Home l Educazione l Informazioni l Contatti l English
   
  Catalogo
Silvana Editoriale
www.silvanaeditoriale.it
   
  > James Bradburne, Il Centro di Contemporanea Strozzina
> Franziska Nori, Cina Cina Cina!!!
   
 

> Joe Martin Hill, Arte e mercato
> Francesca Dal Lago, La Cina è lontana

> Wang Jianwei, Perché si deve parlare di “Cina”, adesso?

> Davide Quadrio, La Cina, ancora!

> Lothar Spree, 40 + 4 Arte non è abbastanza, non è abbastanza!

> Li Zhenhua, Multiarcheologia

> Zhang Wei, Un lancio di dadi

 
  40 + 4 Arte non è abbastanza, non è abbastanza!
Lothar Spree
   
  “Ma questa era la Cina come se la immaginano gli occidentali:
raffinata, illogica, molto piacevole”.

Eileen Chang, Aloeswood Incense: The First Brazier, 2007


Mi piace giocare con le parole: non sempre (sono un regista, quindi preferisco le immagini) ma qualche volta, se non spesso. Ciò che mi interessa è prima di tutto l’immagine, appunto; descrizioni di situazioni complesse, registrazioni di momenti fugaci, figure dell’invisibile. Questo significa, in un certo senso, pensare per immagini: trovare non solo la “verità” ma persino la “saggezza”, cioè una conoscenza più profonda. Quando abbiamo cominciato a lavorare su 40+4, la nostra attenzione era incentrata proprio sul tema parole e/o immagini.

Nel panorama dell’arte contemporanea a Shanghai – una scena molto vivace, mutevole e dinamica, a cui l’Occidente guarda con avida ammirazione – percepivamo una sorta di malessere di fondo che ci interessava afferrare, scoprire il motivo di quella sorta di freno all’entusiasmo, di limite nella sperimentazione e nella spontaneità, un freno nell’espressione, a volte forse persino un timore, il timore di esprimere la creatività in modo troppo aperto e sfrenato. Un timore che avevamo visto negli artisti al momento dell’inaugurazione della loro mostra, e una lunga ricerca di una forma di espressione sicura che non corresse il rischio di passare per controversa. Del resto, i vari episodi di criminalizzazione, l’interruzione di vernissage, la chiusura di esposizioni, la proibizione di eventi, ecc., sono serviti da lezione. Non c’era forse un atteggiamento miope nei confronti dell’arte in generale in Cina, analogo alla maniera controllata ed eccessivamente consapevole di parlare, o piuttosto, di non parlare? Parlare della storia sembra sempre difficile; si avverte un’aria di paziente indulgenza, come se tutti non aspettassero altro che di concordare su una prospettiva sensata. E poi, che cos’è la Storia se non un gran numero di vecchie, vecchissime storie? A chi serve? Di certi eventi del passato che hanno fatto la storia è meglio non parlare, perciò occorre stare attenti a quel che si dice. Ci è sembrato che, oltre una certa paura di giocare con le parole, ci sia anche una limitazione nel giocare con le immagini. Certi osservatori dall’esterno hanno attribuito questi segnali a una generale assenza di critica o addirittura di teoria. Oggi, il settore dell’arte più eloquente riguarda quello del mercato, benché in questo caso siano i numeri a parlare.
A dispetto di tutto ciò, a Shanghai c’è un vasto potenziale di creatività, un’attività artistica turbolenta, frotte e schiere di attivisti (artisti) visivi i quali, dichiarandosi artisti, rivendicano il diritto, quasi fosse un dovere, ad essere liberi, sregolati e indipendenti.
Come potevamo trovare risposte e immagini della vita dell’arte e degli artisti a Shanghai sotto tali restrizioni, per di più quando tali restrizioni erano generalmente accettate? Se fossimo andati a intervistare direttamente gli artisti, c’era il rischio di ottenere le risposte giuste ma niente di più.

Ho immaginato tutti quei celebri e geniali artisti seduti davanti a un sipario azzurro acquamarina, perfettamente illuminati, con un’ombra blu sui capelli, un soffuso chiarore dorato da sinistra a sottolineare la loro indulgente pensosità e una luce forte principale da destra a rimarcare la loro personalità autenticamente dinamica. Ciascuno di essi avrebbe risposto alle domande e parlato con competenza delle proprie opere come fossero meraviglie naturali del mondo del mercato azionario.
Dovevamo evitare a tutti i costi l’ennesima intervista piena di deferenza e soggezione. Volevamo scoprire quale fosse il ruolo dell’arte e dell’artista nella società della Shanghai di oggi. Per questo abbiamo elaborato, in un lungo processo dialettico, una serie di domande semplici, dirette, prive di sentimentalismo e basate sui fatti, in modo da non prestare il fianco a discorsi ambigui e ampollosi. Quello che cercavamo erano i fatti della vita, della vita dell’artista. Una filosofia pragmatica.
Inoltre, volevamo tenere fuori le opere da questa “indagine” – questo, per forza di cose, era diventato il nostro lavoro: un progetto di ricerca. Erano necessarie regole definite e metodi misurabili: strumenti, metodologia, statistiche. Gli strumenti che abbiamo sviluppato consistevano in un mazzo di carte tipo quelle da gioco (disegnate da Huang Kui) sulle quali erano riportati certi gruppi di domande, lette agli intervistati nel tono ufficiale dell’annunciatore di corte del film di Chen Kaige Jing ke ci qin wang (L’imperatore e l’assassino, 1999). Questa voce (di Xu Jie) restituiva una meravigliosa freddezza formale a qualsiasi situazione di chiacchiera rilassata sul punto di diventare fin troppo confidenziale. Gli altri strumenti importanti sono le telecamere dv, una, due o tre, che registrano le risposte dei nostri intervistati. Al fine di evitare il minimo accenno a un’artificiosa sicurezza o sfrontatezza nel gioco delle domande e delle risposte, abbiamo evitato di predisporre un set particolare per gli intervistati. Volevamo protocollare le risposte. Non si trattava di fare video art, fotografia cinematografica o design visuale: si trattava semplicemente di un protocollo. In questo senso abbiamo registrato le risposte, i discorsi, le parole.
A questo punto, il nostro lavoro avrebbe finito per diventare un gioco di parole e niente di più? Tutto sommato, non mi sarebbe dispiaciuto. Ma, alla fine, ci siamo accorti che il materiale visivo, come sempre accade con le immagini in movimento, non è altro che il risultato di un processo analitico nel corso del quale emergono i fatti, le relazioni e le connessioni più segrete, inattese e illuminanti. Il vecchio film, poi il video e oggi il dv sono strumenti chirurgici di analisi che mettono a nudo i segreti della connettività sociale e psichica.

