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“Il modo migliore
per far soldi con un fiore era comprarne uno che stesse per germogliare
e vendere i germogli separatamente. I bulbi che sembravano poter crescere
più rapidamente erano quindi più preziosi sia dei fiori
che erano ancora immaturi sia di quelli già pienamente sviluppati,
che avrebbero dato ancora pochi germogli prima di sfiorire. Ma anche
i fioristi più esperti trovavano difficile prevedere con accuratezza
come ciascun bulbo si sarebbe sviluppato; e per quelli alle prime
armi tutta questa faccenda dei bulbi rappresentava un esercizio di
pura speculazione.”
Mike Dash, Tulipomania, the story of the world’s most
coveted flower and the extraordinary passions it aroused, Phoenix
(UK) 1999
Al Motor Village di Torino ho recentemente propostoo una serie di
documentari, quasi sconosciuti in Europa, su cinque eventi artistici
importanti per Shanghai tra il 1998 e oggi. I cataloghi e i video
presentati rendono un’immagine frammentata ma affascinante
di un gruppo di persone, fra le quali artisti, curatori e galleristi,
che dalla fine degli anni novanta ad oggi hanno creato (o meglio
hanno cercato di creare) un contesto per l’arte contemporanea
a Shanghai. La presentazione di questi video mi era apparsa un mezzo
adeguato per poter mostrare al pubblico come alla fine degli anni
novanta la realtà artistica e culturale di Shanghai mancava
di un sistema strutturato. La situazione, anche se oggi sembra quasi
impossibile crederci, era ancora più difficile nel campo
dell’arte contemporanea. I miei colleghi e collaboratori ed
io iniziammo a operare in un contesto che era ancora, per così
dire, “vuoto”; cercavamo di individuare una modalità
quanto più possibile efficiente pur nella precarietà
e relativa marginalità dei luoghi a nostra disposizione,
ovvero spazi temporanei e in disuso. Solo a partire dal 2000 questi
luoghi hanno acquisito maggiore stabilità e sono diventati
il teatro dell’avvio di una fase particolarmente emozionante
di creazione e progettazione, sia pur nella forte complessità
della “negoziazione” con le realtà istituzionali
e politiche della città. Così è nato BizArt
Art Center, uno spazio not for profit, che si è
saputo inventare pressoché dal nulla una modalità
d’azione sperimentale incentrata su progetti specifici, con
artisti cinesi e internazionali e con una forte connotazione educativa.
Il merito indiscutibile di questo gruppo (relativamente piccolo)
di persone negli ultimi dieci anni è stato quello di affrontare
la tendenza “iper-commerciale” della città con
un’azione decisamente controcorrente. Da qui un luogo “not-for-profit”
(lo è ancora oggi) che si dedica ad attività creative
non legate all’arte intesa come produzione di “oggetti
artistici” finalizzati all’immediata commercializzazione
ma piuttosto al processo creativo di base: ovvero, alle idee.
Il nostro percorso, seppure fortemente condizionato dalle difficoltà
economiche, è proseguito in un contesto in evoluzione rapidissima
e continua, un contesto dove il tempo sembrava dilatarsi e comprimersi
senza sosta – una sorta di “iper-tempo” dove mesi
e anni si confondevano per i frenetici cambiamenti che avevano luogo
intorno a noi. Questo stato di cose ci ha costretti all’azione
rapida, talvolta sacrificando la riflessione sistematica sulle scelte
e sui percorsi intrapresi.
Una storia “off”
Il primo video di cui voglio parlare è del 1998. La mostra
era intitolata Jinyuan road 310. Un gruppo di artisti capeggiati
da Xu Zhen, Alexander Brandt e Yang Zhenzhong curò questo
evento/mostra multimediale in un sotterraneo affittato appositamente.
Per quanto inconcepibile possa sembrare oggi, nel 1998 l’arte
multimediale o new-media non era ancora considerata o classificata
come arte dalle istituzioni cinesi: le autorità infatti la
consideravano “instabile” (bu wending) se non,
a volte, addirittura sovversiva. Di conseguenza, a causa di alcuni
contenuti giudicati “instabili” ma non meglio identificati,
la mostra fu chiusa d’ufficio. L’anno seguente, nel
1999, gli stessi artisti riprovarono di nuovo un’azione, ma
con una più complessa operazione di sensibilizzazione sia
della comunità expat sia delle aziende internazionali
di supporto. Presentata come un evento storico per Shanghai, la
mostra, che venne chiamata Art for Sale, fu considerevolmente
sostenuta da una mirata politica di marketing. Art for Sale
fu presentata in un centro commerciale, il cui spazio venne diviso
in due: una parte di commercializzazione, volutamente cinica, dedicata
a oggetti d’arte, come fosse una sorta di mini-supermercato
e una seconda parte, dedicata a performances e di installazioni.
Anche questa mostra fu chiusa immediatamente il giorno dopo l’inaugurazione.
La motivazione da parte delle autorità fu che le opere presentate
avevano dei contenuti pornografici.
