Cinese di carattere prevalentemente filologico e incentrata
su periodi a noi precedenti di almeno di un millennio) quando percorrevo
di ritorno a Vicenza il corso o la piazza della mia città e
mi imbattevo in amici o conoscenti l’esclamazione di prammatica
era solitamente “ma non te xe ancora vegnù i oci storti
a magnar tuto quel riso” (pronunciato con tonalitá di
solito abbastatanza elevata), negli ultimi tempi una frase più
ricorrente, ma in genere pronunciata a mezza voce, sembra essere “Gheto
sentío? i Cinesi i ga comprà anca el ristorante XX .”
A parte l’humour goldoniano che queste espressioni possono
suggerire a un pubblico non locale, e culturalmente più elevato
di quello da cui io provengo (come é certamente il fiorentino,
non per niente questa mostra “China! China! si tiene in Toscana,
non a Venezia e neppure in Lombardia) il significato fondamentale
di tali affermazioni é, alla fine, uno solo. Che la Cina,
di cui adesso facilmente si straparla più che parlare, era
e rimane una grande incognita, per non dire un mistero, di cui per
la maggior parte non si conosce ancora nulla, o del cui universo
al massimo si gratta la superficie. Mentre una volta ‘i cinesi’
erano precipuamente ciclisti e mangiatori di riso, adesso sono i
nuovi ricchi del pianeta e costituiscono una minaccia crescente
alla nostra economia (soprattutto quella piccola, come in Veneto).
Quando iniziai a studiare la lingua e la cultura cinese la Cina
era un paese appena uscito dal Maoismo e aveva alle spalle decenni
di devastanti sconvolgimenti politici. Della Cina si sapeva solo
che c’era stata una rivoluzione che secondo noi Europei, forse
perchè era più lontana e si capiva meno, sembrava
essere stata migliore di quella bolscevica, che c’erano tante
biciclette, la Grande Muraglia, la Città Proibita, che c’erano
stati gli imperatori e poi Mao Zedong, che parlavano un linguaggio
impossibile e che ,appunto, mangiavano riso. La Cina era così
lontana che si utilizzava come destinazione finale per mandare la
gente a quel paese, quando veniva meno ogni possibilità di
dialogo: “ma và in Cina!“ voleva dire “con
te non c’e’ niente da fare, non si può proprio
parlare, lasciamo perdere”. Quindi, vai nel posto più
lontano che c’è e restaci.
Non so se questa espressione si usi ancora, certo con me non la
usa nessuno da un pò perchè io in Cina ci ho vissuto
per più di nove anni. Sicuramente di questi tempi “andare
in Cina” pare sia il sogno o l’intenzione di tanti.
Per continuare in questa serie di squisiti stereotipi , la Cina
remota di ‘ma và in Cina’ pare adesso essere
molto ‘vicina’ (sarebbe interessante stilare una classifica
di eventi e articoli che negli ultimi anni sono stati organizzati
o pubblicati in Italia esattamente con l’originale titolo
“la Cina é vicina”).
Cina come Eldorado, “ un paese di enormi possibilità,”
“un mercato di un miliardo di persone,” “ più
di cento milioni di milionari” , Ferrari che si vendono a
go go , grattacieli che si innalzano dalla mattina alla sera, ‘una
pesante sfida alla nostra economia’ e avanti di questo passo
(ma certo, loro non hanno la democrazia).
Quando cerco di spiegare ai miei amici cinesi in Cina il modo in
cui é cambiata la percezione della Cina in Italia, o almeno
a Vicenza, loro scuotono la testa. Da una parte sono contenti di
stare economicamente e materialmente meglio, di avere un’appartamento
decente, invece di una stanza senza bagno e cucina che gli fa da
casa e da studio, come accadeva fino a una decina, forse meno, di
anni fa; di avere una macchina, di avere soldi per invitarmi a mangiare
nei migliori risoranti ogni volta che sono da quelle parti, di poter
viaggiare facilmente all’estero. Dall’altra molti di
loro, o almeno quelli che frequento io e che appartengono a una
generazione di mezza etá, adolescenti durante la Rivoluzione
Culturale, sono molto scettici sul reale progresso esistente nella
comprensione del loro paese e della loro cultura da parte dell’Occidente,
nonostante tutto il parlare che da alcuni anni si fa da noi su tutto
ció che é cinese. É come se, adesso che in
teoria siamo più vicini, si vedesse più chiaramente
quanto ancora siamo lontani.
