Bill Viola, Christian Nold, Yves Netzhammer
Teresa Margolles, Valerio Magrelli, William Kentridge
Katharina Grosse, Andrea Ferrara, Elisa Biagini
Maurice Benayoun, Antonella Anedda
 
   
  Pubblicazione
Prefazione di James M. Bradburne
Sistemi Emotivi di Franziska Nori
   
 

"Che cosa sono i sentimenti" Antonio Damasio
"Emozione, razionalità e arte" Ronald de Sousa
"Empatia, movimento ed emozione" David Freedberg
"Le emozioni"
Peter Goldie
"Il cervello emotivo" Joseph LeDoux
"Fatti che possono accadere" Martha Nussbaum
"La teoria degli “emotives”: una sinossi" William M. Reddy

  inizio pagina
  Tracciando un percorso filosofico e culturale, arricchito da esempi basati sulla letteratura, ma anche sull’esperienza umana quotidiana, il filosofo Peter Goldie considera il ruolo della cultura, della conoscenza e dell’evoluzione all’interno dello sviluppo delle esperienze emotive e della consapevolezza dei sentimenti. Egli afferma che, solo partendo da un punto di osservazione e di esperienza personale, i pensieri, le capacità, i sentimenti e le azioni si manifestano e acquistano valore. La sua interessante dissertazione rafforza l’idea della centralità dei sentimenti e degli stati d’animo (emozione indeterminata) nell’esperienza emozionale più complessa (emozione determinata), dichiarando che “la storia, come l’esperienza emotiva, è permeata della nostra interpretazione di noi stessi come parte del processo, che influenziamo e da cui siamo influenzati”.
   
  Le emozioni
Peter Goldie
   
 

