Bill Viola, Christian Nold, Yves Netzhammer
Teresa Margolles, Valerio Magrelli, William Kentridge
Katharina Grosse, Andrea Ferrara, Elisa Biagini
Maurice Benayoun, Antonella Anedda
 
   
  Pubblicazione
Prefazione di James M. Bradburne
Sistemi Emotivi di Franziska Nori
   
 

"Che cosa sono i sentimenti" Antonio Damasio
"Emozione, razionalità e arte" Ronald de Sousa
"Empatia, movimento ed emozione" David Freedberg
"Le emozioni"
Peter Goldie
"Il cervello emotivo" Joseph LeDoux
"Fatti che possono accadere" Martha Nussbaum
"La teoria degli “emotives”: una sinossi" William M. Reddy

  inizio pagina
  Prendendo a riferimento la tradizionale antitesi filosofica, di origine platonica, tra passione e razionalità, emozione e ragione, Ronald de Sousa arriva a dimostrare in modo deduttivo come, invece, il ruolo delle emozioni non sia irrazionale ma propriamente assimilabile a una “percezione” soggettiva nell’ambito della razionalità umana e come le emozioni siano, appunto “dipendenti dal pensiero”. In questo senso, rimanendo su posizioni prettamente filosofiche e su metodi speculativi e non scientifici, l’analisi di de Sousa giunge a conclusioni di tipo psicologico evolutivo e a una riflessione sul rapporto tra emozioni e arte, che sostanzialmente è quello indicato da Aristotele come l’atteggiamento estetico e puramente contemplativo di fronte al “divino”.
   
  Emozione, razionalità e arte
Ronald de Sousa
   
 

Secondo una tradizione consolidata, le emozioni sono considerate una minaccia per la razionalità. Da Platone in poi, i filosofi di tutte le epoche ci hanno esortato a vincere le passioni con la razionalità. Ancora oggi usiamo l’espressione “passione accecante” e, secondo il sentire comune, prendere con filosofia le difficoltà della vita significa rimanere sufficientemente freddi e distaccati. Ira brevis furor, dicevano i latini, e in alcune giurisdizioni il “delitto passionale” è considerato l’effetto di una momentanea infermità mentale. Inoltre, consideriamo molte delle nostre emozioni come qualcosa che ci accomuna agli altri mammiferi. Così, il fatto stesso che le emozioni appartengano a quel “lato” o a quella “parte” di noi che è meno umana di altre, sembra avvalorare ai nostri occhi l’opinione secondo la quale esse non sono razionali.

E tuttavia, quando Aristotele sostiene che l’uomo è un animale razionale, non intende in alcun modo escludere le emozioni dalla natura umana. Questo perché il suo concetto di “razionalità” comprende l’irrazionale; il contrario di razionale è piuttosto arazionale, la condizione dei sassi, degli insetti o delle macchine. L’animale razionale è capace di irrazionalità. Così, proprio in virtù della loro ben nota tendenza a renderci irrazionali, le emozioni contribuiscono in maniera essenziale alla nostra razionalità, almeno nel senso aristotelico del termine.

Ma il ruolo delle emozioni nella razionalità umana va al di là di questo. Tanto per cominciare esse sono tipicamente dipendenti dal pensiero: molte emozioni, come desideri o credenze, trovano il proprio oggetto nello stato delle cose, nella situazione. Per cui, qualsiasi relazione logica o criterio deduttivo limiti il pensiero, dovrebbe in teoria anche bloccare l’emozione. Questa perciò è, almeno in senso derivativo, riconducibile al giudizio razionale. Esistono tuttavia due punti di collegamento più diretti.