La nostra cultura (quella Europea, in cui io includo anche il Nord
America per quanto riguarda la cultura alta) non ha mai considerato
‘gli altri’ come una reale possibile interlocutore culturale
alla pari (basti pensare a i ‘diversi tra di noi’
come gli Ebrei e a quello che é successo con loro) l’unico
modo é stato quello di cercare negli altri solo quello che
interessava a noi in un preciso momento storico. Senza sforare in
campo filosofico (che certo non é il mio ma al quale questa
discussione si potrebbe certo ampliare) e rimanendo in quello più
prettamente artistico, piú adatto a questa sede, basti pensare
al fenomeno della Chinoiserie nel Settecento. Io adesso
vivo in Olanda e sono stata più volte al Rijksmuseum di Amsterdam
dove c’e’ una bella collezione di ceramica di Delft.
Alcuni de piatti e delle coppe esposte sembrano in tutto e per tutto
cinesi e in alcuni casi riportano anche degli ideogrammi inventati,
bruttissimi dal punto di vista calligrafico ma bellissimi come decorazione
occidentale. Uno si immagina questo bel vasellame esposto in una
bella stanza con vista sul canale di una casa olandese, con luce
fredda radente alla Vermeer, in un periodo in cui la Compagnia delle
Indie Orientali faceva avanti e indietro dall’Asia all’Europa
portando in qua tutto quanto di più affascinante e esotico
si poteva immaginare. E la passione per queste cose cinesi, in particolare
la porcellana, fu tale che portó alla volontà di riprodurne
l’ estetica con il bianco e blu che come sappiamo è
poi diventata uno dei tratti principali della identitá nazionale
Olandese.
Appena fuori Vicenza, la mia bella e ristretta cittá, sulla
collina che sorge dietro alla villa Rotonda di Andrea Palladio,
c’e’ un’altra villa, la Villa Valmarana ai Nani,
famosa gli affreschi di Gianbattista e Giandomenico Tiepolo. Nella
foresteria, dipinta da Giandomenico nel 1757, c’é una
stanza delle Cineserie dove la Cina viene rappresentata in maniera
fantastica basata fondamentalmente sul materiale visivo e l’oggettistica
disponibile a quel tempo: probabilmente stampe, come si può
immaginare dalle pagode e dai paesaggi monocromi sullo sfondo, certamente
statuette di porcellana, che sono lo spunto per i personaggi (i
famosi ‘mandarini’) che popolano la scena (e che peró
non hanno tutti gli occhi a mandorla), tessuti di seta e drappeggi
che però non sono molto differenti da quelli indossati della
nobiltà veneta del ‘700 rappresentata nelle stanze
adiacenti. La camera da letto é piccola, intima, bellissima.
Fuori dalle finestre si ammira la Valletta del Silenzio e la sinuosa
dolcezza delle colline venete. E’ tutto esteticamente raffinato,
non esageratamente sfarzoso, da vacanza in villa, appunto. Certo
ha molto più da raccontare sulla vita della nobiltà
veneta e della Repubblica di Venezia poco prima della sua ingloriosa
fine con il trattato Camporformio nel 1797, che della Cina dell’epoca
di Qianlong, un imperatore che per lunghezza di regno, ampiezza
di prospettive e espansione geografica si può considerare
una specie di Regina Vittoria orientale (regnó dal 1735 al
1796 e abdicó in segno di rispetto solo per non regnare più
a lungo del nonno). Qianlong fu l’ultimo grande e forse tra
i più esagerati degli imperatori cinesi alla cui corte lavorarono,
come ‘addetti culturali’ Gesuiti europei che lo erudivano
con la matematica, la geometria, l’astronomia e che gli costruirono
anche una piccolissima Versaille barocca alla periferia di Pechino
(ognuno ha il suo Luigi XIV).
Non é un caso che Chinoiserie e rococó vadano
di pari passo: in quel preciso momento storico a noi interessava,
della Cina, una estetica ‘barocca’ appunto, prodotta
da una dinastia imperiale, quella Qing che non era neppure cinese,
ma mancese, il che secondo la molto bassa tolleranza multietnica
dei cinesi Han é come dire poco più un gruppo di barbari
nomadi venuti dal Nord (però regnarono per quasi tre secoli).
