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Per molti anni ho avanzato tre proposte,
rivolgendomi in particolare ai colleghi storici dell’arte, e in
generale agli studiosi delle scienze umane. Nella prima sostenevo che
dovrebbe essere possibile tracciare alcune connessioni tra il modo in
cui le immagini appaiono e quello in cui gli spettatori rispondono loro
sul piano delle emozioni e dei sentimenti, e sostenevo che tutto questo
dovrebbe essere neuroscientificamente dimostrabile. Già nel 1987
invitai a prendere in considerazione la neurofisiologia delle risposte
visive e psicologiche a forme precise, volendo sostenere che ciò
poteva comportare l’assunzione di certe invarianze e ricorrenze
biologiche e psicologiche che valgono attraverso epoche e culture. Tutto
questo contrastava tuttavia con le tendenze in voga soprattutto negli
anni ottanta e novanta, sia della storia dell’arte che più
genericamente dello studio delle scienze umane. Una tale proposta è
stata invece accolta come del tutto banale da quei neuroscienziati che,
da qualche tempo ormai, sono impegnati a definire lo specifico lavoro
del cervello nella creazione delle, e nella risposta alle, opere d’arte.
Il mio invito ha continuato comunque a cadere nel vuoto, nonostante siano
ormai sempre più numerose le prove a sostegno del fatto che le
risposte sono determinate geneticamente ed evoluzionisticamente. La resistenza
a ogni tipo di approccio che minacci l’orientamento contestuale
delle scienze umane rimane infatti molto alta. Nelle scienze umane continua
a prevalere il modello standard delle scienze sociali. Il modo predominante
di studiare la storia dell’arte rimane quello della storia sociale
dell’arte. Approcci diversi continuano a essere censurati, come
se storia sociale e biologia fossero condannate a essere in eterno contrasto
l’una con l’altra.
La mia seconda proposta era che si potessero davvero classificare le emozioni
travalicando confini culturali e contesti, proprio come sostiene Ekman
nei suoi lavori su questo argomento. Tuttavia, la posizione comune nelle
scienze umane, salvo la recente eccezione di pochi filosofi, è
che le emozioni siano troppo approssimative e troppo caratterizzate da
elementi personali, culturali e storici per poter essere definite in termini
transculturali. Ho suggerito più e più volte che, per quanto
alcune risposte possano risultare culturalmente variabili o possano essere
determinate dal contesto, le emozioni dipendono da meccanismi innati.
Tuttavia, l’idea che alcune risposte alle opere d’arte possano
essere automatiche o possano dipendere direttamente dalla struttura, dalla
fisiologia o dalla chimica del cervello sembra restare ancora difficile
da accettare. […] La mia terza proposta, che ha incontrato meno
resistenza a causa del fascino per “il corpo”, è che
risulta impossibile concepire le emozioni separatamente dal corpo, e in
modo particolare separatamente dal suo movimento, come Darwin e James
hanno già messo in evidenza, e come tutti sapevano a partire da
Della Porta passando per autori come Le Brun e Marin Cureau de La Chambre.
È probabilmente proprio questo nesso intimo tra corpo ed emozione
ad essere stato così a lungo la ragione della scarsa attrattiva
esercitata dalle emozioni, dal momento che il corpo restava un ostacolo
a piaceri che si presupporrebbero incorporei, il che, a ripensarci, è
contrario al buon senso.
Per gran parte del ventesimo secolo le emozioni sono state escluse dalla
storia e dalla filosofia dell’arte. Al giorno d’oggi, tanto
gli storici dell’arte più tradizionalisti quanto quelli con
inclinazioni filosofiche ammettono che, se anche può essere vero
che le immagini stimolano emozioni e desideri, questo non è ciò
di cui dovrebbe occuparsi la storia dell’arte, dato che le emozioni
sono troppo personali e troppo casuali per essere discusse nel nostro
incontaminato campo di ricerca. D’altra parte, quando visitano una
galleria d’arte, gli storici dell’arte e gli estetologi pretendono
per lo più di sapere che un quadro è solo un quadro, una
scultura solo una scultura, e che non si risponde a un’opera come
se fosse reale. Oppure, essi potrebbero anche proporre una modifica a
questa asserzione, e dire che non si risponde realmente a un’opera
come se fosse reale – e che forse non si dovrebbe farlo.
Il libro di R. G. Collingwood del 1938, The Principles of Art,
spesso ammirato, proponeva senza mezzi termini un punto di vista secondo
il quale l’arte non dovrebbe occuparsi affatto di suscitare emozioni.