[…] Provare un’emozione per qualcosa di esterno (l’oggetto dell’emozione) significa riconoscere caratteristiche, proprietà particolari o un certo modo di essere nella cosa che suscita il nostro sentimento. L’intenzionalità di relazione col mondo, tipica dell’emozione orientata all’esterno, differenzia quest’ultima dalla sensazione fisica che è priva della necessaria intenzionalità “diretta” (opposta a quella derivata). A nessun livello la sensazione fisica può da sé rivelare il contenuto dell’emozione; l’associazione di idee procede dall’emozione per qualcosa alla sensazione fisica, perciò, se non sai verso che cosa sono orientati i tuoi pensieri e sentimenti, non potrai comunque scoprirlo solo con l’introspezione e l’analisi delle tue sensazioni corporee. Né, d’altra parte, il sentimento verso qualcosa può essere rivolto verso la propria condizione psicologica o fisica: questo tipo di sentimento è certo possibile (puoi sentirti disgustato dal tuo stesso costante desiderio di cioccolata o frustrato a causa dell’artrite che ti irrigidisce le dita), ma il caso più diretto e consueto è il sentimento indirizzato all’esterno.
Provare un sentimento per qualcosa è pensare a qualcosa con sentimento e questo pensiero è soggetto alla volontà nel senso che talvolta è possibile, usando l’immaginazione, provare a pensare a qualcosa immaginando che sia in un certo modo (ad esempio, provare a pensare a una nuvola come a un oggetto a forma di cammello). E talvolta è possibile smettere di pensare a qualcosa in un certo modo e tentare di immaginarla in un altro (che la stessa nuvola somigli a una donnola). In certi casi però il pensiero è qualcosa di ingovernabile, che ti cattura, e quando questo accade non riesci a liberartene per quanti sforzi tu faccia. Tra queste tre possibi- lità esistono molteplici gradazioni e sfumature. Perciò, affermare che il pensare a qualcosa è soggetto alla volontà è affermare che può essere direttamente soggetto alla volontà, non che lo sia necessariamente. Quando si prova un sentimento per qualcosa, l’immaginazione tende ad essere molto più ingovernabile rispetto ai casi in cui si pensa a qualcosa; in altre parole, l’immaginazione tende a diventare meno soggetta alla volontà, tende attivamente a “prendere il sopravvento” su di noi. E ciò è in parte dovuto al fatto che le emozioni sono passioni che ci fanno perdere il controllo totale su pensieri e sentimenti. Quando abbiamo paura, la nostra mente sembra trovare – e tornare su – particolari altrimenti inoffensivi che vengono trasformati in segnali di pericolo. Jean-Paul Sartre (1962) paragona questo fenomeno al cercare di individuare una forma nascosta – la forma di una pistola, ad esempio – in una data immagine: in questo caso i meccanismi della percezione sono impiegati come se stessimo guardando una pistola; la coscienza così, “cerca di trasformare se stessa per trasformare l’oggetto”. Sartre mette in rilievo come questa coscienza non sia riflessiva, e sia invece una “coscienza del mondo irriflessiva”; “il nostro tentativo non è cosciente di ciò che è, altrimenti sarebbe oggetto di una riflessione”. Per usare l’efficace espressione del filosofo, “l’emozione torna all’oggetto in ogni momento e si nutre di esso”. Quando un bambino ascolta la favola di Cappuccetto Rosso, la storia cattura la sua fantasia, che comincia a nutrirsene: uno dopo l’altro, i tratti della nonna – denti, naso, occhi e via dicendo – a prima vista inoffensivi, diventano spaventosi.
A questo punto, potremmo ritenere che attribuendo a un oggetto determinate – o determinabili – caratteristi che tipiche di un’emozione, giungiamo a sviluppare sentimenti emozionali anch’essi tipici di quell’emozione. Ma non è così: pensare a qualcosa e coglierne la salienza è diverso dal provare sentimenti verso quella cosa. Se non c’è dubbio che, nel cogliere certe salienze faremo probabilmente un’esperienza emozionale, o quantomeno tenderemo a essa, non è tuttavia affatto detto che essa si verifichi. È possibile ad esempio cogliere la salienza emozionalmente rilevante di una cosa e tuttavia, a causa di un momento di depressione o inerzia, questa non abbia alcuna importanza o effetto su di noi sul piano emotivo: oggi sono in grado di vedere il pericolo, eppure non ne sono spaventato come ieri; oggi mi rendo conto che una cosa è degna d’amore, eppure non l’amo più come un tempo. Ovviamente, la differenza sta in parte nella natura qualitativa dell’esperienza, nella mancanza del sentimento; ma sta anche nella particolare modalità di cogliere la salienza dell’oggetto dell’esperienza emotiva.