L’estetica cinese vera era quella Ming, l’ultima
dinastia autoctona, deposta appunto dai Mancesi nel 1644: molto
più essenziale, lineare, quasi minimalista se comparata con
quella Qing. Eppure in Europa quando si parla di porcellana cinese
in generale, si pensa prima di tutto a quella estremamente decorata,
il bianco e blu appunto, o le varie famille rose e famille
verte che sono il puro risultato di un gusto mancese, non al
celadon o alla pocellana dehua detta anche blanc de
chine, raffinatissime e rigorosamente monocrome. Il fenomeno
della Chinoiserie continua fino al giorno d’ oggi
e si è manifestato in varie reincarnazioni che in genere
sono state sempre accolte da un grande successo di pubblico (e mercato)
in Occidente: dal japonisme degli Impressionismi, all’influenza
Zen sugli espressionisti astratti, siamo sempre stati abili nel
prendere ciò che ci serviva, senza badare al resto, al contorno.
Non per dire che questo non abbia prodotto grandissima arte, certo
un’arte che – come i suoi autori e il suo pubblico –
non si poneva proprio il problema di come fossero gli ‘altri’
quelli che avevano inventato le prospettive angolari usate da Van
Gogh, o le sinuosità calligrafiche di certe opere di Jakson
Pollock. In periodi più recenti, su tale processo di mutua
disconoscenza, non ha certo aiutato il fatto che la Cina sia stata
chiusa al mondo Occidentale in modo quasi ermetico per circa trent’anni,
nè che sia stato un paese comunista durante mezzo secolo
di Guerra Fredda. Eppure anche negli ultimi trent’anni di
progressiva apertura della Cina al mondo noi certo di lezioni per
casa ne abbiamo fatte poche.
Spesso quando sono a Pechino e chiacchiero con i tassisti in mezzo
al traffico, che adesso é infernale, alla mia confessione
di essere italiana (normalmente rilasciata con riluttanza perché
implica discussioni sempre più tecniche e per me incomprensibili
sul nostro campionato di calcio di tutte le serie) mi viene fatto
notare, in passim, che appunto, io vengo dalla paese di
Leonardo, Tiziano e Michelangelo. Adesso io chiedo a chi mi legge
(tra cui ho paura, ahimè ci siano pochi tassisti) se colui
o colei sappia chi siano Ni Zan, Shi Tao o Dong Qichang. Forse mi
sbaglio (e segretamente lo spero) ma ho il vago sospetto che pochi
sappiano che questi sono alcuni tra i più grandi pittori
della tradizione cinese, assolutamente comparabili per genialità
creativa, abilità tecnica e profondità intellettuale
ai più grandi dei nostri, molti dei quali esposti qui vicino,
agli Uffizi. Anzi, in un certo senso dal punto di vista cinese i
grandi pittori del nostro Rinascimento sono poco più che
espertissimi artigiani, mentre loro, i pittori letterati, erano
artisti, intellettuali, teorici e spesso anche politici. Delle personalità
‘rinascimentali’ appunto.
Tutto questo, non pare, ma é strettamente collegato al contesto
socio-artistico che sottende a una mostra come quella presentata
negli spazi della Strozzina. L’interesse recente e sfrenato,
prevalentemente economico suscitato dall’esplosione del fenomeno
‘Cina’ ha lasciato tutti spiazzati in Occidente. Un
paese che appunto fino a poco tempo fa era solo riso e biciclette,
adesso ha un PIL piu’ galoppante di quello degli Stati Uniti
(9.6%). Serpeggia un certo sgomento nel nostro mondo economico verso
il fenomeno cinese. Certo che bisogna fare qualcosa: cosa, pare
sia alquanto difficile da decidere o identificare correttamente,
soprattutto perchè genralmente si pensa che basti poco, che
con le nostre teorie e i nostri termini di paragone si possa arrivare
a capire tutto, a convincere i cinesi a comprare dai gioielli alle
fonderie. Ma i ‘Cinesi’ non amano sperperare come gli
Americani e la loro personale idea di lusso non è quasi mai
ostentata come da noi. Gurda caso, sono diversi.