La storia degli happening, delle attività e delle mostre
di quel periodo a Shanghai non è stata ancora scritta. Inoltre,
la commercializzazione estrema dell’arte contemporanea cinese
odierna, con le sue inevitabili semplificazioni, spesso ostacola
una visione più contestualizzata del processo di formazione
dell’arte in Cina negli ultimi due decenni. La recente internazionalizzazione
dell’arte cinese ha avuto, tra le sue conseguenze più
problematiche, quella di renderne difficile la comprensione, l’elaborazione
critica e la documentazione della multiforme evoluzione dei percorsi
degli artisti cinesi, quelli di Shanghai in particolare. Solo da
poco è iniziato un lavoro di analisi del passato recente
e dei momenti cruciali della nascita e della crescita dell’arte
contemporanea in Cina. Due esempi: l’edizione di numeri monografici
del periodico “U-TURN” di Pechino, curato da Philip
Tinari, e il lavoro avviato dalla fondazione Ullens con la presentazione
di esposizioni retrospettive sull’arte cinese, un’attività
inaugurata nel 2007 da 85 New Wave: The Birth of Chinese Contemporary
Art. Resta il fatto che una simile tentativo di contestualizzazione
rimane ancora per lo più centrato su Pechino, mentre la storia
artistica di altri luoghi come Shanghai, Chengdu, Kunming e la zona
del Delta del Fiume delle Perle è ancora lontana da un’effettiva
codificazione.
Un altro video che ho presentato a Torino – non strettamente
legato alle attività di BizArt ma certamente parte di una
progettualità caratterizzata da azioni di “rottura”
e intervento sul territorio – è la documentazione della
mostra del 2000 intitolata Fuck Off nella sua versione
inglese e, meno aggressivamente “Buhezuodefangshi” (o
“atteggiamento non collaborativo”) in cinese. Anche
questa esposizione fu chiusa dopo qualche giorno, e l’organizzatore
Li Liang della Eastlink Gallery (una struttura tra galleria commerciale
e no profit), che l’aveva curata insieme ad Ai Weiwei,
ebbe non pochi problemi di gestione delle proprie attività
per più di un anno. La mostra non era all’apparenza
particolarmente polemica, e i contenuti delle opere d’arte
erano critici pur senza essere sovversivi. Più forte e a
tratti violento, invece, il catalogo. Alcuni degli artisti presentati
avevano esposto opere che utilizzavano o mostravano cadaveri umani
o parti derivate da cadaveri come per esempio grasso umano nell’installazione
di Peng Yu. L’opera più criticata, quella che ha causato
grande scalpore e massimo sgomento e che ha poi fatto il giro del
mondo era la performance di Zhu Yu, documentata in video, che proponeva
un’azione di cannibalismo di un feto umano bollito. La secca
risposta delle autorità fu la ristrutturazione delle leggi
generali sulla pornografia e sulle xingwei yishu, ovvero
la nudità e l’uso del corpo come veicolo performativo.
In realtà, la lettera del dettato legale è estremamente
nebulosa, con linee e principi generali cui potevano essere attribuiti
significati diametralmente opposti. La vaghezza delle regole e le
possibili interpretazioni antitetiche sono fattori che ancora oggi
creano situazioni di grande dubbio e incertezza: tutto è
possibile, si può rappresentare il corpo nudo per motivi
artistici, basta che non sia pornografico o che non sia offensivo.
Tutti i termini della questione sono assai vaghi, e persino il significato
della parola “arte” è assai poco chiaro. E allora
la domanda è: qual è il limite?
Gli altri eventi che ho presentato in occasione dell’evento
a Torino sono le ultime tre mostre non-istituzionali organizzate
dal gruppo di artisti che fanno capo a Xu Zhen, Yang Zhenzhong e
Alexander Brandt, i quali a tutt’oggi lavorano ancora in stretta
collaborazione con BizArt. La prima si chiamava Fan Mingzhen
& Fan Mingzhu (2002), dai nomi di due gemelle cinesi che
accoglievano i visitatori ai due ingressi della mostra. La mostra
conteneva due parti, ovvero due mostre speculari in uno spazio di
circa 2000 metri quadri: gli artisti mostravano nei due spazi le
medesime opere avendo apportato minime variazioni come per esempio
il finale alternativo di un video, il cambio di proporzione di un
oggetto o una leggera modifica in una performance. Ciascun visitatore
poteva scegliere da quale delle due parti incominciare. Per rendere
la situazione ancora più assurda, destabilizzante e paradossale
Xu Zhen creò una performance dal titolo “March 6th”:
invitò cento contadini, operai e nullafacenti, e poi cento
studenti universitari, tutti vestiti in pigiama a righe, in attesa
ai due ingressi delle mostre. Per ogni visitatore che entrava nello
spazio espositivo, uno dei personaggi in pigiama – da una
parte un contadino/operaio e dall’altra un giovane studente
– si staccava dal suo gruppo e lo seguiva per tutta la mostra
a due metri di distanza, senza potere né parlare né
interagire con lui; poteva staccarsi solo quando il visitatore entrava
nelle sale con presentazioni video, nel qual caso aspettava all’ingresso
della sala. Si può facilmente immaginare come questa esperienza
risultasse fortemente straniante e al tempo stesso anche molto divertente.