A suo parere, i veri artisti non si sforzano di produrre effetti emotivi
nello spettatore, lettore o ascoltatore che sia. Questo genere di cose,
a suo dire, sarebbe meglio venisse lasciato a chi lavora nello spettacolo
e ai maghi (da non confondere con i veri artisti!). Egli deplorava inoltre
quei “numerosi casi in cui qualcuno, arrogandosi il titolo di artista,
si mette deliberatamente a eccitare certi stati mentali nel suo pubblico”
(Collingwood, 1938, p. 31). Collingwood dimenticava il caso di Nicolas
Poussin, che si propose in modo piuttosto esplicito di fare proprio questo
quando, nel 1647, scrisse al suo mecenate Chantelou che la composizione
in pittura, come in musica, dovrebbe essere tale da stimolare l’anima
di coloro che vi assistono, indirizzandola verso passioni diverse: “Induire
l’âme des regardants à diverses passions”.
Collingwood era però un signore inglese che, quindi, stando al
cliché nazionale, non sapeva esprimere pienamente sentimenti ed
emozioni.
Sebbene nella seconda metà del diciannovesimo secolo e all’inizio
del ventesimo la teoria dell’arte tedesca si sforzasse di occuparsi
a fondo del problema delle risposte emotive all’arte, la sua rilevanza
per le concezioni moderne dell’emozione è stata quasi totalmente
trascurata dai grandi studiosi tedeschi che hanno dominato la storia dell’arte
del ventesimo secolo. Per la maggior parte si trattava di puri razionalisti
che temevano superstizione ed emozione. Le emozioni erano ritenute troppo
occasionali, troppo imbarazzanti, troppo accidentali per il valore trascendentale
dell’arte. Le tre tendenze che hanno dominato la storia dell’arte
del ventesimo secolo hanno finito per essere formalismo, connoisseurship
e studi dei diversi tipi di contesto in cui l’opera è stata
realizzata: tutte escludono le emozioni. Invece di cercare di scoprire
le relazioni tra gli aspetti formali di un’opera e gli specifici
sforzi psichici che ne scaturiscono, il formalismo è rimasto inerte,
e sia quest’ultimo sia la connoisseurship sono stati sprezzantemente
appiattiti l’uno sull’altro, o interamente rimpiazzati dagli
studi del contesto che dagli anni Sessanta in poi hanno rappresentato
il paradigma principale per la ricerca storico-artistica. Quando qualche
tempo fa ho reso noto che stavo progettando un libro che si doveva intitolare
Mind, Body and Emotion in the History of Art, tanto i colleghi
progressisti quanto quelli conservatori hanno previsto per questo progetto
un fallimento sicuro.
Oggi più che mai sembra legittimo indagare le relazioni tra gli
aspetti formali di un’immagine e le risposte emotive, sia positive
che negative, che possono stimola- re, e vedere che cosa è passibile
di essere codificato o messo in correlazione. Sorprendentemente, questa
idea ha però suscitato scarso interesse. Si potrebbe pensare che
lasciare le emozioni fuori dal campo artistico significhi devitalizzare
l’arte; certo, la storia dell’arte doveva innanzitutto essere
resa una disciplina accademica e perciò non-emotiva. È significativo
che Arte e illusione di E. H. Gombrich – forse il tentativo
più profondo che sia mai stato fatto di far convergere arte e psicologia
scientifica –, faccia rari riferimenti alle emozioni e non menzioni
affatto la tradizione tedesca che al contrario vi si riferì, collegando
fisicità ed emozione.
Nonostante io abbia affrontato alcune di queste questioni nel mio lavoro
sull’iconoclastia e poi ne Il potere delle immagini, ciò
che mi interessava erano i sintomi e non le spiegazioni. In quella sede
il mio obiettivo non era né l’aspetto neuroscientifico né
nulla che fosse implicato dagli approcci della psicologia cognitiva, allora
molto più distinta dalle neuroscienze rispetto ad oggi. È
stato solo con il lavoro di neuroscienziati come Antonio Damasio, Joseph
LeDoux, Giacomo Rizzolatti e il suo gruppo di Parma che si è ottenuta
una qualche conferma che la strada intrapresa era quella giusta. Prima
di loro, il solo pensatore ad aver visto il problema con chiarezza –
sebbene con ambizioni teoretiche molto diverse – è stato
Nelson Goodman. Ne I linguaggi dell’arte Goodman ha attaccato
ciò che chiama “dispotica dicotomia fra cognitivo ed emotivo”.
