Home l Educazione l Informazioni l Contatti l English
   
  Catalogo
Silvana Editoriale
www.silvanaeditoriale.it
   
  > James Bradburne, Il Centro di Contemporanea Strozzina
> Franziska Nori, Cina Cina Cina!!!
   
 

> Joe Martin Hill, Arte e mercato
> Francesca Dal Lago, La Cina è lontana

> Wang Jianwei, Perché si deve parlare di “Cina”, adesso?

> Davide Quadrio, La Cina, ancora!

> Lothar Spree, 40 + 4 Arte non è abbastanza, non è abbastanza!

> Li Zhenhua, Multiarcheologia

> Zhang Wei, Un lancio di dadi

 
  La Cina, ancora!
La storia artistica di Shanghai nell’ultimo decennio: dalle mostre “off” al progetto
“40+4 Arte non è abbastanza, non è
abbastanza!”
presentato presso il Centro
di Cultura Contemporanea Strozzina

Davide Quadrio
   
  “Il modo migliore per far soldi con un fiore era comprarne uno che stesse per germogliare e vendere i germogli separatamente. I bulbi che sembravano poter crescere più rapidamente erano quindi più preziosi sia dei fiori che erano ancora immaturi sia di quelli già pienamente sviluppati, che avrebbero dato ancora pochi germogli prima di sfiorire. Ma anche i fioristi più esperti trovavano difficile prevedere con accuratezza come ciascun bulbo si sarebbe sviluppato; e per quelli alle prime armi tutta questa faccenda dei bulbi rappresentava un esercizio di pura speculazione.”

Mike Dash, Tulipomania, the story of the world’s most coveted flower and the extraordinary passions it aroused, Phoenix (UK) 1999


Al Motor Village di Torino ho recentemente propostoo una serie di documentari, quasi sconosciuti in Europa, su cinque eventi artistici importanti per Shanghai tra il 1998 e oggi. I cataloghi e i video presentati rendono un’immagine frammentata ma affascinante di un gruppo di persone, fra le quali artisti, curatori e galleristi, che dalla fine degli anni novanta ad oggi hanno creato (o meglio hanno cercato di creare) un contesto per l’arte contemporanea a Shanghai. La presentazione di questi video mi era apparsa un mezzo adeguato per poter mostrare al pubblico come alla fine degli anni novanta la realtà artistica e culturale di Shanghai mancava di un sistema strutturato. La situazione, anche se oggi sembra quasi impossibile crederci, era ancora più difficile nel campo dell’arte contemporanea. I miei colleghi e collaboratori ed io iniziammo a operare in un contesto che era ancora, per così dire, “vuoto”; cercavamo di individuare una modalità quanto più possibile efficiente pur nella precarietà e relativa marginalità dei luoghi a nostra disposizione, ovvero spazi temporanei e in disuso. Solo a partire dal 2000 questi luoghi hanno acquisito maggiore stabilità e sono diventati il teatro dell’avvio di una fase particolarmente emozionante di creazione e progettazione, sia pur nella forte complessità della “negoziazione” con le realtà istituzionali e politiche della città. Così è nato BizArt Art Center, uno spazio not for profit, che si è saputo inventare pressoché dal nulla una modalità d’azione sperimentale incentrata su progetti specifici, con artisti cinesi e internazionali e con una forte connotazione educativa. Il merito indiscutibile di questo gruppo (relativamente piccolo) di persone negli ultimi dieci anni è stato quello di affrontare la tendenza “iper-commerciale” della città con un’azione decisamente controcorrente. Da qui un luogo “not-for-profit” (lo è ancora oggi) che si dedica ad attività creative non legate all’arte intesa come produzione di “oggetti artistici” finalizzati all’immediata commercializzazione ma piuttosto al processo creativo di base: ovvero, alle idee.
Il nostro percorso, seppure fortemente condizionato dalle difficoltà economiche, è proseguito in un contesto in evoluzione rapidissima e continua, un contesto dove il tempo sembrava dilatarsi e comprimersi senza sosta – una sorta di “iper-tempo” dove mesi e anni si confondevano per i frenetici cambiamenti che avevano luogo intorno a noi. Questo stato di cose ci ha costretti all’azione rapida, talvolta sacrificando la riflessione sistematica sulle scelte e sui percorsi intrapresi.

Una storia “off”
Il primo video di cui voglio parlare è del 1998. La mostra era intitolata Jinyuan road 310. Un gruppo di artisti capeggiati da Xu Zhen, Alexander Brandt e Yang Zhenzhong curò questo evento/mostra multimediale in un sotterraneo affittato appositamente. Per quanto inconcepibile possa sembrare oggi, nel 1998 l’arte multimediale o new-media non era ancora considerata o classificata come arte dalle istituzioni cinesi: le autorità infatti la consideravano “instabile” (bu wending) se non, a volte, addirittura sovversiva. Di conseguenza, a causa di alcuni contenuti giudicati “instabili” ma non meglio identificati, la mostra fu chiusa d’ufficio. L’anno seguente, nel 1999, gli stessi artisti riprovarono di nuovo un’azione, ma con una più complessa operazione di sensibilizzazione sia della comunità expat sia delle aziende internazionali di supporto. Presentata come un evento storico per Shanghai, la mostra, che venne chiamata Art for Sale, fu considerevolmente sostenuta da una mirata politica di marketing. Art for Sale fu presentata in un centro commerciale, il cui spazio venne diviso in due: una parte di commercializzazione, volutamente cinica, dedicata a oggetti d’arte, come fosse una sorta di mini-supermercato e una seconda parte, dedicata a performances e di installazioni. Anche questa mostra fu chiusa immediatamente il giorno dopo l’inaugurazione. La motivazione da parte delle autorità fu che le opere presentate avevano dei contenuti pornografici.