Anzitutto, alcune emozioni sono da noi fiduciosam ente considerate più o meno ragionevoli. Talvolta, il giudicare ragionevole o meno un’emozione sembra voler dire soltanto qualcosa come “anch’io mi sentirei così in circostanze simili”; altre volte il giudizio riflette modelli più ampi e tuttavia ugualmente convenzionali e inarticolati, come “è normale” o “adeguato” sentirsi così. Ma esiste un principio oggettivo di “adeguatezza” in base al quale poter valutare le emozioni stesse? Il primo a sollevare la questione è stato Platone, che si chiedeva: amiamo una cosa perché è oggettivamente degna d’amore o la definiamo degna d’amore per il fatto che la amiamo? In assenza di emozioni, se nulla suscitasse davvero il nostro interesse, esisterebbe ancora qualcosa per cui provare interesse? In parole povere, si tratta della questione relativa all’oggettività dei valori. Ma oggettività e soggettività hanno molteplici significati. Proiettare proprietà illusorie sul mondo esterno è un tipo di soggettività. Un altro tipo di soggettività è la relatività della prospettiva che risponde a punti di vista diversi. E la differenza tra prospettive diverse non è mera illusione. A questo riguardo, l’emozione è paragonabile alla percezione che, per mezzo dell’esperienza “soggettiva” ci dà informazioni sullo stato “oggettivo” del mondo, che riusciamo a mettere a fuoco attuando un controllo incrociato tra modalità sensoriali e tramite deduzioni razionali. Come le emozioni, in certi casi anche le percezioni possono essere fuorvianti. E tuttavia, come perderemmo il contatto col mondo in cui viviamo se liquidassimo come illusoria qualsiasi percezione, il ricco e vario panorama dei valori si appiattirebbe in una indifferenza universale se, alla ricerca di valori intelligibili, dovessimo smettere totalmente di prestar fede alle nostre reazioni emotive. Due aspetti cruciali dell’emozione, in particolare, rivendicano con forza una qualità oggettiva: la loro natura di esperienza e la loro influenza sull’organismo che si prepara a compiere un’azione efficiente per rispondere alle sfide dell’esistenza. Ovviamente qualsiasi esperienza è “soggettiva” per definizione, mentre che io abbia questa o quella esperienza è un dato oggettivo. In questo semplice fatto è insito il germe di una soluzione pacifica rispetto al problema della comprensione delle relazioni tra azione corretta, razionalità e oggetti-vità in senso generale. Che il nostro interesse sia rivolto al pensiero o all’azione, il nostro modo di distinguere il successo dal fallimento si basa su un’idea di azione corretta. Fare la cosa giusta produce il risultato corretto; operare le giuste deduzioni salvaguarda la verità. Finché il criterio che stabilisce la correttezza del risultato può essere affermato indipendentemente dal tentativo, abbiamo una presunzione di oggettività nel successo o nel fallimento. La razionalità è collegata al successo, ma non è identica a esso: i pensieri o le azioni razionali sono quelle che più probabilmente avranno successo. Da questo punto di vista, allora, le emozioni sono doppiamente importanti per la razionalità: come arbitri del successo e come guide per ottenerlo. Per dirla in modo forse un po’ semplicistico, potremmo affermare che le emozioni prima stabiliscono l’agenda della nostra vita e poi mettono a punto il nostro organismo facendo in modo che l’attenzione si focalizzi nei modi più pro- babili per realizzarla. In questo secondo ruolo, la loro importanza e i criteri adeguati di successo di cui sono portatrici si collegano alle loro funzioni strumentali. Nel primo ruolo, tuttavia, esse determinano il significato stesso della nostra vita.

Sfortunatamente però ciò non significa che le emozioni vadano interpretate secondo il valore apparente della loro manifestazione: molto spesso ci predispongono ad agire con modalità che sembrano fatte apposta per vanificare quegli obiettivi che loro stesse avevano creato. Quando ad esempio, nell’ansia di veder ricambiato il mio amore, faccio accuse avventate manifestando paura e gelosia, il mio comportamento possessivo non fa altro che allontanare l’individuo che volevo attirare a me. Inoltre, l’oggetto stesso del mio amore può essere inappropriato perché del tutto privo di quelle qualità che, riflettendo spassionatamente sulla questione, mi sembrano indispensabili in un amante o nel compagno della mia vita. Da un punto di vista evolutivo questo può sembrare un paradosso: la selezione naturale non ha forse assicurato l’estinzione delle tendenze ad azioni controproducenti?

Gli psicologi evolutivi propongono di risolvere l’apparente paradosso mettendo in rilievo due fatti ovvi. Anzitutto un pattern standardizzato di risposta relativamente rapida potrebbe all’occasione, rivelarsi dannoso benché abbia dei vantaggi a lungo termine. In secondo luogo, ciò che era sufficientemente vantaggioso in passato, cioè durante un periodo sufficientemente lungo in cui certe disposizioni sono state selezionate, potrebbe essere controproducente in un contesto molto diverso come quello in cui viviamo oggi, a distanza di centinaia di migliaia di anni.

C’è anche un’altra ragione che spiega, da un lato, l’importanza delle emozioni nella nostra vita e dall’altro la loro incerta affidabilità come guida. Essa è collegata alla loro formazione durante la prima infanzia. Parafrasando il titolo di un libro che ha avuto grande successo negli anni ottanta, possiamo dire che nella sfera emotiva “tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere lo impariamo prima dell’asilo d’infanzia”. I complessi modelli di risposta ed esperienza che definiamo emozioni non sono istinti, e neppure configurazioni fisse, stabilite prima della nostra nascita nel corso della selezione naturale. Al contrario, essi vengono appresi e si formano sulla base di scene vissute nella prima infanzia, in cui le nostre naturali disposizioni, combinate con le aspettative sociali di coloro che ci stanno intorno, producono determinate storie modello, caratteristiche sequenze di sentimenti, motivazioni, interpretazioni e desideri che alla fine costituiscono l’emozione cui diamo un determinato nome. Questi primi episodi formativi sono da me definiti “scenari paradigmatici”. La funzione fondamentale degli scenari paradigmatici nel plasmare il repertorio emozionale solleva una serie di questioni complesse per chiunque tenti di radicare la nostra cognizione dei valori nelle risposte emozionali. Dato che gli scenari paradigmatici si formano sulla base di capacità universali e situazioni interpersonali ampiamente diffuse, è assai probabile che il repertorio emozionale di un individuo abbia molto in comune con quello di un altro. Al tempo stesso, nella misura in cui la biografia di ogni individuo è unica, uniche saranno anche la gamma e il repertorio delle sue emozioni. Piccole differenze negli scenari paradigmatici che due esseri umani associano al nome di una determinata emozione, offro- no il potenziale per equivoci sistematici. Esse rimangono nascoste, come scogli invisibili in acque tranquille, minacciando di causare inaspettati scompigli sotto la superficie apparentemente liscia e uniforme delle convenzioni sociali e della natura umana.