Nel 2004 fu la volta di 62761232, una mostra introdotta
da un lungo sottotitolo: “62761232 is the telephone number
for a courier in Shanghai. From September 10 to September 20, from
10.00 am to 10.00 pm no matter where you are in the city you will
be able to have an exhibition brought in front of you”. Si
trattava dunque di una mostra “portatile” cui parteciparono
quaranta artisti, tra i quali Xu Zhen, Yang Zhenzhong, io stesso
(con il mio nome cinese Le Dadou), Kan Xuan e molti altri, fra i
quali tredici impiegati presso di un Pony Express locale forniti
di bici e motorini. La parte più interessante di questa mostra/performance
fu la preparazione dei ragazzi del Pony Express, che per mesi vennero
istruiti su come fare una performance, spiegare un lavoro concettuale,
mostrare e commentare opere d’arte contemporanea alla loro
futura audience. La persona del Pony Express arrivata a destinazione
con valigia-mostra assumeva così il ruolo di anfitrione.
L’ordine delle opere veniva lasciato al caso: un sacchetto
contenente i numeri corrispondenti alle quaranta opere mostrate
era dato al “cliente-visitatore”, che procedeva con
ordine casuale, e in qualche modo rituale, alla scoperta della mostra.
“Solo Exhibition” del 2006 fu con tutta probabilità
la mostra più ambiziosa (anche se le circostanze l’hanno
poi trasformata in un happening) che questo gruppo di artisti ha
organizzato negli ultimi anni. L’evento si realizzò
con il supporto tecnico e logistico di BizArt, del Dolan Museum
e dello Zendai MoMA. Si trattava in realtà di una combinazione
di 38 mostre individuali di altrettanti artisti, ciascuna curata
in maniera completamente autonoma, per una somma di 38 cataloghi,
38 inviti, 38 cartelle stampa, 38 spazi diversi e indipendenti radunati
in un antico complesso industriale da poco ristrutturato. La mostra
copriva uno spazio di più o meno tremila metri quadri. Il
processo di organizzazione e realizzazione ha visto all’opera
circa ottanta persone tra artisti, collaboratori di BizArt, Zendai
MoMA, Dolan Museum e studenti. Ciascun artista era responsabile
della sua “solo exhibition” per quanto concerne contenuto
e forma, del design del suo invito e del suo catalogo. Forse anche
a causa del lungo “silenzio” della censura tra il 2000
e il 2006, alcune delle opere presentate avevano contenuti critici
particolarmente diretti e a tratti visivamente piuttosto forti.
Il giovane Zhang Ding, ad esempio presentò un lavoro fotografico
sulla pornografia in Cina; He An un’installazione sullo stupro.
Le opere furono classificate dal governo come “instabili”
e, alla presenza di più di mille visitatori, la mostra fu
terminata tagliando l’elettricità dopo dieci minuti
dall’apertura. Questa notizia non venne diffusa: da una parte
la stampa locale fu messa a tacere, dall’altra noi stessi
decidemmo di non muoverci con la stampa internazionale perché
operando in Cina, e avendo scelto di operare in Cina anche in futuro,
dovevamo accettarne le regole e tener conto delle eventuali conseguenze
di una trasgressione. Le nostre negoziazioni con le autorità,
per cercare di ricostruire la relazione con loro, furono numerose:
subito dopo la chiusura della mostra, le tre organizzazioni legate
all’evento vennero messe sotto accusa e alcuni degli artisti
dovettero darsi alla latitanza per settimane: alcuni partirono,
altri affrontarono le autorità locali, altri ancora furono
costretti a nascondersi.
Dopo dieci anni di lavoro in Cina, questa esperienza fu estremamente
frustrante e deprimente; in particolare, risultò molto duro
doversi confrontare con una realtà così difficile
e in cosí forte contrasto con l’immagine della Shanghai
internazionale e moderna che piace all’Occidente e che le
autorità locali incoraggiano per promuovere l’idea
di una città dove sia possibile condurre una vita migliore
– lo slogan “Better City, Better Life” creato
per la mostra universale del 2010 esprime questa volontà.
Ma per chi vive a Shanghai e opera nel settore dell’arte contemporanea,
la realtà è differente e decisamente più complessa.
Un punto che a mio parere merita di essere chiarito è che
nella storia di BizArt come di altre organizzazioni non-istituzionali
e di gruppi di artisti e di curatori indipendenti in Cina, le varie
attività, i progetti e le mostre non sono stati sempre ed
esclusivamente all’insegna della rottura. Confrontarsi con
le istituzioni locali significa avere a che fare con persone che
nella maggior parte dei casi non hanno una grande conoscenza artistica,
e con i quali, dunque, la negoziazione è puramente dialettica:
il contenuto e la forma di un’opera vengono scomposti e analizzati
in maniera elementare, magari snaturando persino l’intenzione
iniziale e creando un messaggio diretto e semplice che consenta
di sviare l’attenzione del “censore”. Non sempre
è stata una tattica vincente. In questi anni mi sono convinto
che il problema della censura non è (quasi) mai l’arte
in sé, ma piuttosto – come un giorno mi fu spiegato
da uno dei “censori” – il fatto che chi detiene
il potere ha paura che le mostre cosiddette “instabili”
possano innescare situazioni nelle quali la propria poltrona e i
propri privilegi vengano messi a repentaglio.