La storia degli happening, delle attività e delle mostre di quel periodo a Shanghai non è stata ancora scritta. Inoltre, la commercializzazione estrema dell’arte contemporanea cinese odierna, con le sue inevitabili semplificazioni, spesso ostacola una visione più contestualizzata del processo di formazione dell’arte in Cina negli ultimi due decenni. La recente internazionalizzazione dell’arte cinese ha avuto, tra le sue conseguenze più problematiche, quella di renderne difficile la comprensione, l’elaborazione critica e la documentazione della multiforme evoluzione dei percorsi degli artisti cinesi, quelli di Shanghai in particolare. Solo da poco è iniziato un lavoro di analisi del passato recente e dei momenti cruciali della nascita e della crescita dell’arte contemporanea in Cina. Due esempi: l’edizione di numeri monografici del periodico “U-TURN” di Pechino, curato da Philip Tinari, e il lavoro avviato dalla fondazione Ullens con la presentazione di esposizioni retrospettive sull’arte cinese, un’attività inaugurata nel 2007 da 85 New Wave: The Birth of Chinese Contemporary Art. Resta il fatto che una simile tentativo di contestualizzazione rimane ancora per lo più centrato su Pechino, mentre la storia artistica di altri luoghi come Shanghai, Chengdu, Kunming e la zona del Delta del Fiume delle Perle è ancora lontana da un’effettiva codificazione.

Un altro video che ho presentato a Torino – non strettamente legato alle attività di BizArt ma certamente parte di una progettualità caratterizzata da azioni di “rottura” e intervento sul territorio – è la documentazione della mostra del 2000 intitolata Fuck Off nella sua versione inglese e, meno aggressivamente “Buhezuodefangshi” (o “atteggiamento non collaborativo”) in cinese. Anche questa esposizione fu chiusa dopo qualche giorno, e l’organizzatore Li Liang della Eastlink Gallery (una struttura tra galleria commerciale e no profit), che l’aveva curata insieme ad Ai Weiwei, ebbe non pochi problemi di gestione delle proprie attività per più di un anno. La mostra non era all’apparenza particolarmente polemica, e i contenuti delle opere d’arte erano critici pur senza essere sovversivi. Più forte e a tratti violento, invece, il catalogo. Alcuni degli artisti presentati avevano esposto opere che utilizzavano o mostravano cadaveri umani o parti derivate da cadaveri come per esempio grasso umano nell’installazione di Peng Yu. L’opera più criticata, quella che ha causato grande scalpore e massimo sgomento e che ha poi fatto il giro del mondo era la performance di Zhu Yu, documentata in video, che proponeva un’azione di cannibalismo di un feto umano bollito. La secca risposta delle autorità fu la ristrutturazione delle leggi generali sulla pornografia e sulle xingwei yishu, ovvero la nudità e l’uso del corpo come veicolo performativo.

In realtà, la lettera del dettato legale è estremamente nebulosa, con linee e principi generali cui potevano essere attribuiti significati diametralmente opposti. La vaghezza delle regole e le possibili interpretazioni antitetiche sono fattori che ancora oggi creano situazioni di grande dubbio e incertezza: tutto è possibile, si può rappresentare il corpo nudo per motivi artistici, basta che non sia pornografico o che non sia offensivo. Tutti i termini della questione sono assai vaghi, e persino il significato della parola “arte” è assai poco chiaro. E allora la domanda è: qual è il limite?
Gli altri eventi che ho presentato in occasione dell’evento a Torino sono le ultime tre mostre non-istituzionali organizzate dal gruppo di artisti che fanno capo a Xu Zhen, Yang Zhenzhong e Alexander Brandt, i quali a tutt’oggi lavorano ancora in stretta collaborazione con BizArt. La prima si chiamava Fan Mingzhen & Fan Mingzhu (2002), dai nomi di due gemelle cinesi che accoglievano i visitatori ai due ingressi della mostra. La mostra conteneva due parti, ovvero due mostre speculari in uno spazio di circa 2000 metri quadri: gli artisti mostravano nei due spazi le medesime opere avendo apportato minime variazioni come per esempio il finale alternativo di un video, il cambio di proporzione di un oggetto o una leggera modifica in una performance. Ciascun visitatore poteva scegliere da quale delle due parti incominciare. Per rendere la situazione ancora più assurda, destabilizzante e paradossale Xu Zhen creò una performance dal titolo “March 6th”: invitò cento contadini, operai e nullafacenti, e poi cento studenti universitari, tutti vestiti in pigiama a righe, in attesa ai due ingressi delle mostre. Per ogni visitatore che entrava nello spazio espositivo, uno dei personaggi in pigiama – da una parte un contadino/operaio e dall’altra un giovane studente – si staccava dal suo gruppo e lo seguiva per tutta la mostra a due metri di distanza, senza potere né parlare né interagire con lui; poteva staccarsi solo quando il visitatore entrava nelle sale con presentazioni video, nel qual caso aspettava all’ingresso della sala. Si può facilmente immaginare come questa esperienza risultasse fortemente straniante e al tempo stesso anche molto divertente.