Michael Stocker ha proposto un esempio illuminante: prima di scivolare sul ghiaccio mi rendo conto del pericolo, ma solo a livello intellettuale… Se prima vedevo il pericolo, dopo essere caduto lo sento anche (1983). Per dirla in altro modo, se prima pensavo al ghiaccio come qualcosa di pericoloso, ora ne provo paura. Questo non esclude che penso ancora al ghiaccio come a qualcosa di pericoloso, è il mio modo di pensare alla sua pericolosità che è cambiato. Ora penso alla pericolosità come a qualcosa di emozionalmente rilevante. Questo nuovo modo di pensare l’oggetto non consiste però semplicemente nell’aggiungere alla vecchia modalità del pensiero alcuni ingredienti fenomenici, come il sentimento. Si tratta invece di un’esperienza – o di una coscienza – del mondo completamente nuova (cfr. Budd 1995, che tratta l’argomento in un altro contesto). La differenza tra il pensare a X come Y senza e con la carica emozionale non implica semplicemente una diversa attitudine nei confronti dello stesso contenuto (un pensiero inizialmente privo di sentimento e poi carico di sentimento). La differenza sta anche nel contenuto, benché a volte sia impossibile esprimere a parole tale differenza. Pensiamo ad esempio all’analogia […] della persona affetta da daltonismo che riesce tuttavia a individuare gli oggetti rossi perché ha accanto a sé un compagno che gli indica sempre e solo cose di quel colore. Questa persona può formulare il pensiero dimostrativo “quella palla è rossa”, ma il contenuto di questo pensiero sarà diverso da quello, che pure esprime l’identico concetto, formulato da qualcuno che in quel momento fa uso della sua abituale capacità di distinguere i colori. Il fatto che entrambi i pensieri si esprimano con le medesime parole, non significa che essi abbiano lo stesso contenuto; in questo caso il linguaggio è inadeguato all’espressione della differenza. Cerchiamo ora di sviluppare questo punto tramite l’analogia con altri tipi di pensiero, in particolare i dimostrativi e gli indicali.
In uno degli esempi di John Perry (1979), “un professore che vuole arrivare puntuale alla riunione del suo dipartimento e pensa, a ragione, che la riunione cominci a mezzogiorno, a quell’ora non si muove dal suo studio. Poi si alza improvvisamente. Che cosa può spiegare questa azione? Un cambiamento di convinzione. Il professore credeva, fin dall’inizio, che la riunione cominciasse a mezzogiorno; poi è giunto alla convinzione che, come avrebbe detto lui stesso, la riunione cominciasse ora”. Perry sottolinea il fatto che, se ammettiamo che il professore dica “penso che l’incontro cominci a mezzogiorno” come spiegazione della sua azione di alzarsi e incamminarsi per il corridoio, assumeremmo che egli pensa che mezzogiorno è ora. Il pensiero, a mezzogiorno, che la riunione cominci a mezzogiorno, e il pensiero, sempre a mezzogiorno, che la riunione cominci ora, differiscono nel contenuto, benché possiedano le stesse condizioni di verità, perché è possibile avere una certa attitudine nei confronti di un pensiero piuttosto che di un altro. Per sviluppare ulteriormente l’esempio di Perry, il professore potrebbe ritenere che la riunione cominci a mezzogiorno, e credere che mezzogiorno sia ora, e tuttavia non credere che la riunione cominci ora. Per valutare giustamente tutto ciò, immaginiamo che il professore (piuttosto distratto) sia ancora seduto alla sua scrivania, impegnato nella relazione che deve completare per la conferenza del pomeriggio. La persona con cui divide la stanza gli chiede l’ora; il professore lancia uno sguardo al suo (attendibile) orologio e risponde: “Mezzogiorno”. Giunge così alla conclusione che è mezzogiorno, eppure questo non basta a suscitare un’azione da parte sua: per qualche istante rimane al proprio posto, finché all’improvviso mette insieme i due pensieri, per così dire, ed esclama: “Mio Dio, è mezzogiorno! La riunione comincia ora!”, e si affretta a uscire.
Allo stesso modo, immaginiamo di essere al giardino zoologico e di osservare un gorilla dall’aspetto truce che percorre a grandi passi la sua gabbia, da sinistra a destra. Pensiamo al gorilla come a un animale pericoloso, ma vedendolo rinchiuso dietro le sbarre non proviamo paura. Poi vediamo che la porta della gabbia è stata lasciata aperta. Per un istante, non riusciamo a mettere insieme i due pensieri: il gorilla è pericoloso, la gabbia è aperta. Poi, all’improvviso, lo facciamo: ora il nostro modo di pensare al gorilla come a un essere pericoloso è nuovo, la sua pericolosità è dotata di una nuova valenza emotiva. Il pensiero iniziale, “il gorilla è pericoloso”, ha un contenuto diverso rispetto al nuovo pensiero, connotato emotivamente, malgrado il fatto che quest’ultimo possa trovare espressione nelle stesse identiche parole. Ora, nella paura nei confronti del gorilla c’è anche l’impegno emozionale del nostro essere nel mondo e ciò ci indurrà ad agire in un altro modo, su impulso dell’emozione.
[…] Quando descrivo i miei sentimenti non sono obbligato a parlare delle modalità della mia esperienza. Sviluppando ulteriormente tale osservazione, si può aggiungere che non c’è alcuna necessità di fornire una caratterizzazione sostanziale della differenza di contenuto tra il pensiero connotato emotivamente e non. È addirittura possibile che il linguaggio non sia in grado di catturare questa diversità. Ad esempio, vi è indubbiamente una differenza nel modo in cui le cose appaiono quando soffri di depressione o inerzia e quindi il tuo coinvolgimento emozionale col mondo non è totale ma questa differenza, a mio parere, non è descrivibile a parole: frasi come “tutto sembra piatto, senza vita, svuotato di valore” sono inadeguate al compito. La dote meravigliosa dei grandi romanzieri è proprio quella di saper catturare e rendere in parole l’esperienza emozionale. […]