La censura, quindi, non si mette in moto al momento della realizzazione
dell’opera, ma solo quando questa viene pubblicamente esposta,
quando esiste per il pubblico e viene in qualche modo documentata
attraverso reportage e cataloghi. Certamente tutto è relativo:
quando si vive e si opera in un luogo dove non vige un sistema democratico,
e dove i mezzi di informazione debbono rispondere ad autorità
di controllo, è necessario cercare e trovare il modo di operare
ciò nonostante. D’altro canto, a difesa della Cina
e delle sue istituzioni, devo dire che l’atteggiamento delle
autorità è sempre stato (anche se tacitamente) di
sostegno alle nostre attività: per esempio, parlando con
alcuni esponenti di istituzioni locali, ho saputo che il lavoro
di BizArt è stato seguito con grande interesse e, anche se
non sempre compreso, il ruolo internazionale di questa organizzazione
piaceva al governo proprio perché in qualche maniera contribuiva
all’immagine della Shanghai moderna e cosmopolita che voleva
diffondere di sè, suggerendo una prossimità della
città ai mitici anni venti e trenta.
Il difficile equilibrio tra controllo e sviluppo culturale internazionale
ha permesso a BizArt e ad altre organizzazioni indipendenti o semi-indipendenti
come la Shanghart Gallery, Eastlink Gallery e più recentemente
Shanghai Gallery of Art, Aura Gallery, DDM Warehouse, Suzhou Creek
Warehouse, Dolan Museum, Zendai MoMA, MoCA–Shanghai e ad alcuni
curatori indipendenti come Li Xu, Zhao Chuan, Zhang Xian, Gu Zhenqing
e Karen Hung (solo per citarne alcuni) di dar vita a un sostanziale
dinamismo artistico che dura da circa un decennio.
La situazione politica contemporanea a Shanghai: quale futuro?
“Almeno a qualcuno interessa”
Da una conversazione fra Lothar Spree e Zhu Xiaowen
Più passano gli anni, più il futuro politico della
Cina mi appare oscuro. Ciò che penso di poter interpretare
è ciò che vedo a Shanghai. Nell’ultimo anno
Shanghai è stata travolta da un’ondata di rimpasto
in ambito amministrativo: sono cambiati tre sindaci in pochi mesi
e il leader del Partito Comunista locale, Chen Liangyu, è
stato arrestato per corruzione e uso improprio di fondi pubblici
(i fondi pensione). Questo quadro, legato al passato potere di Jiang
Zemin e quindi all’antico sistema di potere precedente a Hu
Jintao, ha preceduto il piu recente summit del Partito Comunista
Centrale. Un effetto notevole che scaturisce da simili situazioni
politiche, che vorrei definire “instabili”, è
l’impatto molto diretto sulle attività culturali che
provocano, spesso bloccandole: quando la mostra Solo Exhibition
è stata chiusa, la vera ragione non era il suo contenuto
artistico, ma (questa è la mia interpretazione) la stessa
collaborazione fra BizArt, Dolan Museum e Zendai MoMA che costituiva
appunto un precedente inconsueto e pertanto destabilizzante. La
mostra infatti era co-prodotta da BizArt, un’organizzazione
indipendente, dal Dolan Museum, che invece è una struttura
governativa, e da Zendai MoMA, un museo privato di proprietà
di un influente agente immobiliare di Shanghai. Una mostra come
questa creava difficoltà strutturali in merito alla domanda
di chi dovesse prendere decisioni su come comportarsi. Se in un
sistema confuciano altamente gerarchico, come quello cinese, il
livello istituzionale più basso (in questo caso l’ufficio
governativo che regola gli affari culturali del distretto) non avesse
potuto prendere provvedimenti, il problema sarebbe inevitabilmente
passato a livelli superiori, diventando esponenzialmente sempre
più critico e pericoloso. Ciò avvenne in un clima
di estrema tensione nell’estate del 2006, in concomitanza
con il rapido susseguirsi dei sindaci e le varie destituzioni di
politici corrotti provocando una situazione di immobilità
straniante sia politica che culturale.
Una delle ultime attività presentate a Shanghai nell’autunno
dello scorso anno si chiamava “eART”, un evento di new
media art, che occupava luoghi pubblici, gallerie e musei.
Concepito e organizzato da Victoria Lu, curatrice indipendente affiliata
a MoCA Shanghai, e patrocinato dal governo, l’evento ha sortito
risultati limitati, sia di critica che di pubblico; da un lato per
via delle difficoltà organizzative, dall’altro per
il timore generale che ne ha come congelato la portata in seguito
ad interventi restrittivi su opere di artisti sia locali che internazionali.
In sostanza, nonostante le tensioni generate dal boom economico,
l’atmosfera rimane in molti ambienti ottimista e possibilista
e, soprattutto, il sistema politico in vigore non è un sistema
fragile e fallace: personalmente, nutro un’estrema, perversa
ammirazione per la capacità del governo cinese di gestire
non solo le politiche interne ma anche quelle internazionali. Può
sembrare che l’autorità centrale sostenga e rafforzi
l’idea post-moderna di una dittatura economica e globalizzante,
la cosiddetta “via socialista” al capitalismo che, fatte
le debite differenziazioni ma pur sempre in maniera inquietante,
rispecchia ciò che sta succedendo in Cina anche al sistema
dell’arte contemporanea. La speculazione sulle opere d’arte
cinesi, o meglio su un numero limitato di opere e di artisti che
le grandi case d’asta come Sotheby’s e Christie’s
(solo per citare le più famose) stanno promuovendo, risponde
allo stesso principio: commercializzare l’arte a un punto
tale da creare un sistema di produzione artistica più vicino
alla cultural industry e all’intrattenimento di lusso
che renda l’arte un investimento finanziario più che
una realtà fondamentale per lo sviluppo artistico e culturale
della Cina stessa.