Nel 2004 fu la volta di 62761232, una mostra introdotta da un lungo sottotitolo: “62761232 is the telephone number for a courier in Shanghai. From September 10 to September 20, from 10.00 am to 10.00 pm no matter where you are in the city you will be able to have an exhibition brought in front of you”. Si trattava dunque di una mostra “portatile” cui parteciparono quaranta artisti, tra i quali Xu Zhen, Yang Zhenzhong, io stesso (con il mio nome cinese Le Dadou), Kan Xuan e molti altri, fra i quali tredici impiegati presso di un Pony Express locale forniti di bici e motorini. La parte più interessante di questa mostra/performance fu la preparazione dei ragazzi del Pony Express, che per mesi vennero istruiti su come fare una performance, spiegare un lavoro concettuale, mostrare e commentare opere d’arte contemporanea alla loro futura audience. La persona del Pony Express arrivata a destinazione con valigia-mostra assumeva così il ruolo di anfitrione. L’ordine delle opere veniva lasciato al caso: un sacchetto contenente i numeri corrispondenti alle quaranta opere mostrate era dato al “cliente-visitatore”, che procedeva con ordine casuale, e in qualche modo rituale, alla scoperta della mostra.

“Solo Exhibition” del 2006 fu con tutta probabilità la mostra più ambiziosa (anche se le circostanze l’hanno poi trasformata in un happening) che questo gruppo di artisti ha organizzato negli ultimi anni. L’evento si realizzò con il supporto tecnico e logistico di BizArt, del Dolan Museum e dello Zendai MoMA. Si trattava in realtà di una combinazione di 38 mostre individuali di altrettanti artisti, ciascuna curata in maniera completamente autonoma, per una somma di 38 cataloghi, 38 inviti, 38 cartelle stampa, 38 spazi diversi e indipendenti radunati in un antico complesso industriale da poco ristrutturato. La mostra copriva uno spazio di più o meno tremila metri quadri. Il processo di organizzazione e realizzazione ha visto all’opera circa ottanta persone tra artisti, collaboratori di BizArt, Zendai MoMA, Dolan Museum e studenti. Ciascun artista era responsabile della sua “solo exhibition” per quanto concerne contenuto e forma, del design del suo invito e del suo catalogo. Forse anche a causa del lungo “silenzio” della censura tra il 2000 e il 2006, alcune delle opere presentate avevano contenuti critici particolarmente diretti e a tratti visivamente piuttosto forti. Il giovane Zhang Ding, ad esempio presentò un lavoro fotografico sulla pornografia in Cina; He An un’installazione sullo stupro. Le opere furono classificate dal governo come “instabili” e, alla presenza di più di mille visitatori, la mostra fu terminata tagliando l’elettricità dopo dieci minuti dall’apertura. Questa notizia non venne diffusa: da una parte la stampa locale fu messa a tacere, dall’altra noi stessi decidemmo di non muoverci con la stampa internazionale perché operando in Cina, e avendo scelto di operare in Cina anche in futuro, dovevamo accettarne le regole e tener conto delle eventuali conseguenze di una trasgressione. Le nostre negoziazioni con le autorità, per cercare di ricostruire la relazione con loro, furono numerose: subito dopo la chiusura della mostra, le tre organizzazioni legate all’evento vennero messe sotto accusa e alcuni degli artisti dovettero darsi alla latitanza per settimane: alcuni partirono, altri affrontarono le autorità locali, altri ancora furono costretti a nascondersi.

Dopo dieci anni di lavoro in Cina, questa esperienza fu estremamente frustrante e deprimente; in particolare, risultò molto duro doversi confrontare con una realtà così difficile e in cosí forte contrasto con l’immagine della Shanghai internazionale e moderna che piace all’Occidente e che le autorità locali incoraggiano per promuovere l’idea di una città dove sia possibile condurre una vita migliore – lo slogan “Better City, Better Life” creato per la mostra universale del 2010 esprime questa volontà. Ma per chi vive a Shanghai e opera nel settore dell’arte contemporanea, la realtà è differente e decisamente più complessa.

Un punto che a mio parere merita di essere chiarito è che nella storia di BizArt come di altre organizzazioni non-istituzionali e di gruppi di artisti e di curatori indipendenti in Cina, le varie attività, i progetti e le mostre non sono stati sempre ed esclusivamente all’insegna della rottura. Confrontarsi con le istituzioni locali significa avere a che fare con persone che nella maggior parte dei casi non hanno una grande conoscenza artistica, e con i quali, dunque, la negoziazione è puramente dialettica: il contenuto e la forma di un’opera vengono scomposti e analizzati in maniera elementare, magari snaturando persino l’intenzione iniziale e creando un messaggio diretto e semplice che consenta di sviare l’attenzione del “censore”. Non sempre è stata una tattica vincente. In questi anni mi sono convinto che il problema della censura non è (quasi) mai l’arte in sé, ma piuttosto – come un giorno mi fu spiegato da uno dei “censori” – il fatto che chi detiene il potere ha paura che le mostre cosiddette “instabili” possano innescare situazioni nelle quali la propria poltrona e i propri privilegi vengano messi a repentaglio.