Dal punto di vista dell’arte contemporanea, la situazione
non varia di molto. Adesso i prezzi raggiunti da un certo tipo di
produzione soprattutto pittorica (che si potrebbe chiamare ‘export
painting’ come nel Settecento si diceva ‘export porcelain’
per quella produzione di porcellana che veniva prodotta in Cina
con disegni e decorazioni forniti in Occidente) e il ‘fenomeno
Cina’ in generale, hanno fatto accorrere nel Paese di Mezzo
curatori, collezionisti e galleristi di tutto il mondo. Da anni
non vivo più in Cina , ma da quello che mi raccontano i miei
amici artisti di Pechino quando ci torno é che molti di loro
adesso vivono quasi braccati dai collezionisti, Cinesi e non, che
vogliono possedere i loro quadri. So che ci sono le liste d’attesa
(credo di almeno un’anno) per ottenere un’opera di certi
artisti (e non sto parlando di quelli da più di un milione
di dollari) e che quindi l’opera é venduta prima di
essere prodotta (a scatola chiusa). Basta il nome. Ovviamente non
si vedono più opere negli studi, non é come una volta
quando si andava a trovare un’artista e si passavano ore a
chiacchierare, bere birra, fumare, mangiare semi di girasole e parlare
di tutto, arte compresa. Adesso tante opere passano direttamente
dallo studio dell’artista al magazzino del collezionista,
e non le vede più nessuno. Sicuramente nessuno del pubblico
per il quale quelle opere avrebbero dovuto essere create.
Se le opere arrivano in Occidente in gran parte dei casi sono state
prodotte pensando a questo particolare mercato e pubblico (l’
‘export painting” appunto): il che vuol dire riferimenti
a draghi, piedi bendati, qualche nudo sadomaso, Mao in tutte le
salse, colori e fogge possibili e immaginabili, tanto colore rosso,
stelle, iconografia mal dipinta della Rivoluzione Culturale, citazionismo
sfrenato di famose opere pittoriche, cinesi o occidentali ‘re-interpretate’
in modalità postmoderna cinese. Tipo l’artista Yue
Minjun che rifà L’esecuzione di Massimiliano d’Asburgo
di Manet, e quando viene uggerito che si tratti di un riferimento
indiretto alla strage di Tian’anmen il dipinto batte il record
di vendita mai raggiunto da un quadro cinese (fino ad ora) di circa
6 milioni di dollari. Si vede quasi solo quello dalle nostre parti,
e non solo in Italia: mai una monografica (a meno che non sia un
pet-project della borghesia orientalista newyorchese come Cai Guoqiang
che alla fine di Febbraio inaugura una mostra al Guggenheim di New
York), mai una mostra a tema, mai un’ analisi particolare.
Sempre e solo ‘Cina!’ con punti esclamativi, spesso
resa ancora più attuale da avverbi temporali tipo ‘now’
o verbi tipo ‘go’ o aggettivi in rima baciata come appunto‘vicina’
: comunque e sempre associata a espressioni totalizzanti. E’
come se in un’altro continente si facessero mostre dopo mostre
in cui il solo elemento della scelta curatoriale fosse la geografia,
tipo “Francia Now!” o meglio, “Europe Now!”.
La cosa che manca di più é una coscienza storica di
come si é arrivato al “Now!”. Quando si guarda
la Primavera di Botticelli la si ammira perché normalmente
si sa che prima ci sono stati i Giotto e la Scuola Senesi , un pò
prima Piero e poi Tiziano e Caravaggio; idem con l’arte moderna,
come per esempio i Futuristi che appaiono dopo i Cubisti e contemporaneamente
ai Surrealisti: cioé si l’arte ammira come risultato
di un contesto storico e sociale e soprattutto estetico che ne ha
favorito quella particolare ed exlusiva forma. Tale conoscenza ci
aiuta anche a capire l’eccezionalità dell’arte:
perché ci sono dei termini di paragone. Ma quando si tratta
di arte cinese contemporanea (di quella moderna non se ne sente
neanche mai parlare, forse non esiste?) queste preoccupazioni fondamentali
per una accurata valutazione estetica e storico-artistica vengono
meno. Il giudizio è sospeso: tanto sono cinesi.