La Cina e il mercato
“Per diventare artisti commerciali di successo, bisogna
saper essere dei buoni imprenditori; e non tutti gli artisti sono
in grado di farcela.”
Da una conversazione con Zhang Beili, Amsterdam, dicembre 2007
Nel corso degli ultimi quattro anni il mercato dell’arte
internazionale è entrato in Cina in modo repentino, in un
contesto strutturale locale ancora largamente inadeguato. Fino a
quattro o cinque anni fa quello che gli artisti cinesi creavano
era considerato da molti operatori del settore provinciale, déjà
vu e non interessante. Appena si intuì invece che le
opere cinesi potevano costituire un facile investimento e portare
consistenti e rapidi guadagni tutto è diventato possibile:
per cui le opere con signature cinese, come quelle di Fang
Lijun, Yue Minjun, Zhang Xiaogang, Wang Guangyi (per citare solo
alcuni tra coloro che sono diventati facilmente riconoscibili da
parte del pubblico occidentale), sono passate da quotazioni di qualche
decina di migliaia a milioni di dollari. Il successo degli artisti
di “prima generazione” (supportati all’epoca da
validi critici d’arte come Li Xianting o Gao Minglu) è
stato un fenomeno improvviso, rapidissimo e di proporzioni immense,
tanto che questo gruppo è diventato un modello di riferimento
imprescindibile per le generazioni successive. L’arte “contemporanea”
in Cina, come ha suggerito Zhang Beili in una recente conferenza,
è stata sostanzialmente un’invenzione degli anni ottanta;
gli artisti di quel periodo erano alla ricerca di novità
espressive che fossero in contrasto e/o che rappresentassero una
risposta all’idea maoista di arte e, ancor prima, alla millenaria
tradizione artistica “classica” cinese. Per questa ragione
cominciarono a utilizzare linguaggi “immaginati” o più
o meno correttamente traslati dalla storia dell’arte occidentale;
il risultato fu il fenomeno chiamato “Cinismo pop” (o
“Realismo Cinico”) che si è diffuso in Occidente
caratterizzato da una distinzione simbolica legata a immagini immediatamente
riconoscibili come “cinesi” dal pubblico internazionale.
L’oggetto della critica furono le immagini e le tematiche
maoiste. Attraverso linguaggi artistici inizialmente elaborati fuori
dalla realtà estetica cinese si è venuto a creare
un fraintendimento di intenzioni: l’anima critica all’origine
del lavoro si trasformò in un semplice attributo simbolico,
leggibile dal pubblico internazionale come “tipico cinese”.
La canonizzazione di questi modelli ha avuto luogo progressivamente
nel corso degli anni novanta: con la mostra berlinese Chinese
Contemporary Art e con le diverse edizioni della Biennale di
Venezia a partire dal 1993, fino alla più recente esposizione
Majiong organizzata al Kunstmuseum di Berna nel 2006.
Le conseguenze di questo approccio sono sotto gli occhi di tutti:
gli artisti “canonizzati” rappresentano, soprattutto
all’estero, la Cina contemporanea e sono diventati il modello
di riferimento anche per i giovani artisti e per gli studenti. Il
messaggio è forte e chiaro: imparare a dipingere e creare
lavori per venderli. Questo è il percorso che viene suggerito
nelle accademie e nei corsi di design, architettura e moda. Ovviamente
la stessa cosa vale nell’ambito delle arti visive: a parte
alcuni insegnanti illuminati, la didattica riconosciuta e supportata
dalle organizzazioni scolastiche è quella indirizzata e finalizzata
al guadagno. Non esiste formalmente un invito a cercare di comprendere,
di conoscere, di imparare, per poi creare lavori di un qualche spessore
intellettuale; la spinta principale sembra essere quella del guadagno
veloce, senza un’idea di investimento nella pratica culturale
a lungo termine.
Chi scrive ritiene che guadagnare, di per sé, non costituisca
un problema se non va a discapito dell’idea creativa e della
crescita coerente della pratica artistica.
Detto ciò, rimangono per fortuna delle realtà che
operano in maniera differente, come per esempio l’Accademia
di Belle Arti di Hangzhou, il cui New Media Department sta facendo
un lavoro molto serio e lungimirante per sviluppare modalità
che non siano unicamente commerciali e che permettano agli studenti
di investire in attività artistiche complesse e, a volte,
persino pubblicamente impegnate.
In sostanza, la risposta a questa realtà diffusa è
quasi completamente nelle mani di singole iniziative private disperse
sul territorio cinese; si tratta di organizzazioni e di individui
che operano in Cina da anni, che hanno investito tempo nella comprensione
dello stato delle cose e che cercano di lavorare per migliorare
la qualità delle produzioni artistiche, siano esse nel dominio
delle arti visive, performative o musicali. Esse costituiscono l’alternativa
all’altra tendenza del momento, al curatore, al collezionista,
al gallerista o all’istituzione che viene in Cina (solo in
Cina?) per fare shopping di idee, opere e artisti da esportare,
creando ancora una volta una Cina inventata, magica, indemoniata;
o, semplicemente, una proiezione di Cina semplificata e scorretta.
40+4 Arte non è abbastanza, non è abbastanza!