La censura, quindi, non si mette in moto al momento della realizzazione dell’opera, ma solo quando questa viene pubblicamente esposta, quando esiste per il pubblico e viene in qualche modo documentata attraverso reportage e cataloghi. Certamente tutto è relativo: quando si vive e si opera in un luogo dove non vige un sistema democratico, e dove i mezzi di informazione debbono rispondere ad autorità di controllo, è necessario cercare e trovare il modo di operare ciò nonostante. D’altro canto, a difesa della Cina e delle sue istituzioni, devo dire che l’atteggiamento delle autorità è sempre stato (anche se tacitamente) di sostegno alle nostre attività: per esempio, parlando con alcuni esponenti di istituzioni locali, ho saputo che il lavoro di BizArt è stato seguito con grande interesse e, anche se non sempre compreso, il ruolo internazionale di questa organizzazione piaceva al governo proprio perché in qualche maniera contribuiva all’immagine della Shanghai moderna e cosmopolita che voleva diffondere di sè, suggerendo una prossimità della città ai mitici anni venti e trenta.
Il difficile equilibrio tra controllo e sviluppo culturale internazionale ha permesso a BizArt e ad altre organizzazioni indipendenti o semi-indipendenti come la Shanghart Gallery, Eastlink Gallery e più recentemente Shanghai Gallery of Art, Aura Gallery, DDM Warehouse, Suzhou Creek Warehouse, Dolan Museum, Zendai MoMA, MoCA–Shanghai e ad alcuni curatori indipendenti come Li Xu, Zhao Chuan, Zhang Xian, Gu Zhenqing e Karen Hung (solo per citarne alcuni) di dar vita a un sostanziale dinamismo artistico che dura da circa un decennio.


La situazione politica contemporanea a Shanghai: quale futuro?
“Almeno a qualcuno interessa”
Da una conversazione fra Lothar Spree e Zhu Xiaowen

Più passano gli anni, più il futuro politico della Cina mi appare oscuro. Ciò che penso di poter interpretare è ciò che vedo a Shanghai. Nell’ultimo anno Shanghai è stata travolta da un’ondata di rimpasto in ambito amministrativo: sono cambiati tre sindaci in pochi mesi e il leader del Partito Comunista locale, Chen Liangyu, è stato arrestato per corruzione e uso improprio di fondi pubblici (i fondi pensione). Questo quadro, legato al passato potere di Jiang Zemin e quindi all’antico sistema di potere precedente a Hu Jintao, ha preceduto il piu recente summit del Partito Comunista Centrale. Un effetto notevole che scaturisce da simili situazioni politiche, che vorrei definire “instabili”, è l’impatto molto diretto sulle attività culturali che provocano, spesso bloccandole: quando la mostra Solo Exhibition è stata chiusa, la vera ragione non era il suo contenuto artistico, ma (questa è la mia interpretazione) la stessa collaborazione fra BizArt, Dolan Museum e Zendai MoMA che costituiva appunto un precedente inconsueto e pertanto destabilizzante. La mostra infatti era co-prodotta da BizArt, un’organizzazione indipendente, dal Dolan Museum, che invece è una struttura governativa, e da Zendai MoMA, un museo privato di proprietà di un influente agente immobiliare di Shanghai. Una mostra come questa creava difficoltà strutturali in merito alla domanda di chi dovesse prendere decisioni su come comportarsi. Se in un sistema confuciano altamente gerarchico, come quello cinese, il livello istituzionale più basso (in questo caso l’ufficio governativo che regola gli affari culturali del distretto) non avesse potuto prendere provvedimenti, il problema sarebbe inevitabilmente passato a livelli superiori, diventando esponenzialmente sempre più critico e pericoloso. Ciò avvenne in un clima di estrema tensione nell’estate del 2006, in concomitanza con il rapido susseguirsi dei sindaci e le varie destituzioni di politici corrotti provocando una situazione di immobilità straniante sia politica che culturale.

Una delle ultime attività presentate a Shanghai nell’autunno dello scorso anno si chiamava “eART”, un evento di new media art, che occupava luoghi pubblici, gallerie e musei. Concepito e organizzato da Victoria Lu, curatrice indipendente affiliata a MoCA Shanghai, e patrocinato dal governo, l’evento ha sortito risultati limitati, sia di critica che di pubblico; da un lato per via delle difficoltà organizzative, dall’altro per il timore generale che ne ha come congelato la portata in seguito ad interventi restrittivi su opere di artisti sia locali che internazionali.

In sostanza, nonostante le tensioni generate dal boom economico, l’atmosfera rimane in molti ambienti ottimista e possibilista e, soprattutto, il sistema politico in vigore non è un sistema fragile e fallace: personalmente, nutro un’estrema, perversa ammirazione per la capacità del governo cinese di gestire non solo le politiche interne ma anche quelle internazionali. Può sembrare che l’autorità centrale sostenga e rafforzi l’idea post-moderna di una dittatura economica e globalizzante, la cosiddetta “via socialista” al capitalismo che, fatte le debite differenziazioni ma pur sempre in maniera inquietante, rispecchia ciò che sta succedendo in Cina anche al sistema dell’arte contemporanea. La speculazione sulle opere d’arte cinesi, o meglio su un numero limitato di opere e di artisti che le grandi case d’asta come Sotheby’s e Christie’s (solo per citare le più famose) stanno promuovendo, risponde allo stesso principio: commercializzare l’arte a un punto tale da creare un sistema di produzione artistica più vicino alla cultural industry e all’intrattenimento di lusso che renda l’arte un investimento finanziario più che una realtà fondamentale per lo sviluppo artistico e culturale della Cina stessa.