Mi auguro che queste riflessioni non si limitino soltanto a mettere in discussione l’idea che l’intenzionalità delle emozioni possa essere pienamente resa in termini di attitudini prive di sentimento, ma, in modo più positivo, spero che contribuiscano a rafforzare l’idea della centra- lità dei sentimenti nell’esperienza emozionale. L’esistenza di sentimenti fisici, come li ho chiamati sopra, è relativamente fuori discussione, benché molti possano non concordare con ciò che ho affermato in proposito e con la nozione di intenzionalità derivata. Riguardo a quelli che ho definito sentimenti orientati verso l’esterno, mi auguro di aver dimostrato in modo sufficientemente chiaro come tale nozione rispetti l’essenziale combinazione emozioni/intenzionalità. Oltre a ciò, ammettere che esistano emozioni orientate a un oggetto esterno rende possibile la spiegazione di altri aspetti importanti dell’esperienza emotiva: il fatto che le emozioni sono passive e non interamente sotto il nostro controllo; la possibilità dell’impenetrabilità cognitiva e quella della debolezza emotiva o akrasia. […]

Benché emozioni e stati d’animo possano essere distinti in base al grado di specificità dei loro oggetti, tale distinzione non è sempre netta per due motivi. Prima di tutto perché non è necessario che le emozioni siano dirette verso oggetti pienamente specifici, nel senso di oggetti che possono essere individuati in modo dimostrativo o precisamente descritti dalla persona che sperimenta l’emozione. La nostra paura quando ci svegliamo nel mezzo della notte è un’emozione autentica, anche se possiamo non essere capaci di spiegare se a farci paura sono le strane sagome create dalle ombre sulla parete o il rumore che ci ha svegliati o il buio. In secondo luogo, vi sarà sempre un qualche grado di specificità nell’oggetto dello stato d’animo, anche se riusciamo a descriverlo solo in termini di “tutto” o “nulla in particolare”. Uno stato d’animo implica dei sentimenti verso un oggetto tanto quanto un’emozione, anche se, come ho già detto, l’oggetto del sentimento è meno specifico nel caso dello stato d’animo. Vediamo ora di elaborare queste osservazioni. Nel delineare una distinzione tra emozione e stato d’animo – tra rabbia e irritabilità o tra paura e apprensione, ad esempio – occorre sempre tener presente il fatto che generalmente, emozioni e stati d’animo hanno anche molto in comune. In effetti, risulta che emozioni e stati d’animo caratteristici possono benissimo essere interpretati come differenti varietà di una medesima emozione.

Le emozioni e il posto che occupano nella nostra vita sono il filo conduttore del romanzo di Robert Musil L’uomo senza qualità. Il protagonista di quest’opera visionaria, ambientata a Vienna nel periodo immediatamente antecedente alla Prima guerra mondiale, è Ulrich, l’uomo senza qualità, appunto. Il romanzo è incompiuto, ma sono attualmente in corso di traduzione alcuni scritti postumi dell’autore, comprese le prime stesure di alcuni capitoli in cui Musil ha rielaborato materiali presi dai primi capitoli del romanzo. Essi contengono tra l’altro un’estesa dissertazione filosofica sulla natura delle emozioni, sia in forma di brani estratti dal diario di Ulrich, sia in forma di considerazioni che lo stesso Ulrich fa raccogliendo le idee prima di scrivere il diario. È chiaro che non siamo in grado di determinare la misura in cui le opinioni espresse da Ulrich rispecchiano le convinzioni dell’autore, ma questo non è importante ai nostri fini. […] Vorrei qui enucleare solo due idee in particolare, utili per la nostra discussione: l’idea dello sviluppo e del consolidamento tra azione e emozione; e l’idea, già menzionata, che emozione e stato d’animo differiscono in quanto rispettivamente emozione determinata e indeterminata. Un’emozione è uno stato relativamente complesso e coinvolge episodi del passato e del presente che riguardano il pensiero, i sentimenti e le trasformazioni fisiche, correlati in modo dinamico a formare la mappa narrativa di parte della vita di una persona, insieme con la disposizione a sperimentare nuovi episodi emozionali, ad agire sull’impulso dell’emozione e ad esprimere quell’emozione. L’espressione dell’emozione e le azioni che ne derivano, benché non siano parte dell’emozione stessa, sono pur sempre parte della mappa narrativa che corre attraverso – e oltre – l’emozione, in un rapporto di reciproco rafforzamento e risonanza con quell’emozione e con tutte le altre, come pure con gli stati d’animo, i tratti distintivi, le azioni ulteriori.
Perciò non dovremmo vedere un’emozione come una disposizione fissa, né pensare alle azioni compiute sull’impulso emotivo come a qualcosa che non ha alcun effetto di feedback sull’emozione stessa. In questo senso, l’esperienza emozionale somiglia al dipanarsi degli avvenimenti storici più che a una sequenza di eventi naturali come la creazione di uno specchio d’acqua stagnante, perché la storia, come l’esperienza emotiva, è permeata della nostra interpretazione di noi stessi come parte del processo, che influenziamo e da cui siamo influenzati (vedi Collingwood 1946). Come suggerisce Musil, forse l’esistenza stessa di un’emozione assolutamente compiuta è impossibile “perché sarebbe così perfettamente circoscritta da non poter più accogliere influenze di sorta”. Continua Musil: “Ma, così ora ci si dice… non c’è nemmeno mai un sentimento perfettamente circoscritto! In altri termini: i sentimenti non si verificano mai puri ma sempre e soltanto in realizzazione approssimativa. E in altri termini ancora: il processo dello sviluppo e consolidamento non giunge mai a conclusione”.
Tutto ciò può sembrare, se non una falsità, quantomeno un’esagerazione del modo in cui l’emozione di una persona possa essere collegata in senso dinamico ad altri elementi della struttura narrativa. Certamente è possibile che un’emozione sia semplicemente finita. Ma questo pensiero dovrebbe diventare meno insistente, quando prendiamo in esame il rapporto tra emozioni determinate e indeterminate.

