|
“Ma questa era la
Cina come se la immaginano gli occidentali:
raffinata, illogica, molto piacevole”.
Eileen Chang, Aloeswood Incense: The First Brazier, 2007
Mi piace giocare con le parole: non sempre (sono un regista, quindi
preferisco le immagini) ma qualche volta, se non spesso. Ciò
che mi interessa è prima di tutto l’immagine, appunto;
descrizioni di situazioni complesse, registrazioni di momenti fugaci,
figure dell’invisibile. Questo significa, in un certo senso,
pensare per immagini: trovare non solo la “verità”
ma persino la “saggezza”, cioè una conoscenza
più profonda. Quando abbiamo cominciato a lavorare su 40+4,
la nostra attenzione era incentrata proprio sul tema parole e/o
immagini.
Nel panorama dell’arte contemporanea a Shanghai – una
scena molto vivace, mutevole e dinamica, a cui l’Occidente
guarda con avida ammirazione – percepivamo una sorta di malessere
di fondo che ci interessava afferrare, scoprire il motivo di quella
sorta di freno all’entusiasmo, di limite nella sperimentazione
e nella spontaneità, un freno nell’espressione, a volte
forse persino un timore, il timore di esprimere la creatività
in modo troppo aperto e sfrenato. Un timore che avevamo visto negli
artisti al momento dell’inaugurazione della loro mostra, e
una lunga ricerca di una forma di espressione sicura che non corresse
il rischio di passare per controversa. Del resto, i vari episodi
di criminalizzazione, l’interruzione di vernissage, la chiusura
di esposizioni, la proibizione di eventi, ecc., sono serviti da
lezione. Non c’era forse un atteggiamento miope nei confronti
dell’arte in generale in Cina, analogo alla maniera controllata
ed eccessivamente consapevole di parlare, o piuttosto, di non parlare?
Parlare della storia sembra sempre difficile; si avverte un’aria
di paziente indulgenza, come se tutti non aspettassero altro che
di concordare su una prospettiva sensata. E poi, che cos’è
la Storia se non un gran numero di vecchie, vecchissime storie?
A chi serve? Di certi eventi del passato che hanno fatto la storia
è meglio non parlare, perciò occorre stare attenti
a quel che si dice. Ci è sembrato che, oltre una certa paura
di giocare con le parole, ci sia anche una limitazione nel giocare
con le immagini. Certi osservatori dall’esterno hanno attribuito
questi segnali a una generale assenza di critica o addirittura di
teoria. Oggi, il settore dell’arte più eloquente riguarda
quello del mercato, benché in questo caso siano i numeri
a parlare.
A dispetto di tutto ciò, a Shanghai c’è un vasto
potenziale di creatività, un’attività artistica
turbolenta, frotte e schiere di attivisti (artisti) visivi i quali,
dichiarandosi artisti, rivendicano il diritto, quasi fosse un dovere,
ad essere liberi, sregolati e indipendenti.
Come potevamo trovare risposte e immagini della vita dell’arte
e degli artisti a Shanghai sotto tali restrizioni, per di più
quando tali restrizioni erano generalmente accettate? Se fossimo
andati a intervistare direttamente gli artisti, c’era il rischio
di ottenere le risposte giuste ma niente di più.
Ho immaginato tutti quei celebri e geniali artisti seduti davanti
a un sipario azzurro acquamarina, perfettamente illuminati, con
un’ombra blu sui capelli, un soffuso chiarore dorato da sinistra
a sottolineare la loro indulgente pensosità e una luce forte
principale da destra a rimarcare la loro personalità autenticamente
dinamica. Ciascuno di essi avrebbe risposto alle domande e parlato
con competenza delle proprie opere come fossero meraviglie naturali
del mondo del mercato azionario.
Dovevamo evitare a tutti i costi l’ennesima intervista piena
di deferenza e soggezione. Volevamo scoprire quale fosse il ruolo
dell’arte e dell’artista nella società della
Shanghai di oggi. Per questo abbiamo elaborato, in un lungo processo
dialettico, una serie di domande semplici, dirette, prive di sentimentalismo
e basate sui fatti, in modo da non prestare il fianco a discorsi
ambigui e ampollosi. Quello che cercavamo erano i fatti della vita,
della vita dell’artista. Una filosofia pragmatica.
Inoltre, volevamo tenere fuori le opere da questa “indagine”
– questo, per forza di cose, era diventato il nostro lavoro:
un progetto di ricerca. Erano necessarie regole definite e metodi
misurabili: strumenti, metodologia, statistiche. Gli strumenti che
abbiamo sviluppato consistevano in un mazzo di carte tipo quelle
da gioco (disegnate da Huang Kui) sulle quali erano riportati certi
gruppi di domande, lette agli intervistati nel tono ufficiale dell’annunciatore
di corte del film di Chen Kaige Jing ke ci qin wang (L’imperatore
e l’assassino, 1999). Questa voce (di Xu Jie) restituiva una
meravigliosa freddezza formale a qualsiasi situazione di chiacchiera
rilassata sul punto di diventare fin troppo confidenziale. Gli altri
strumenti importanti sono le telecamere dv, una, due o tre, che
registrano le risposte dei nostri intervistati. Al fine di evitare
il minimo accenno a un’artificiosa sicurezza o sfrontatezza
nel gioco delle domande e delle risposte, abbiamo evitato di predisporre
un set particolare per gli intervistati. Volevamo protocollare le
risposte. Non si trattava di fare video art, fotografia cinematografica
o design visuale: si trattava semplicemente di un protocollo. In
questo senso abbiamo registrato le risposte, i discorsi, le parole.