Questa lunga introduzione mi porta al centro di quello che è
il progetto presentato presso il Centro di Cultura Contemporanea
Strozzina. Dove trovare risposte che ridefiniscano o riposizionino
l’arte e il suo senso? Qual è il ruolo dell’arte
nell’ambito di una globalizzazione alienante? Come ristabilire
un senso di integrità intellettuale nell’approccio
all’arte anche nelle sue connotazioni commerciali e di potere?
Dove si trova l’artista in tutto questo? Nella commercializzazione
estrema dell’arte, che diventa un investimento prima di essere
un ideale, c’è ancora posto per un’espressione
“rivoluzionaria”? Qual è il senso del proprio
lavoro? È possibile avere una visione dell’arte legata
a una progettualità a lungo termine e volta alla produzione
di idee più che di soli oggetti? È l’arte solo
l’ennesimo prodotto di un’epoca e di una società
che verrà esposta nei futuri musei come rappresentazione
di un preciso momento storico, politico e sociale? Sono io solo
a pormi queste domande e a riflettere sulle problematiche ad esse
correlate, oppure questo senso di insoddisfazione e straniamento
coinvolge anche altri: artisti, curatori, galleristi? E poi, sono
questioni relative unicamente all’ambito cinese o più
in generale al sistema dell’arte mondiale?
L’inquietudine sollevata da queste domande poteva, nella
mia visione ideale delle cose, essere risolta solo attraverso un
dialogo con gli attori principali del sistema arte: gli artisti.
È per questo motivo che, all’inizio del 2007, insieme
a Lothar Spree, Zhu Xiaowen e Xu Jie, abbiamo deciso, con un approccio
quasi sociologico, di avviare una ricerca per tentare di comprendere
se questo disagio abbia radici profonde e se sia condiviso dagli
artisti di Shanghai. Si parla spesso del “sistema” dell’arte,
ma l’elemento fondamentale all’interno di questo sistema
è il suo centro, e cioè quello che l’artista
crea: la sua arte per l’appunto. E allora con Lothar Spree,
Zhu Xiaowen e Xu Jie – quest’ultimo nel ruolo dell’intervistatore
professionista – abbiamo cercato di comprendere la relazione
fra gli artisti, il loro lavoro e lo sviluppo dell’arte contemporanea
a Shanghai nell’ultimo ventennio, intervistando un gruppo
selezionato di artisti. Abbiamo scelto i numeri quaranta e quattro:
quaranta artisti e quattro persone coinvolte nel progetto, per un
totale di quarantaquattro, il numero che, nella lingua cinese, suona
come la traduzione di double death, la doppia morte, e
riporta a uno scioglilingua cinese molto comune. Tutte le connotazioni
che il numero quarantaquattro racchiude ci sono sembrate ironicamente
appropriate per definire l’anima del progetto.
I quaranta artisti selezionati provengono da ambiti di formazione
differenti: dall’arte tradizionale, alla pittura, sino alla
new media art; alcuni sono direttori di musei, altri insegnanti.
La scelta è stata soggettiva, ma crediamo di essere riusciti
a proporre uno squarcio rappresentativo della scena artistica di
Shanghai.
Le domande poste agli artisti sono le medesime, ciascuna stampata
su una carta da gioco, una flashcard; sono in tutto ventisette,
divise in quattro colori, più un gruppo dedicato a citazioni
sull’arte di personaggi storici. L’intervista ha inizio
con quattro domande generali e autobiografiche sull’artista
(carte grigie) per proseguire poi con domande di tipo più
filosofico e psicologico (carte blu), altre di natura politica e
sociologica (carte verdi), e concludersi con domande sull’arte
come prodotto (carte rosse). La conversazione termina con un’ultima
carta da scegliere dal mazzo della dozzina di citazioni (carte verdi
chiare) di vari personaggi sul senso dell’arte. L’artista
è invitato a commentare a voce alta la carta prescelta e
proporre, se lo ritiene necessario, una versione personalizzata
della citazione. L’intervista/conversazione dura mediamente
da 30 a 45, talvolta 60 minuti.
Grazie a un lungo lavoro di montaggio si è ottenuta una
composizione su quattro schermi in sincronia, in cui le immagini
si susseguono creando un ritmo ipnotico che ben riflette la visione
della realtà contemporanea artistica e culturale nella città
di Shanghai: frammentata e in continuo divenire. Gli artisti, narrandosi,
propongono – attraverso una conversazione “forzata”
– un’analisi della storia dell’arte contemporanea
dagli anni ottanta fino ad ora, con riflessioni mirate sulla condizione
dell’artista in città, sulle relazioni dell’arte
contemporanea cinese con il suo passato e con la storia dell’arte
internazionale, sul mercato e sulla situazione della critica dell’arte
in Cina. Attraverso una presentazione nello spazio sviluppata su
quattro schermi, la narrativa del filmato presenta, oltre che l’artista-individuo,
anche un punto di vista corale dei quaranta intervistati: un’immagine
della Shanghai artistica senza “io”.
Dal materiale registrato sono state ricavate le due versioni in
cinese e in inglese, le cui trascrizioni saranno presto disponibili
in Internet. I testi sono stati sottoposti all’attenzione
di alcuni critici locali e internazionali, ai quali è stato
chiesto di scrivere commenti e testi critici per una pubblicazione
che avrà luogo nel corso del 2008 e che fungerà da
apparato critico alla versione installativa del progetto.
