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> Francesca Dal Lago, La Cina è lontana

> Wang Jianwei, Perché si deve parlare di “Cina”, adesso?

> Davide Quadrio, La Cina, ancora!

> Lothar Spree, 40 + 4 Arte non è abbastanza, non è abbastanza!

> Li Zhenhua, Multiarcheologia

> Zhang Wei, Un lancio di dadi

 
  Perché si deve parlare di “Cina”, adesso?
Wang Jianwei
   
  Oggi, la Cina viene raccontata attraverso notizie incredibili, negli anni ottanta veniva descritta attraverso cronache avventurose, poi negli anni novanta attraverso rivelazioni e discussioni interminabili, e ora attraverso una moltitudine di resoconti giornalistici che hanno un approccio quasi da “archeologia” della Cina, e puntano tutti, neanche si fossero messi d'accordo, a quel paese “dormiente” come se si dovesse svelare un paese ancora nascosto da una cortina di ferro.

Non ho intenzione di perdermi in commenti su argomenti “interni” alla Cina, ma sottolineo che queste narrazioni giornalistiche sulla Cina nascondono significati ben più profondi, e questi significati e queste idee, per chissà quale ragione, non sono evidenti e forniscono quindi informazioni specifiche, minimali, che hanno una maggior capacità seduttiva, ma, nello stesso tempo, lasciano in bocca qualcosa di amaro come se ci fosse qualcosa rimasto non detto, ancora da scoprire… Ma ciò che mi interessa è capire perché queste parole “da rivelazione” possono circolare così ampiamente: come mai la “Cina” è un argomento onnicomprensivo? L’argomento “Cina” viene usato così frequentemente, ma non ci sono altre voci se non quelle dei sostenitori e quelle dei detrattori, bianco e nero? Analizzando con attenzione queste argomentazioni, emergono progressivamente analisi specificatamente “circoscritte”, ed esse sembrano rifarsi a due tendenze completamente differenti.

Da un lato si tende a costruire un’immagine del nuovo panorama sociale cinese sulla base dell’evidenza di dati quantitativi. Questi dati vengono disposti in modo tale da mostrare il “progresso”: quindi ecco apparire i dati circa la velocità con cui si producono acciaio e cemento; la lunghezza delle strade costruite e la superficie delle abitazioni edificate; l'acquisto di ogni genere di beni di lusso e quanto costano; tutto questo appare accanto all’incontrollabile e ruffiano potere d'acquisto del mercato (nulla ha più forza di persuasione che l’idea di poter acquistare un'enorme flotta di aerei in una volta sola): quindi le quantità, i prezzi, i volumi relativi a qualsiasi transazione economica sono diventati la prova che conferma la nascita di un “nuovo ordine mondiale”. Come complemento a questi dati, ecco apparire informazioni-immagine in pubblicazioni di intrattenimento e svago, che danno un “volto” ai numeri astratti di cui sopra, facendo sì che questi dati “irreali” diventino realtà visibile. In questo modo la ricchezza e le sue “visibili” declinazioni diventano la via migliore per costruire un senso di fiducia in se stessi (determinazione del sé).
Negli ultimi tempi, questo delirio ha cominciato a estendersi anche all’ambito culturale, e l'arte schiacciata dai valori del mercato viene rimessa in discussione: i nuovi standard sopra descritti e cioè questa idea del miracolo economico in Cina — come in qualsiasi altro campo — hanno raggiunto anche l'arte che è divenuta “oggetto” nella competizione per ottenere la ricchezza.
L’arte è stata “riordinata” e “ricodificata” con i metodi propri del mercato, ed è cosi che si è trasformata in un polo economico da esplorare. In questo nuovo sistema dei valori, è il possedere (mercato) che detta le regole del gioco.

Dall'altro lato, invece, si tende a creare una sorta di “scatola Cina”, che viene definita in maniera differente, come se appartenesse a uno scenario organicamente “altro”: differente. La Cina viene così sigillata all'interno del recipiente “speciale, unico” e quindi peculiare. Questa forzatura fa sì che la Cina venga vissuta come una realtà singolare e astratta dal resto del mondo, e come se fosse un oggetto separato dal resto del mondo: è per questo che si pensa ai valori cinesi come standardizzati e al “modo” cinese come se fosse legato a una peculiare modalità di giudizio culturale.

Queste due tendenze di analisi della Cina usano le stesse materie prime, e comunque hanno prodotto “idee codificate della Cina” che hanno ciascuna una propria veridicità, e in qualche modo hanno creato una particolare immagine della Cina! Questa idea della “straordinarietà” della Cina possiamo accettarla solo se la analizziamo attraverso il sistema morale, e in questo modo non possiamo far altro che riconoscere questa sua “esistenza”. L’“esistenza” è onnicomprensiva, ed è filosoficamente dimostrata attraverso ragioni inconfutabili: l’esistenza controlla la dialettica, la conoscenza e perfino la scienza. Sotto la costrizione dell’“esistenza”, tutto il resto diviene farsesco e risibile, perfino patetico, e allo stesso tempo l’“esistenza” fa sì che tutti i pensieri e le conoscenze abbiano una loro utilità. Rispetto all’esistenza del contenitore Cina abbiamo già perso la possibilità di avere “altre” parole da dire, non abbiamo quesiti scientifici, né alcuna questione sulle strutture della conoscenza o su controversi significati sociologici; mi schiero quindi su entrambi i fronti e, a parte il commento sull’“esistenza”, non ho altro da aggiungere. Adesso, “loro” ci lasciano discutere della questione arte, ma questa discussione spesso si limita agli apprezzamenti o alle polemiche sull'arte in quanto oggetto nelle notizie di mercato, oppure rappresenta semplicemente la materia che riflette un particolare momento politico: in conclusione, basti dire che l’“esistenza” è diventata lo strumento che controlla la logica.
Ma di fronte a questa esistenza, giusta o sbagliata che sia, io spero di mantenere un posizione di giudizio normale: non cedo infatti all’idea di una verità che divenga naturale perché provata dai grandi numeri, ed è per questo che semplicemente non divento sostenitore di uno dei due fronti.

Possiamo dire addio ad ogni tentativo di pensiero dominante! Lo diciamo pure alla “questione Cina”?

   
   
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