A questo punto, il nostro lavoro avrebbe finito per diventare un
gioco di parole e niente di più? Tutto sommato, non mi sarebbe
dispiaciuto. Ma, alla fine, ci siamo accorti che il materiale visivo,
come sempre accade con le immagini in movimento, non è altro
che il risultato di un processo analitico nel corso del quale emergono
i fatti, le relazioni e le connessioni più segrete, inattese
e illuminanti. Il vecchio film, poi il video e oggi il dv sono strumenti
chirurgici di analisi che mettono a nudo i segreti della connettività
sociale e psichica.
Guardare le immagini della nostra ricerca è estremamente
interessante: i visi hanno un’intensità che non deriva
dalla qualità fotografica. Abbiamo deciso di registrare gli
“interrogatori” solo con videocamere portatili, senza
l’ausilio di luce artificiale né allestimenti da studio.
Abbiamo seguito le regole di Dogma 95 senza sottoscrivere i vuoti
funambolismi di Lars von Trier. La nostra registrazione impiegava
un metodo di purezza quasi scientifica e di materialità fattuale,
privo di qualsiasi futile vanagloria.
Il materiale audio e video che ne risulta ha un’impronta di
crudezza e schiettezza. Nessuna atmosfera artefatta, nessuna ambientazione
suggestiva, né quadri o opere d’arte, nessun luogo
invitante o situazione eccentrica. Solo mezzi busti parlanti. Durante
il montaggio (con Zhu Xiao Wen) delle circa novanta ore di materiale
mi sono venuti in mente esempi precedenti di film documentari improntati
a questa metodologia cruda e diretta. Uno dei migliori film del
genere “mezzi busti” è il famoso Point of
order! (1964, di Emile de Antonio, un montaggio delle riprese
televisive delle udienze di McCarthy del 1954) che mostrava per
la prima volta la forza dell’immagine quando dramma e destino
si abbattono sulla testa delle persone. Esempi più recenti,
come Das Himmler Projekt (2000) o The Hamburg Lectures
(2006) di Romuald Karmaker vanno radicalmente nella direzione di
fare affidamento sulla sola parola, sforzandosi di decostruire qualsiasi
informazione visiva dietro l’informazione verbale. Il nostro
esperimento ha conseguito l’opposto: l’aspetto visivo
assume una parte essenziale e rilevante dell’informazione,
presentando molto più di quello che può essere (e,
soprattutto, vuole essere) detto dalle parole. 40+4 è
privo di una fotografia volutamente artistica così come di
qualsiasi allestimento di spazi, luci, suoni o persone; confidando
nel funzionamento del dispositivo mediatico in quanto strumento
analitico.
Eppure, guardando quelle facce adesso, nella loro varietà
ed eterogeneità, si avverte, malgrado il filmato consista
quasi interamente di primi piani, la sensazione di vasti paesaggi.
Paesaggi dello spirito, dell’intelletto e della passione.
La parte visiva, ossia la presenza del loro pensiero, non appare
sullo schermo, ma davanti ad esso. C’è un senso di
suspense trasmesso semplicemente da un testo estremamente scarno
che opera con le parole, combattendo contro la confusione paralizzante
che spesso è il risultato di una fusione acritica e incontestata.
Le domande e le risposte sono semplici, eppure riguardano i fatti
più complessi della vita: la sopravvivenza, il proprio posto
nella società, nella storia, la propria utilità. Giochiamo
con le parole in un modo serio e grintoso; e con le statistiche
in modo non corrotto, intimo e originale. In senso ampio, parliamo
dell’arte, del ruolo dell’arte. Al di là dell’orientamento
esistenziale e dello stato mentale dell’individuo, al di là
di qualsiasi opinione personale. In questo senso, l’installazione
40+4 è uno studio in presa diretta di 40 artisti
di Shanghai ma è anche uno studio dell’arte nella Cina
moderna e del ruolo dell’artista nella storia dell’umanità.
L’installazione presenta la Cina sotto una luce diversa rispetto
a quella a cui siamo abituati in Occidente e da come è percepita
nell’immaginazione e nella memoria occidentali. Mi piace il
modo in cui è diventata una struttura continua di testo che
tuttavia ci coinvolge visivamente, facendoci partecipi di un discorso
intenso sugli atteggiamenti umani. È un gioco di immaginazioni.
A prescindere dal linguaggio e dall’esotismo delle differenze
culturali, ci tocca intimamente, malgrado l’estremo distacco
e la freddezza della sua realizzazione. È un’opera
che gioca su diversi piani: quello della sincronicità nel
senso più profondo della semplice coesistenza di immagini
e suono. Essa mostra un’invisibile rete di realtà e
non, come ha suggerito ironicamente l’epigrafe di Eileen Chang,
l’aspetto “raffinato, illogico e piacevole” della
Cina che vediamo così spesso nell’arte. In questo caso,
si tratta di una realtà molto più scottante. |