Un primo commento generale, che si evince dal materiale raccolto
è che il “caso Shanghai” non è altro che
una rappresentazione di quello che sta avvenendo anche nel resto
del mondo: ovvero lo scollamento tra artista, arte e sistema dell’arte.
Così Stephen Wright scrive, in modo appropriato e calzante,
introducendo il progetto:
“Proprio come il suo skyline, anche il panorama artistico
di Shanghai
cambia a una velocità sbalorditiva. Parlare di un ‘mondo
dell’arte’ in
questa città non è più adeguato a descrivere
una realtà fatta di una
pluralità di sistemi, comunità, momenti e luoghi del
fare arte che
spesso si sovrappongono gli uni agli altri. In che modo si trasforma
lo
status dell’artista in uno scenario simile? E come hanno affrontato
il
mutamento gli artisti stessi, via via che le ‘industrie creative’
hanno
usurpato gli ex territori della produzione artistica? Quali ripercussioni
ha avuto questo mutamento sulla visione che gli artisti hanno di
se
stessi e sul loro rapporto con mercanti, critici e curatori? […]
Al centro di questo progetto di ricerca vi è una serie di
interviste
filmate, realizzate da Davide Quadrio e Lothar Spree in collaborazione
con Zhu Xiaowen e Xu Jie. In queste interviste una quarantina di
artisti
attivi a Shanghai parlano non tanto dell’arte in sé
quanto piuttosto di
come l’artista percepisce la propria attività e il
proprio ruolo in una
società post-convenzionale in continua trasformazione. Il
progetto
tenta di disegnare i contorni dell’immaginazione artistica
in questa
città, fornendo una sorta di cartografia dei campi di forza
delle sue
soggettività. Al di sopra e al di là di un’analisi
degli immaginari artistici
spietatamente critica e talvolta di parte, la ricerca mette a fuoco
in
senso euristico i soggetti di uno degli esperimenti urbani più
potenti
del mondo contemporaneo: Shanghai.
Gli intervistati provengono da un’ampia gamma di contesti,
prassi e
tradizioni diverse; i loro punti di vista riflettono una varietà
altrettanto
ampia di valori, sia impliciti che espliciti, e aspettative nei
confronti
dell’arte, della produzione artistica, dei commenti critici
e del pubblico.
Le loro risposte rivelatrici, sia in quello che danno per scontato
sia in
quello che dichiarano, dipingono un paesaggio in cui diversi mondi
dell’arte si sovrappongono tra loro, ciascuno con un proprio
sistema di
assunti ed economie di riconoscimento.
[…] Una delle linee di frizione in questa pluralità
di mondi dell’arte è
quella che oppone il vernacolare (consuetudini profondamente
radicate nel contesto) al globale (quel mondo dell’arte la
cui casa è il
mondo intero). Come superare questa sterile opposizione? Esiste
forse
qualcosa di talmente specifico in una cultura – e nelle pratiche
artistiche che ne fanno parte – da risultare impenetrabile
a tutti coloro
che non vi sono nati? […] Pur aggirando le trappole dell’universalismo,
c’è forse qualche ragione per enfatizzare il tema della
specificità
culturale? Verosimilmente, il mutamento paradigmatico in corso
nell’economia simbolica del mondo dell’arte rispecchia
una transizione
analoga, e largamente amplificata, nell’economia in generale.
Non
sorprende il fatto che molti artisti appaiano riluttanti ad abbracciare
nuovi modelli e preferiscano piuttosto adeguarsi a idee più
praticabili
benché convenzionali. Altri sembrano invece più inclini
a rinunciare a
una pratica orientata all’oggetto a favore di esperienze artistiche
basate sulla comunicazione o sulla comunità. […]
In superficie, la scena artistica di Shanghai appare effervescente:
l’economia è in crescita e la domanda continua a superare
l’offerta.
Ma tutta questa eccitazione non nasconde forse un segreto scontento
– una frustrazione indiretta, un disorientamento rispetto
a regole e
valori correnti?”
Questa lunga citazione sembra suggerire che il “latent discontent”
non sia necessariamente peculiare al mondo dell’arte cinese.
Sono stato invitato a partecipare a numerose conferenze e seminari
sulla Cina in Europa e in varie parti dell’Asia: esperienze
illuminanti, cariche di un certo senso di “displacement”.
Nella mia vita professionale, forse in conseguenza di una sorta
di sensazione di inadeguatezza derivante in parte dall’idea
eurocentrica del mondo, l’immagine che mi sono fatto del sistema
arte in Occidente è che trasudi professionalità, libertà
d’azione, denaro e potere. Confrontandomi direttamente con
le istituzioni europee, mi sono reso conto dell’esistenza
di meccanismi che non capisco, o che mi sorprendono; meccanismi
che, mutatis mutandis, sono molto simili a quelli che ho
descritto attraverso le immagini del percorso degli ultimi dieci
anni di sviluppo artistico a Shanghai. Parlando con giornalisti
e artisti italiani ho capito per esempio che l’autocensura
è frequente e tristemente subita anche in Italia; parlando
con amici e studenti mi sono reso conto di una sensazione generale
di impotenza, un senso del “non osare” indotto da un
immobilismo culturale e da un sistema istituzionale incancrenito.