Se questo complica la questione dell’oggettività dei valori, la contrapposizione tra individualità e natura umana spiega l’importanza delle emozioni per l’arte e quella dell’arte per le emozioni.

Come nessun essere umano vive senza emozioni, così non può vivere senza l’arte. La maggior parte di noi pensa che gli animali possano provare alcune emozioni simili alle nostre. Queste emozioni agevolano e organizzano risposte comportamentali alle varie situazioni. Molte emozioni umane hanno la funzione di guidare l’attenzione e preparare l’organismo all’azione in contesti pratici. Nella misura in cui siamo capaci di scindere la nostra esperienza dalle preoccupazioni pratiche, tuttavia, possiamo prestare attenzione a sfumature qualitative, il valore delle quali non può essere ridotto alla mera dicotomia bene/male. Non appena ci distacchiamo a sufficienza dalla sfera puramente pratica dell’esistenza, scopriamo di poter prestare attenzione alla qualità dell’esperienza senza essere costretti a scegliere tra modalità diverse di comportamento. Come Kant e altri filosofi hanno notato, talvolta siamo capaci di sospendere in tutto o in parte il vissuto della nostra esperienza emozionale. Nelle speciali condizioni che costituiscono il contesto estetico, siamo in grado di adottare un punto di vista estetico, concentrando la nostra attenzione non sull’utilità pratica delle emozioni, ma sulla loro qualità intrinseca. O, per dirla in modo diverso, le emozioni acquisiscono una nuova utilità pratica, derivativa, nel nostro modo di reagire all’arte o nell’impulso a praticarla. Ciò consiste nel coltivare le emozioni per il loro valore qualitativo, ampliando la nostra concezione della portata dell’esperienza umana.

È evidente che il termine “esperienza” si riferisce in primo luogo all’esperienza cosciente; ma è pur vero che la coscienza ha le sue “frange” e radici inarticolate. Questi aspetti dell’esperienza non possono essere definiti o descritti chiaramente, e tuttavia essi aggiungono “colore” alle esperienze che siamo preparati a classificare. Le emozioni sono la materia dell’arte, la quale a sua volta modifica ed espande la nostra capacità di esperienza emozionale in modi praticamente illimitati. Nell’atteggiamento estetico arriviamo molto vicini a quello che Aristotele definiva il “divino”, ossia la contemplazione pura emancipata dal bisogno pratico. Questo mette in luce come l’arte condivida una caratteristica importante con la religione. Sotto due aspetti fondamentali però il coinvolgimento emozionale insito nella contemplazione artistica è moralmente superiore a quello offerto dalle religioni tradizionali, soprattutto di tipo monoteistico.

Anzitutto l’appagamento emozionale offerto dall’arte deriva dalla contemplazione di illusioni immaginative riconosciute come tali; la religione, invece, impegna il credente alla fede nella verità dell’illusione. (Nessun amante dell’arte ucciderebbe qualcuno perché non prende la finzione artistica per verità rivelata.) A mio avviso, questa superiorità dell’arte rispetto alla religione deriva in parte dall’assenza, in arte, della fallace aspettativa del premio o del castigo.

Come la scienza pura, l’arte (da non confondere col mercato dell’arte!) non è un mezzo, ma un fine. In secondo luogo la contemplazione artistica ammette e sottoscrive la possibilità che i valori autentici siano incompatibili, e tuttavia ugualmente validi. Il dio del monoteismo deve rifiutare quest’idea, giacché la religione pretende un’adesione alla falsa etica secondo la quale tutti i valori sono compatibili. Solo nel mondo in bianco e nero dell’opzione pratica il valore viene misurato unicamente nei termini di meglio o peggio. Quando i valori percepiti o creati dall’emozione si manifestano in tutta la loro varietà cromatica, invece, acquisiamo coscienza del fatto, assai importante dal punto di vista etico, che non tutti i valori sono realizzabili simultaneamente. Comprendere la struttura della vita emozionale, così come si rivela nell’arte, ci fa capire come la tragedia, ovvero l’impossibilità di realizzare un valore senza sacrificarne un altro, sia al centro della vita umana.

   
 

Il filosofo canadese Ronald de Sousa, autore del libro The Rationality of Emotions, Cambridge, Mass., MIT Press 1990, ha messo a disposizione per questo catalogo un nuovo contributo sull’argomento, che pubblichiamo nella sua versione originale e nella traduzione di Barbara Venturi per Scriptum, Roma.

   
  inizio pagina