La Cina e il mercato
“Per diventare artisti commerciali di successo, bisogna saper essere dei buoni imprenditori; e non tutti gli artisti sono in grado di farcela.”
Da una conversazione con Zhang Beili, Amsterdam, dicembre 2007

Nel corso degli ultimi quattro anni il mercato dell’arte internazionale è entrato in Cina in modo repentino, in un contesto strutturale locale ancora largamente inadeguato. Fino a quattro o cinque anni fa quello che gli artisti cinesi creavano era considerato da molti operatori del settore provinciale, déjà vu e non interessante. Appena si intuì invece che le opere cinesi potevano costituire un facile investimento e portare consistenti e rapidi guadagni tutto è diventato possibile: per cui le opere con signature cinese, come quelle di Fang Lijun, Yue Minjun, Zhang Xiaogang, Wang Guangyi (per citare solo alcuni tra coloro che sono diventati facilmente riconoscibili da parte del pubblico occidentale), sono passate da quotazioni di qualche decina di migliaia a milioni di dollari. Il successo degli artisti di “prima generazione” (supportati all’epoca da validi critici d’arte come Li Xianting o Gao Minglu) è stato un fenomeno improvviso, rapidissimo e di proporzioni immense, tanto che questo gruppo è diventato un modello di riferimento imprescindibile per le generazioni successive. L’arte “contemporanea” in Cina, come ha suggerito Zhang Beili in una recente conferenza, è stata sostanzialmente un’invenzione degli anni ottanta; gli artisti di quel periodo erano alla ricerca di novità espressive che fossero in contrasto e/o che rappresentassero una risposta all’idea maoista di arte e, ancor prima, alla millenaria tradizione artistica “classica” cinese. Per questa ragione cominciarono a utilizzare linguaggi “immaginati” o più o meno correttamente traslati dalla storia dell’arte occidentale; il risultato fu il fenomeno chiamato “Cinismo pop” (o “Realismo Cinico”) che si è diffuso in Occidente caratterizzato da una distinzione simbolica legata a immagini immediatamente riconoscibili come “cinesi” dal pubblico internazionale. L’oggetto della critica furono le immagini e le tematiche maoiste. Attraverso linguaggi artistici inizialmente elaborati fuori dalla realtà estetica cinese si è venuto a creare un fraintendimento di intenzioni: l’anima critica all’origine del lavoro si trasformò in un semplice attributo simbolico, leggibile dal pubblico internazionale come “tipico cinese”. La canonizzazione di questi modelli ha avuto luogo progressivamente nel corso degli anni novanta: con la mostra berlinese Chinese Contemporary Art e con le diverse edizioni della Biennale di Venezia a partire dal 1993, fino alla più recente esposizione Majiong organizzata al Kunstmuseum di Berna nel 2006.

Le conseguenze di questo approccio sono sotto gli occhi di tutti: gli artisti “canonizzati” rappresentano, soprattutto all’estero, la Cina contemporanea e sono diventati il modello di riferimento anche per i giovani artisti e per gli studenti. Il messaggio è forte e chiaro: imparare a dipingere e creare lavori per venderli. Questo è il percorso che viene suggerito nelle accademie e nei corsi di design, architettura e moda. Ovviamente la stessa cosa vale nell’ambito delle arti visive: a parte alcuni insegnanti illuminati, la didattica riconosciuta e supportata dalle organizzazioni scolastiche è quella indirizzata e finalizzata al guadagno. Non esiste formalmente un invito a cercare di comprendere, di conoscere, di imparare, per poi creare lavori di un qualche spessore intellettuale; la spinta principale sembra essere quella del guadagno veloce, senza un’idea di investimento nella pratica culturale a lungo termine.

Chi scrive ritiene che guadagnare, di per sé, non costituisca un problema se non va a discapito dell’idea creativa e della crescita coerente della pratica artistica.
Detto ciò, rimangono per fortuna delle realtà che operano in maniera differente, come per esempio l’Accademia di Belle Arti di Hangzhou, il cui New Media Department sta facendo un lavoro molto serio e lungimirante per sviluppare modalità che non siano unicamente commerciali e che permettano agli studenti di investire in attività artistiche complesse e, a volte, persino pubblicamente impegnate.
In sostanza, la risposta a questa realtà diffusa è quasi completamente nelle mani di singole iniziative private disperse sul territorio cinese; si tratta di organizzazioni e di individui che operano in Cina da anni, che hanno investito tempo nella comprensione dello stato delle cose e che cercano di lavorare per migliorare la qualità delle produzioni artistiche, siano esse nel dominio delle arti visive, performative o musicali. Esse costituiscono l’alternativa all’altra tendenza del momento, al curatore, al collezionista, al gallerista o all’istituzione che viene in Cina (solo in Cina?) per fare shopping di idee, opere e artisti da esportare, creando ancora una volta una Cina inventata, magica, indemoniata; o, semplicemente, una proiezione di Cina semplificata e scorretta.