Guardare le immagini della nostra ricerca è estremamente interessante: i visi hanno un’intensità che non deriva dalla qualità fotografica. Abbiamo deciso di registrare gli “interrogatori” solo con videocamere portatili, senza l’ausilio di luce artificiale né allestimenti da studio. Abbiamo seguito le regole di Dogma 95 senza sottoscrivere i vuoti funambolismi di Lars von Trier. La nostra registrazione impiegava un metodo di purezza quasi scientifica e di materialità fattuale, privo di qualsiasi futile vanagloria.
Il materiale audio e video che ne risulta ha un’impronta di crudezza e schiettezza. Nessuna atmosfera artefatta, nessuna ambientazione suggestiva, né quadri o opere d’arte, nessun luogo invitante o situazione eccentrica. Solo mezzi busti parlanti. Durante il montaggio (con Zhu Xiao Wen) delle circa novanta ore di materiale mi sono venuti in mente esempi precedenti di film documentari improntati a questa metodologia cruda e diretta. Uno dei migliori film del genere “mezzi busti” è il famoso Point of order! (1964, di Emile de Antonio, un montaggio delle riprese televisive delle udienze di McCarthy del 1954) che mostrava per la prima volta la forza dell’immagine quando dramma e destino si abbattono sulla testa delle persone. Esempi più recenti, come Das Himmler Projekt (2000) o The Hamburg Lectures (2006) di Romuald Karmaker vanno radicalmente nella direzione di fare affidamento sulla sola parola, sforzandosi di decostruire qualsiasi informazione visiva dietro l’informazione verbale. Il nostro esperimento ha conseguito l’opposto: l’aspetto visivo assume una parte essenziale e rilevante dell’informazione, presentando molto più di quello che può essere (e, soprattutto, vuole essere) detto dalle parole. 40+4 è privo di una fotografia volutamente artistica così come di qualsiasi allestimento di spazi, luci, suoni o persone; confidando nel funzionamento del dispositivo mediatico in quanto strumento analitico.
Eppure, guardando quelle facce adesso, nella loro varietà ed eterogeneità, si avverte, malgrado il filmato consista quasi interamente di primi piani, la sensazione di vasti paesaggi. Paesaggi dello spirito, dell’intelletto e della passione. La parte visiva, ossia la presenza del loro pensiero, non appare sullo schermo, ma davanti ad esso. C’è un senso di suspense trasmesso semplicemente da un testo estremamente scarno che opera con le parole, combattendo contro la confusione paralizzante che spesso è il risultato di una fusione acritica e incontestata. Le domande e le risposte sono semplici, eppure riguardano i fatti più complessi della vita: la sopravvivenza, il proprio posto nella società, nella storia, la propria utilità. Giochiamo con le parole in un modo serio e grintoso; e con le statistiche in modo non corrotto, intimo e originale. In senso ampio, parliamo dell’arte, del ruolo dell’arte. Al di là dell’orientamento esistenziale e dello stato mentale dell’individuo, al di là di qualsiasi opinione personale. In questo senso, l’installazione 40+4 è uno studio in presa diretta di 40 artisti di Shanghai ma è anche uno studio dell’arte nella Cina moderna e del ruolo dell’artista nella storia dell’umanità.

L’installazione presenta la Cina sotto una luce diversa rispetto a quella a cui siamo abituati in Occidente e da come è percepita nell’immaginazione e nella memoria occidentali. Mi piace il modo in cui è diventata una struttura continua di testo che tuttavia ci coinvolge visivamente, facendoci partecipi di un discorso intenso sugli atteggiamenti umani. È un gioco di immaginazioni. A prescindere dal linguaggio e dall’esotismo delle differenze culturali, ci tocca intimamente, malgrado l’estremo distacco e la freddezza della sua realizzazione. È un’opera che gioca su diversi piani: quello della sincronicità nel senso più profondo della semplice coesistenza di immagini e suono. Essa mostra un’invisibile rete di realtà e non, come ha suggerito ironicamente l’epigrafe di Eileen Chang, l’aspetto “raffinato, illogico e piacevole” della Cina che vediamo così spesso nell’arte. In questo caso, si tratta di una realtà molto più scottante.

   
   
  inizio pagina