[Ulrich] aveva a sua disposizione una quantità di esempi: piacere, amore, collera, diffidenza, generosità, ribrezzo, invidia, scoraggiamento, angoscia, desiderio… e li ordinò mentalmente in una serie. Poi ne formò una seconda: benevolenza, tenerezza, irritabilità, sospettosità, elevatezza, pavidità, nostalgia... alla quale mancavano solo gli anelli per cui non trovava nomi. Confrontò le due serie: l’una conteneva sentimenti definiti, quali sono suscitati in noi da una coincidenza precisa, l’altra sentimenti vaghi che sono tanto più forti in quanto non si sa che cosa li abbia destati; e tuttavia erano in entrambe gli stessi sentimenti, qui in uno stato generale, là in uno stato particolare. “Dirò dunque che in ogni sentimento occorre distinguere un’evoluzione verso la determinatezza e una verso l’indeterminatezza.” [...]
Così, al sentimento definito corrisponde un comportamento definito verso qualche cosa e al sentimento indefinito un comportamento generale verso tutte le cose; l’uno tende a coinvolgerci negli avvenimenti, mentre l’altro si limita a farvici assistere dietro una finestra colorata.
Ulrich sostò un momento a considerare quella differenza di comportamento dei sentimenti determinati o indeterminati nei confronti del mondo. Si disse: “Aggiungerò questo: quando un sentimento si evolve verso la determinatezza in un certo modo si acuisce, restringe la sua destinazione e finisce, dentro e fuori, in un vicolo cieco; conduce a un’azione o a una risoluzione, e se anche con queste non cessa di essere, scorre poi via cambiato come l’acqua all’uscita del mulino. Se al contrario si evolve verso l’indeterminatezza, è in apparenza privo di energia. Ma mentre il sentimento definito ricorda una persona con le braccia tese ad afferrare qualcosa, quello indefinito tramuta il mondo con l’indifferenza e il disinteresse con cui il cielo muta i suoi colori, e in esso le cose e gli eventi si trasformano come le nuvole nel cielo; il comportamento del sentimento indefinito verso il mondo ha in sé qualcosa di magico, e in confronto con quello definito – Dio mi perdoni! – qualcosa di femminile!” Così si disse Ulrich, e poi gli venne in mente qualcosa che lo condusse lontano: perché naturalmente è soprattutto l’evoluzione verso il sentimento definito quella che trae con sé l’instabilità e la caducità della vita spirituale. Che non si possa mai arrestare l’attimo del sentimento; che i sentimenti appassiscano più in fretta dei fiori o si trasformino in fiori di carta se si vuol conservarli; che la felicità e la volontà, l’arte e le opinioni passino; tutto ciò dipende dalla determinatezza del sentimento che gli impone anche una destinazione e lo costringe ad entrare nel movimento della vita, dove sarà dissolto o mutato. Invece il sentimento che permane nella sua indeterminatezza è relativamente immutabile. Gli venne in mente un confronto: “L’uno muore come un individuo, l’altro dura come un genere o una specie”.

E tuttavia, insiste Musil, le emozioni determinate non giungono a una fine.