40+4 Arte non è abbastanza, non è abbastanza!
Questa lunga introduzione mi porta al centro di quello che è il progetto presentato presso il Centro di Cultura Contemporanea Strozzina. Dove trovare risposte che ridefiniscano o riposizionino l’arte e il suo senso? Qual è il ruolo dell’arte nell’ambito di una globalizzazione alienante? Come ristabilire un senso di integrità intellettuale nell’approccio all’arte anche nelle sue connotazioni commerciali e di potere? Dove si trova l’artista in tutto questo? Nella commercializzazione estrema dell’arte, che diventa un investimento prima di essere un ideale, c’è ancora posto per un’espressione “rivoluzionaria”? Qual è il senso del proprio lavoro? È possibile avere una visione dell’arte legata a una progettualità a lungo termine e volta alla produzione di idee più che di soli oggetti? È l’arte solo l’ennesimo prodotto di un’epoca e di una società che verrà esposta nei futuri musei come rappresentazione di un preciso momento storico, politico e sociale? Sono io solo a pormi queste domande e a riflettere sulle problematiche ad esse correlate, oppure questo senso di insoddisfazione e straniamento coinvolge anche altri: artisti, curatori, galleristi? E poi, sono questioni relative unicamente all’ambito cinese o più in generale al sistema dell’arte mondiale?

L’inquietudine sollevata da queste domande poteva, nella mia visione ideale delle cose, essere risolta solo attraverso un dialogo con gli attori principali del sistema arte: gli artisti.
È per questo motivo che, all’inizio del 2007, insieme a Lothar Spree, Zhu Xiaowen e Xu Jie, abbiamo deciso, con un approccio quasi sociologico, di avviare una ricerca per tentare di comprendere se questo disagio abbia radici profonde e se sia condiviso dagli artisti di Shanghai. Si parla spesso del “sistema” dell’arte, ma l’elemento fondamentale all’interno di questo sistema è il suo centro, e cioè quello che l’artista crea: la sua arte per l’appunto. E allora con Lothar Spree, Zhu Xiaowen e Xu Jie – quest’ultimo nel ruolo dell’intervistatore professionista – abbiamo cercato di comprendere la relazione fra gli artisti, il loro lavoro e lo sviluppo dell’arte contemporanea a Shanghai nell’ultimo ventennio, intervistando un gruppo selezionato di artisti. Abbiamo scelto i numeri quaranta e quattro: quaranta artisti e quattro persone coinvolte nel progetto, per un totale di quarantaquattro, il numero che, nella lingua cinese, suona come la traduzione di double death, la doppia morte, e riporta a uno scioglilingua cinese molto comune. Tutte le connotazioni che il numero quarantaquattro racchiude ci sono sembrate ironicamente appropriate per definire l’anima del progetto.
I quaranta artisti selezionati provengono da ambiti di formazione differenti: dall’arte tradizionale, alla pittura, sino alla new media art; alcuni sono direttori di musei, altri insegnanti. La scelta è stata soggettiva, ma crediamo di essere riusciti a proporre uno squarcio rappresentativo della scena artistica di Shanghai.
Le domande poste agli artisti sono le medesime, ciascuna stampata su una carta da gioco, una flashcard; sono in tutto ventisette, divise in quattro colori, più un gruppo dedicato a citazioni sull’arte di personaggi storici. L’intervista ha inizio con quattro domande generali e autobiografiche sull’artista (carte grigie) per proseguire poi con domande di tipo più filosofico e psicologico (carte blu), altre di natura politica e sociologica (carte verdi), e concludersi con domande sull’arte come prodotto (carte rosse). La conversazione termina con un’ultima carta da scegliere dal mazzo della dozzina di citazioni (carte verdi chiare) di vari personaggi sul senso dell’arte. L’artista è invitato a commentare a voce alta la carta prescelta e proporre, se lo ritiene necessario, una versione personalizzata della citazione. L’intervista/conversazione dura mediamente da 30 a 45, talvolta 60 minuti.

Grazie a un lungo lavoro di montaggio si è ottenuta una composizione su quattro schermi in sincronia, in cui le immagini si susseguono creando un ritmo ipnotico che ben riflette la visione della realtà contemporanea artistica e culturale nella città di Shanghai: frammentata e in continuo divenire. Gli artisti, narrandosi, propongono – attraverso una conversazione “forzata” – un’analisi della storia dell’arte contemporanea dagli anni ottanta fino ad ora, con riflessioni mirate sulla condizione dell’artista in città, sulle relazioni dell’arte contemporanea cinese con il suo passato e con la storia dell’arte internazionale, sul mercato e sulla situazione della critica dell’arte in Cina. Attraverso una presentazione nello spazio sviluppata su quattro schermi, la narrativa del filmato presenta, oltre che l’artista-individuo, anche un punto di vista corale dei quaranta intervistati: un’immagine della Shanghai artistica senza “io”.