Basta che ci siano degli elementi che sembrano cinesi,
almeno nella nostra visione limitata di quello che la Cina dovrebbe
sembrare ( tipo quella degli ‘oci storti’ di cui sopra):
poi lo si sbandiera in giro con rosso e tanti punti esclamativi,
si organizzano mostre a metã tra l’evento culturale
e la mostra mercato, con un pizzico di questo o quello, un’artista
da Pechino e un’altro da Canton (che in distanza é
come Roma/Amsterdam) e sono tutti contenti, perché la Cina
quando ‘sembra cinese’ piace tanto. E soprattutto resta
lontana, nell’ambito del sogno e di fantasie imperiali, non
pericolosamente vicina e angosciante. Una Cina che è uno
specchio nel quale riflettiamo, le nostre fantasie, aspettative
e angoscie. Di quello che pensano “i cinesi”, di quello
che provano questi particolari artisti, di quello che vivono tutti
i giorni, di quello che hanno veramente dire a proposito
di se stessi generalmente si discute, perché “lo sappiamo
già noi.” Come ha dichiarato recentement Zhang Peili,
uno dei più famosi e impegnati video artisti contemporanei,
in un congresso tenutosi qui in Olanda, gli artisti cinesi non sono
mai degli individui nella percezione occidentale, almeno
dal punto di vista dei curatori. Sono sempre e solo considerati
collettivamente, come un gruppo etnico la cui base geografica è
la Repubblica Popolare Cinese (anche se poi si mettono dentro artisti
che risiedono in America e in Europa, come se fosse la stessa cosa).
Purtroppo non ho avuto l’opportunità di essere informata
sul contenuto della mostra sulla alla quale sto scrivendo (forse
anche questo é sintomatico) : mi sono stati forniti solo
i nomi di alcuni artisti, ma non il contenuto specifico delle opere
che verranno esposte, né sono al corrente se, a parte la
modalità secondo le quali l’esposizione é stata
organizzata attorno alle figure di tre curatori, ci siano delle
specifiche strategie che verrano seguite nella disposizione degli
spazi e delle opere negli spazi. Quindi non posso esprimermi sulle
qualità estetiche e formali dell’ evento. Certamente
chiedere a dei curatori operanti in Cina mi sembra sia già
un passo notevole rispetto ai one-week-tours che spesso bastano
agli operatori artistici occidentali per scoprire e “padroneggiare”
la realtà artistica cinese contemporanea, basandosi magari
su una lista di nomi suggerita da altri, spulciati qua e là
su Flash Art, Artforum o addirittura Art News.
Il progetto “40 + 4” che é quello sul quale ho
ricevuto più informazioni, documenta attraverso una serie
di interviste la situazione artistica di una luogo ben specifico
(non “Cina!” ma una città, Shanghai) in un preciso
momento storico (adesso) ponendo una serie uguale di domande ad
artisti di varie tendenze, stili e etá , selezionati come
dichiara Davide Quadrio, arbitrariamente ( e infatti ci sono solo
due donne) . A me pare un’idea semplice, assolutamente necessaria,
direi quasi ovvia, eppure mai pensata prima, neanche in altri contesti
geografici, per documentare seriamente, pazientemente e soprattutto
umilmente la realtà artistica cinese, partendo dalla
base, e cioé da quello che pensano e vivono e hanno da dire
i suoi protagonisti. Come descrive Lothar Spree nella sua introduzione
al progetto per quanto riguarda le tecniche filmiche, le scene sono
state girate volutamente senza alcun fascino esotico o underground
senza abbellimenti decorativi, e sempre in luoghi intimi e silenziosi
per focalizzare l’attenzione del pubblico su quanto viene
detto e non distrarla con quel genere di sovrastrutta che generalmente
impedisce agli Occidentali di considerare e guardare la Cina per
quello che é e non per quello che dovrebbe essere.
Il progetto di questa mostra in generale é stimolante, e
a quanto mi risulta, inedito in Italia. Speriamo che lasci un segno.
Ma sarebbe anche interessante raccogliere i commenti del pubblico
per vedere quanto questo sia disposto a lasciarsi coinvolgere da
una Cina che non sembra ‘Cina’. E alla fine capire se
questa possa realmente interessarci e affascinarci anche quando
diventa davvero ‘vicina’. |