[...] Bisognava anche ammettere che il primo germe d’un sentimento poteva sempre servire a produrre un altro sentimento, e che nessuno di questi nel suo sviluppo e consolidamento poteva mai giungere a un termine definitivo. Ma se questo era esatto, non soltanto nessun sentimento poteva giungere a una piena determinatezza, ma era anche assai probabile che nessuno acquistasse mai un’assoluta indeterminatezza, e allora non potevano esservi né sentimenti veramente determinati, né sentimenti veramente indeterminati. E infatti accade quasi sempre che le due possibilità del sentimento si uniscano in una sola realtà comune, dove predomina la particolarità dell’una o dell’altra. Non vi è “disposizione d’animo” che non contenga anche sentimenti determinati, i quali si formano e si dissolvono in essa; e non vi è sentimento determinato che almeno là dove si può dire di esso che “irradia”, “cinge”, “agisce per sé stesso”, “si estende” o influisce “direttamente” sul mondo senza movimento esteriore, non lasci intravvedere le caratteristiche dell’indeterminato. È vero però che vi sono sentimenti che corrispondono con notevole approssimazione all’uno o all’altro tipo.

Abbiamo un’idea piuttosto chiara della natura di un’azione dettata dall’emozione, dove l’emozione è stata suscitata da un determinato incontro che ci spinge all’azione, come sostiene Musil. Qui, emozione e azione possono essere rese intelligibili in riferimento a una gamma di credenze, desideri, e sentimenti specifici indirizzati verso l’oggetto dell’emozione. Al contrario, non abbiamo un’idea così chiara di cosa sia un’azione dettata dallo stato d’animo, il cui grado di determinatezza non è generalmente sufficiente per spiegare azioni specifiche, cioè azioni che trovano la loro spiegazione in credenze, desideri e sentimenti rivolti a un oggetto esterno. Ciò nondimeno, uno stato d’animo può concretarsi sia in un’azione espressiva, sia in espressioni non assimilabili ad azioni vere e proprie (piangere, aggrottare le ciglia, sollevare il mento). […] Alcune azioni che compiamo normalmente, pur non avendo in sé nulla a che fare con l’emozione, possono essere espressive (sbattiamo la porta con rabbia). Talvolta questa espressività avverbiale, come l’ho definita, è intenzionale, in altri casi non lo è. Una simile espressività avverbiale ha a che fare con lo stato d’animo: ci si trascina tristemente su per le scale verso il letto; ci si avvia al lavoro con passo energico, e via dicendo. Nella maggior parte dei casi tali espressioni avverbiali dello stato d’animo non sono intenzionali. (Se lo fossero, le si potrebbe spiegare nei termini di mezzo-fine, credenza-desiderio. […] Ad esempio, ti trascini su per le scale per mostrare a qualcuno che stasera ti senti triste.)

Così, a dispetto del loro carattere indeterminato, in questo senso avverbiale anche gli stati d’animo (mutevoli “come le nuvole”) danno forma all’azione. Gli stati d’animo possono manifestarsi anche in altri generi di espressione. Ad esempio, sono depresso e trovo così disperatamente triste una banale pubblicità televisiva da scoppiare a piangere in modo incontrollabile; oppure sono irritabile (nei confronti di nessuno in particolare) e guardo in cagnesco il pensionato in fila davanti a me che armeggia coi soldi, tanto che stringo i pugni; o ancora, sono ansioso (per tutto e niente) e non faccio che toccare il nodo della cravatta per assicurarmi che non sia storta. Il fatto che tali espressioni di stati d’animo si aggancino a qualcosa di specifico e manifesto sembra confermare che il senso di irritabilità, ad esempio, si è “combinato nella realtà” – per tornare a Musil – con la rabbia nei confronti del pensionato in fila. Ma, mentre il pensionato scompare dalla scena, il sentimento indeterminato dell’irritabilità permane, non lo stesso di prima, ma sviluppato e consolidato dal mio stesso modo di esprimerlo e dalla relativa collera specifica nei confronti del pensionato. Perciò, gli stati d’animo come le emozioni possono rivelare la loro tendenza alla determinatezza tramite la loro espressione. Tale espressione non tende a portare lo stato d’animo in un vicolo cieco, quanto piuttosto a dargli una forma e a consolidarlo, forse attenuandolo un poco, ma senza portarlo a compimento.