Dal materiale registrato sono state ricavate le due versioni in cinese e in inglese, le cui trascrizioni saranno presto disponibili in Internet. I testi sono stati sottoposti all’attenzione di alcuni critici locali e internazionali, ai quali è stato chiesto di scrivere commenti e testi critici per una pubblicazione che avrà luogo nel corso del 2008 e che fungerà da apparato critico alla versione installativa del progetto.
Un primo commento generale, che si evince dal materiale raccolto è che il “caso Shanghai” non è altro che una rappresentazione di quello che sta avvenendo anche nel resto del mondo: ovvero lo scollamento tra artista, arte e sistema dell’arte. Così Stephen Wright scrive, in modo appropriato e calzante, introducendo il progetto:

“Proprio come il suo skyline, anche il panorama artistico di Shanghai
cambia a una velocità sbalorditiva. Parlare di un ‘mondo dell’arte’ in
questa città non è più adeguato a descrivere una realtà fatta di una
pluralità di sistemi, comunità, momenti e luoghi del fare arte che
spesso si sovrappongono gli uni agli altri. In che modo si trasforma lo
status dell’artista in uno scenario simile? E come hanno affrontato il
mutamento gli artisti stessi, via via che le ‘industrie creative’ hanno
usurpato gli ex territori della produzione artistica? Quali ripercussioni
ha avuto questo mutamento sulla visione che gli artisti hanno di se
stessi e sul loro rapporto con mercanti, critici e curatori? […]
Al centro di questo progetto di ricerca vi è una serie di interviste
filmate, realizzate da Davide Quadrio e Lothar Spree in collaborazione
con Zhu Xiaowen e Xu Jie. In queste interviste una quarantina di artisti
attivi a Shanghai parlano non tanto dell’arte in sé quanto piuttosto di
come l’artista percepisce la propria attività e il proprio ruolo in una
società post-convenzionale in continua trasformazione. Il progetto
tenta di disegnare i contorni dell’immaginazione artistica in questa
città, fornendo una sorta di cartografia dei campi di forza delle sue
soggettività. Al di sopra e al di là di un’analisi degli immaginari artistici
spietatamente critica e talvolta di parte, la ricerca mette a fuoco in
senso euristico i soggetti di uno degli esperimenti urbani più potenti
del mondo contemporaneo: Shanghai.
Gli intervistati provengono da un’ampia gamma di contesti, prassi e
tradizioni diverse; i loro punti di vista riflettono una varietà altrettanto
ampia di valori, sia impliciti che espliciti, e aspettative nei confronti
dell’arte, della produzione artistica, dei commenti critici e del pubblico.
Le loro risposte rivelatrici, sia in quello che danno per scontato sia in
quello che dichiarano, dipingono un paesaggio in cui diversi mondi
dell’arte si sovrappongono tra loro, ciascuno con un proprio sistema di
assunti ed economie di riconoscimento.
[…] Una delle linee di frizione in questa pluralità di mondi dell’arte è
quella che oppone il vernacolare (consuetudini profondamente
radicate nel contesto) al globale (quel mondo dell’arte la cui casa è il
mondo intero). Come superare questa sterile opposizione? Esiste forse
qualcosa di talmente specifico in una cultura – e nelle pratiche
artistiche che ne fanno parte – da risultare impenetrabile a tutti coloro
che non vi sono nati? […] Pur aggirando le trappole dell’universalismo,
c’è forse qualche ragione per enfatizzare il tema della specificità
culturale? Verosimilmente, il mutamento paradigmatico in corso
nell’economia simbolica del mondo dell’arte rispecchia una transizione
analoga, e largamente amplificata, nell’economia in generale. Non
sorprende il fatto che molti artisti appaiano riluttanti ad abbracciare
nuovi modelli e preferiscano piuttosto adeguarsi a idee più praticabili
benché convenzionali. Altri sembrano invece più inclini a rinunciare a
una pratica orientata all’oggetto a favore di esperienze artistiche
basate sulla comunicazione o sulla comunità. […]
In superficie, la scena artistica di Shanghai appare effervescente:
l’economia è in crescita e la domanda continua a superare l’offerta.
Ma tutta questa eccitazione non nasconde forse un segreto scontento
– una frustrazione indiretta, un disorientamento rispetto a regole e
valori correnti?”

Questa lunga citazione sembra suggerire che il “latent discontent” non sia necessariamente peculiare al mondo dell’arte cinese.
Sono stato invitato a partecipare a numerose conferenze e seminari sulla Cina in Europa e in varie parti dell’Asia: esperienze illuminanti, cariche di un certo senso di “displacement”. Nella mia vita professionale, forse in conseguenza di una sorta di sensazione di inadeguatezza derivante in parte dall’idea eurocentrica del mondo, l’immagine che mi sono fatto del sistema arte in Occidente è che trasudi professionalità, libertà d’azione, denaro e potere. Confrontandomi direttamente con le istituzioni europee, mi sono reso conto dell’esistenza di meccanismi che non capisco, o che mi sorprendono; meccanismi che, mutatis mutandis, sono molto simili a quelli che ho descritto attraverso le immagini del percorso degli ultimi dieci anni di sviluppo artistico a Shanghai. Parlando con giornalisti e artisti italiani ho capito per esempio che l’autocensura è frequente e tristemente subita anche in Italia; parlando con amici e studenti mi sono reso conto di una sensazione generale di impotenza, un senso del “non osare” indotto da un immobilismo culturale e da un sistema istituzionale incancrenito. Il meccanismo per cui “tanto anche se cerco di fare, poi non succede; non succede come voglio” è drammaticamente radicato e, come ha ben descritto Stephen Wright, assolutamente straniante.