Il meccanismo per cui “tanto anche se cerco di fare, poi non
succede; non succede come voglio” è drammaticamente
radicato e, come ha ben descritto Stephen Wright, assolutamente
straniante.
L’indipendenza e l’uso del sistema
Per concludere, vorrei sottolineare alcuni aspetti della situazione
corrente in Cina in relazione alla nuova globabizzazione del sistema
dell’arte. Negli ultimi cinque anni l’interesse è
aumentato e le opportunità legate all’arte contemporanea
in Cina si sono moltiplicate e hanno attirato una serie di personaggi
internazionali di origine asiatica o cinese (da Taiwan, Singapore,
Hong Kong, Korea o dalla Cina continentale). Questi personaggi –
critici, curatori, artisti, collezionisti – hanno portato
grande sconvolgimento nell’ambito del sistema Cina, inserendosi
tra l’internazionale e le istituzioni locali e creando una
percezione nebulosa dei meccanismi culturali cinesi. Questi personaggi
intervengono al livello del sistema e sono percepiti dalle istituzioni
locali come facenti parte della comunità internazionale cinese.
Sono curatori, accademici, galleristi, artisti, consulenti che si
inseriscono tra musei, festival artistici, biennali, e danno l’impressione
che i livelli di apertura artistica del governo siano un dato di
fatto. La serie delle Beijing International New Media Arts Exhibitions
(nelle sue tre edizioni del 2004, 2005 e 2006) organizzate dall’Università
Tsinghua, o l’“eART Festival” a Shanghai nella
sua prima edizione del 2007, per citarne solo due, si inseriscono
in questo sistema. In apparenza si tratta di eventi che rispondono
adeguatamente all’idea di apertura; ma in pratica, se si analizza
il percorso “tecnico” di realizzazione di questi festival,
ci si scontra con meccanismi di forte controllo. Il lavoro condotto
dalle istituzioni cinesi per sostenere i new media e la
creative industry ha infatti generato un’idea della
relazione fra arte e tecnologia che sfocia nel concetto di divertissement:
tecnologia e arte uniti nella leggerezza dell’intrattenimento.
Questi festival presentano opere quasi di design, quasi manga,
un contenuto per la maggior parte dei casi “safe” nel
senso di non pericoloso, raramente approfondito e solo minimamente
critico. I curatori, che in parte sono cinesi, o “sembrano”
cinesi (nel senso che sono etnicamente cinesi ma cresciuti all’estero)
trasportano, insieme alla propria esperienza, un intero sistema
dell’arte internazionale e diventano il tramite di una concezione
“up and coming” della Cina dove tutto è possibile,
eccitante, nuovo, futuristico. Sono i perfetti intermediari per
un governo che vuole fare le cose in grande, meglio se internazionali
nei contenuti, che siano belle, semplici, e che portino glamour
alla Cina. Ovviamente, questo è contraccambiato dall’irrefrenabile
desiderio delle istituzioni internazionali di venire in Cina e di
aprire possibili canali con questo nuovo mondo ricco di possibilità
culturali. Ma soprattutto economiche.
“La dicotomia fra la Cina e il resto del mondo – mimare
il resto del mondo e aggiungere quel tocco di cosiddetta ‘cinesità’.
Questo rapporto fluttuante era e ancora è parte del gioco
del mostrare l’arte: i contenuti e l’estetica in esposizione
trovano massima giustificazione nella propria ‘cinesità’.
E cosa questa cosiddetta ‘cinesità’ in effetti
sia, era e ancora è un concetto pittosto confuso […]
C’è una sorta di indulgenza condiscendente nei confronti
delle esposizioni in Cina (e non solo), una specie di giustificazione
che forse risponde, dal lato ‘cinese’, a un senso di
disagio e inadeguatezza, e dal lato ‘occidentale’ a
un mix di paternalismo (che a volte sconfina nell’imperialismo
culturale) e ansietà nella difesa del valore e della qualità
delle sue implicazioni (siano esse culturali, economiche o politiche)
con la Cina”10. Non a caso l’introduzione a KIC, uno
dei luoghi scelti per lo “Shanghai eArt Festival” (Urbanized
Landscape) nel 2008, recita: “KIC è ispirato da
una commistione insolita fra l’innovazione tecnologica e lo
spirito imprenditoriale della Silicon Valley e l’intensità
culturale della rive gauche”.
Non a caso l’introduzione a KIC, uno dei luoghi scelti per
lo “Shanghai eArt Festival” (Urbanized Landscape) nel
2008, recita: “KIC was inspired by a combination of technological
innovation and entrepeneurial spirit found in the Silicon Valley
in the United States, and the cultural vibrancy of the left bank
of Paris”.
Nonostante la visione dall’esterno suggerisca che tutto semplicemente
accade secondo standard o convenzioni internazionali, la realtà
è molto più complessa. La Cina ha le regole proprie
di un sistema rimasto chiuso per decenni, con delle aperture e delle
chiusure imperscrutabili, di difficile interpretazione e dure da
scalzare o impiegare a vantaggio di creazioni artistiche genuine;
ma che, nel caso vengano piegate a beneficio di progetti sostanziali,
spero possano creare risultati senza precedenti e incredibilmente
liberatori. La Cina come laboratorio di nuove possibilità
e futuribili soddisfazioni. La questione che rimane: si è
ancora in tempo per una tale evoluzione? |