Lo stato d’animo può focalizzarsi perciò in un’emozione. Sviluppando il tema trattato da Musil, vediamo anche come l’emozione possa sfocare nell’indistinta indeterminatezza dello stato d’animo. Le emozioni determinate, dice Musil, muoiono nell’azione; ma, possiamo aggiungere ora, possono continuare a vivere nello spirito. Sono arrabbiato con una persona e la mia rabbia implica, si presume, un desiderio proporzionato e appropriato di vendetta. Ora, la mia rabbia, l’emozione specifica, può essere scaricata tramite la soddisfazione di questo desiderio: posso ad esempio colpire la persona che mi ha fatto infuriare. A questo punto posso dire che la mia collera è finita: non sono più arrabbiato (l’emozione è giunta a un termine) perché il desiderio implicito è stato soddisfatto. Questo è, quantomeno superficialmente, corretto. Tuttavia, un cospicuo residuo dell’esperienza emozionale rimane nella mia mente. Posso ricordare (consciamente o inconsciamente) la collera; posso rivisitare l’avvenimento in sogno; nelle mie fantasticherie diurne posso reinterpretare in senso immaginativo l’evento, abbellito forse grazie a un po’ di esprit d’escalier; e l’emozione “specifica” può andare fuori fuoco e confondersi nella forma indistinta della non-specificità continuando a colorare il mio modo di pensare e di sentire nei confronti del mondo come “il cielo muta i suoi colori” per dirla con Musil. Questo sviluppo sarà particolarmente evidente quando il desiderio appropriato e proporzionato che è stato soddisfatto è sostenuto a livello più profondo da un desiderio più oscuro e potente che, ben lungi dall’essere appropriato e proporzionato, non è stato affatto soddisfatto, se non nel senso simbolico e sbiadito dell’azione espressiva.

Ora, spesso i desideri impliciti nelle nostre emozioni – compresi quelli appropriati e proporzionati – non vengono soddisfatti: non posso picchiare la persona con la quale sono in collera perché è troppo forte o troppo importante, oppure perché sono troppo orgoglioso per mostrare la mia rabbia (cfr. Solomon). Così la rabbia può giungere a un termine senza che io abbia soddisfatto il desiderio a essa collegato: come spesso accade, invece di trovare soddisfazione nell’agire, il desiderio insoddisfatto appassisce come un frutto mai colto e muore. Semplicemente, la vita continua, altre cose diventano importanti e la mia rabbia, di cui il desiderio è parte, si dissolve come un gas velenoso nell’aria limpida. E tuttavia la collera continua a risuonare nella mia psiche in modo indeterminato, assumendo un grado di intensità forse addirittura maggiore di quanto non sarebbe stato se il desiderio avesse trovato una gratificazione.

Può sembrare una domanda bizzarra, eppure è importante: che cosa ne è dei desideri insoddisfatti? Le metafore utilizzate – il frutto appassito, il gas che si libera nell’aria – rendono adeguatamente l’idea del residuo. Ma non tutti i desideri insoddisfatti sono uguali. Alcuni decadono semplicemente perché perdono d’importanza col mutare delle circostanze. Ciò accade in particolare coi desideri condizionati dal tempo. Ad esempio desidero andare in piscina nel pomeriggio; alle dieci di sera però non ho più possibilità di scelta e il desiderio decade. Anche altri desideri che non sono (o almeno non in maniera palese) legati al tempo possono decadere. Possiamo desiderare ad esempio di andare a vedere un film appena uscito in sala, ma i giorni passano e l’opportunità non si presenta finché un giorno degli amici ci propongono di andarlo a vedere e – con nostra grande sorpresa – l’idea non ci appare più così attraente. Il desiderio di vedere quel film aveva una sorta di “data di scadenza” nascosta (o forse è meglio dire che la data di scadenza riguardava il film) di cui non eravamo consapevoli. Ma i desideri insoddisfatti o frustrati associati con le emozioni non assomigliano generalmente a questi altri generi di desideri nel senso che non decadono direttamente e neppure perdono di intensità regredendo a un’aspirazione indistinta. Al contrario, possono rimanere (come i frutti appassiti e il gas velenoso) in forma di residuo. Il desiderio (e l’emozione di cui faceva parte) può essere dimenticato, ma non è necessario che sia cancellato dalla memoria.
Durante il giorno ti sei sentita offesa da un’osservazione sgarbata fatta da un collega più anziano; hai tuttavia prudentemente tenuto a freno la lingua evitando una rispostaccia. La sera, a casa, tuo marito ti chiede perché sei di umore così irritabile e tu non hai davvero idea del motivo, forse arrivi a negare del tutto la tua irritabilità. Poi, all’improvviso, gli avvenimenti della giornata ti tornano alla mente in tutta chiarezza (come quando cerchiamo disperatamente di ricordare un nome che continua a sfuggirci e poi all’improvviso ci viene in mente) e non puoi più avere dubbi: quella è la causa del tuo stato d’animo. L’emozione che hai esperito qualche ora prima è passata e il momento adatto a soddisfare il desiderio è scaduto, è perso. Ma quel desiderio frustrato continua a risuonare dentro di te, diffuso in un senso di irritazione e risentimento generale. A volte, l’irritabilità può convergere su un altro oggetto – tuo marito – e trasformarsi in una rabbia trovando la sua “ragione” nel modo in cui consuma la cena.