L’indipendenza e l’uso del sistema
Per concludere, vorrei sottolineare alcuni aspetti della situazione corrente in Cina in relazione alla nuova globabizzazione del sistema dell’arte. Negli ultimi cinque anni l’interesse è aumentato e le opportunità legate all’arte contemporanea in Cina si sono moltiplicate e hanno attirato una serie di personaggi internazionali di origine asiatica o cinese (da Taiwan, Singapore, Hong Kong, Korea o dalla Cina continentale). Questi personaggi – critici, curatori, artisti, collezionisti – hanno portato grande sconvolgimento nell’ambito del sistema Cina, inserendosi tra l’internazionale e le istituzioni locali e creando una percezione nebulosa dei meccanismi culturali cinesi. Questi personaggi intervengono al livello del sistema e sono percepiti dalle istituzioni locali come facenti parte della comunità internazionale cinese. Sono curatori, accademici, galleristi, artisti, consulenti che si inseriscono tra musei, festival artistici, biennali, e danno l’impressione che i livelli di apertura artistica del governo siano un dato di fatto. La serie delle Beijing International New Media Arts Exhibitions (nelle sue tre edizioni del 2004, 2005 e 2006) organizzate dall’Università Tsinghua, o l’“eART Festival” a Shanghai nella sua prima edizione del 2007, per citarne solo due, si inseriscono in questo sistema. In apparenza si tratta di eventi che rispondono adeguatamente all’idea di apertura; ma in pratica, se si analizza il percorso “tecnico” di realizzazione di questi festival, ci si scontra con meccanismi di forte controllo. Il lavoro condotto dalle istituzioni cinesi per sostenere i new media e la creative industry ha infatti generato un’idea della relazione fra arte e tecnologia che sfocia nel concetto di divertissement: tecnologia e arte uniti nella leggerezza dell’intrattenimento. Questi festival presentano opere quasi di design, quasi manga, un contenuto per la maggior parte dei casi “safe” nel senso di non pericoloso, raramente approfondito e solo minimamente critico. I curatori, che in parte sono cinesi, o “sembrano” cinesi (nel senso che sono etnicamente cinesi ma cresciuti all’estero) trasportano, insieme alla propria esperienza, un intero sistema dell’arte internazionale e diventano il tramite di una concezione “up and coming” della Cina dove tutto è possibile, eccitante, nuovo, futuristico. Sono i perfetti intermediari per un governo che vuole fare le cose in grande, meglio se internazionali nei contenuti, che siano belle, semplici, e che portino glamour alla Cina. Ovviamente, questo è contraccambiato dall’irrefrenabile desiderio delle istituzioni internazionali di venire in Cina e di aprire possibili canali con questo nuovo mondo ricco di possibilità culturali. Ma soprattutto economiche.
“La dicotomia fra la Cina e il resto del mondo – mimare il resto del mondo e aggiungere quel tocco di cosiddetta ‘cinesità’. Questo rapporto fluttuante era e ancora è parte del gioco del mostrare l’arte: i contenuti e l’estetica in esposizione trovano massima giustificazione nella propria ‘cinesità’. E cosa questa cosiddetta ‘cinesità’ in effetti sia, era e ancora è un concetto pittosto confuso […] C’è una sorta di indulgenza condiscendente nei confronti delle esposizioni in Cina (e non solo), una specie di giustificazione che forse risponde, dal lato ‘cinese’, a un senso di disagio e inadeguatezza, e dal lato ‘occidentale’ a un mix di paternalismo (che a volte sconfina nell’imperialismo culturale) e ansietà nella difesa del valore e della qualità delle sue implicazioni (siano esse culturali, economiche o politiche) con la Cina”10. Non a caso l’introduzione a KIC, uno dei luoghi scelti per lo “Shanghai eArt Festival” (Urbanized Landscape) nel 2008, recita: “KIC è ispirato da una commistione insolita fra l’innovazione tecnologica e lo spirito imprenditoriale della Silicon Valley e l’intensità culturale della rive gauche”.
Non a caso l’introduzione a KIC, uno dei luoghi scelti per lo “Shanghai eArt Festival” (Urbanized Landscape) nel 2008, recita: “KIC was inspired by a combination of technological innovation and entrepeneurial spirit found in the Silicon Valley in the United States, and the cultural vibrancy of the left bank of Paris”.

Nonostante la visione dall’esterno suggerisca che tutto semplicemente accade secondo standard o convenzioni internazionali, la realtà è molto più complessa. La Cina ha le regole proprie di un sistema rimasto chiuso per decenni, con delle aperture e delle chiusure imperscrutabili, di difficile interpretazione e dure da scalzare o impiegare a vantaggio di creazioni artistiche genuine; ma che, nel caso vengano piegate a beneficio di progetti sostanziali, spero possano creare risultati senza precedenti e incredibilmente liberatori. La Cina come laboratorio di nuove possibilità e futuribili soddisfazioni. La questione che rimane: si è ancora in tempo per una tale evoluzione?

   
   
  inizio pagina