Possiamo collegare questa analisi con la genealogia della morale degli schiavi secondo Nietzsche, per il quale la rabbia e il desiderio di vendetta frustrato dei deboli sfociano in quello che il filosofo definisce ressentiment. Scrive Nietzsche: “Lo stesso ressentiment dell’uomo nobile, quando si manifesta in lui, arriva al massimo o si esaurisce in una reazione immediata e quindi non intossica”; mentre “l’uomo del ressentiment non è né onesto, né ingenuo, né vero con se stesso. La sua anima è strabica” (Genealogia della morale, saggio primo, sezione 10). Qui possiamo vedere il modo in cui l’emozione e lo stato d’animo, sviluppati e consolidati tramite l’azione o l’inazione, non si intrecciano soltanto l’una con l’altro, ma anche con i tratti distintivi della personalità. L’individuo che prova rabbia verso qualcuno in particolare può permanere in uno stato di ressentiment a causa della frustrazione dei suoi desideri e questo sentimento – ora più indeterminato e rivolto alle cose in generale – può consolidarsi in un tratto distintivo: egli diventa così una persona piena di risentimento, abitualmente disposta a nutrire pensieri e sentimenti di rancore nei confronti di ogni genere di cose e persone. Analogamente, l’innamorato piantato in asso può sviluppare amarezza e disprezzo per il mondo e anche questo può consolidarsi in un preciso tratto.

Oltre a ciò, quello che all’inizio si presenta come espressione di uno stato d’animo può trasformarsi in un manierismo ricorrente (un comportamento di cui generalmente non si è consapevoli), rivelatore di un tratto acquisito e non di una disposizione d’animo: l’uomo triste che cammina curvo per la strada, l’espressione di disgusto nei confronti del genere umano perennemente stampata sul volto della donna che incontriamo in autobus. Per parafrasare Proust: i lineamenti del nostro volto sono poco più che gesti resi permanenti dalla forza dell’abitudine. Come nella distruzione di Pompei, come nella metamorfosi della ninfa, la natura ci ha fissato per sempre in un movimento abituale.

Da queste osservazioni sul ressentiment potremmo ricavare l’idea che è bene evitare di trattenere le nostre reazioni emotive, soprattutto quelle negative, per paura che i sentimenti impliciti si annidino nel nostro animo fino a formare una cicatrice permanente. Ma sarebbe un’inter- pretazione errata. Non sono un sostenitore dell’espressione disinibita dell’emozione a tutti i costi: se è più prudente reprimere la reazione e controllare il desiderio inappropriato o sproporzionato, allora è meglio fare così. L’idea è piuttosto quella che se non affrontiamo i nostri sentimenti e le nostre reazioni represse e non le riconosciamo per quello che sono veramente, allora è possibile, come dice Nietzsche, che la nostra anima diventi strabica. […]

   
 

Il libro del filosofo inglese Peter Goldie, The Emotions: A Philosophical Exploration, Oxford Clarendon Press, 2000, è ancora inedito in Italia. Le parti che qui riportiamo (dal capitolo 3 – Emotions and Feelings) sono state proposte dall’autore per questa pubblicazione e tradotte in italiano da Barbara Venturi per Scriptum, Roma.

   
  inizio pagina