“Da una parte”, ha scritto con il suo solito stile mordace,
“mettiamo sensazione, percezione, inferenza, congettura, ogni ricerca
e investigazione inerte, fatto e verità; dall’altra parte,
piacere, pena, interesse, soddisfazione, disappunto, ogni risposta affettiva
senza la partecipazione del cervello, apprezzamento e disgusto. Ciò
impedisce precisamente di scorgere che nell’esperienza estetica
le emozioni funzionano cognitivamente” (Goodman, 1968,
p. 213). Abbiamo qui un autore che Antonio Damasio, con il suo progetto
di combinare ragione ed emozione, avrebbe potuto citare con profitto.
In anni più recenti, pochissimi storici e teorici dell’arte
hanno iniziato a considerare seriamente le emozioni, tra questi James
Elkins. Tuttavia, né il suo Pictures of the Body, Pain and
Metamorphosis, ricco delle illustrazioni più orribili e opprimenti,
né il suo Pictures and Tears: How a painting can make you cry,
che descrive un ampio numero di risposte decisamente emotive alle immagini,
accennano minimamente al cervello o alle neuroscienze. Tali libri sono
tutti relativi alle emozioni e alle emozioni generate da immagini; tuttavia
non offrono alcuna spiegazione sulla modalità con la quale sorgono,
né propongono una seppur vaga ipotesi relativa al fatto che talvolta
esse sono collegate in qualche modo a coinvolgimenti corporei, né,
infine, dicono da dove arrivino, o quale possa essere la connessione tra
l’espressione di un’immagine e la risposta emotiva che essa
provoca. Nella “Prefazione” a Pictures of the Body
Elkins osserva in modo tagliente che “poiché il corpo introduce
il pensiero, è possibile non avere alcuna cognizione di aspetti
importanti delle mie risposte all’immagine di un corpo” (Elkins,
1999, p. VII). Egli segnalava così, in termini leggermente diversi,
uno dei punti fondamentali del presente articolo, e cioè che il
modo in cui il corpo tratta l’informazione visiva che riceve attraverso
il cervello può essere in molti casi precognitivo. Inoltre, in
nessuno dei due testi Elkins mostra di avere una qualche consapevolezza
del notevole lavoro svolto in questo vasto campo in cui, nelle ricerche
di scienziati che vanno da Maffei, Zeki ed Ekman a LeDoux, Adolphs, Damasio,
Dolan e molti altri, la relazione tra arte, emozione e cervello è
stata finalmente accettata come un soggetto degno di studio.
Nelle pagine che seguono mi concentrerò su alcuni lavori neuroscientifici
rilevanti per l’antica questione delle relazioni tra movimento ed
emozione. Così facendo, accennerò a questioni relative non
solo ai comportamenti apparentemente automatici (e da qui ai loro correlati
cerebrali), ma anche alla complessa questione del comportamento simulato
e delle simulazioni che sono sentite piuttosto che espresse attraverso
il comportamento. In altre parole, mi occuperò del significato
del fatto che si reagisce come se si stessero avendo comportamenti fisici,
senza però che tali comportamenti abbiano effettivamente luogo.
Questa forma di reazione mi sembra particolarmente rilevante per i modi
in cui rispondiamo non solo ad altri esseri viventi, ma anche a immagini
e sculture. Mi allontanerò perciò dai tipi di comportamento
emotivo viscerale e orientato all’esterno descritti dettagliatamente
ne Il potere delle immagini, spostandomi piuttosto verso la loro
espressione interna, mentale, verso i loro correlati neurali. Anche se
si è lavorato molto alle basi ormonali di tali espressioni interne,
non le discuterò qui, e mi concentrerò invece per lo più
sul recente lavoro relativo all’identificazione di specifiche aree
corticali responsabili sia delle nostre azioni motorie che delle nostre
azioni motorie simulate, e cioè sul problema dell’attivazione
di parti del cervello responsabili delle nostre azioni motorie anche quando
non le eseguiamo realmente. Da tutti questi punti di vista, le vecchie
questioni delle relazioni tra movimento interno ed esterno, e tra movimento
ed emozione, vengono decisamente in primo piano. Tali questioni, come
è naturale, sono strate trattate di continuo nella storia dell’arte,
a partire dalla famosa controversia sul significato della frase di Rembrandt
“die meeste en de naetuereelste beweechgelickheit”
nella sua lettera del 1639 a Constantijn Huygens fino alla dissertazione
di Aby Warburg su Botticelli del 1893 e alla sua nozione di Pathosformel,
passando per gli scritti di Robert Vischer, Hermann Lotze e altri. Ci
dichiareremo soddisfatti quando avremo scoperto, se non la soluzione neuroscientifica
ad alcune vecchie intuizioni, ipotesi e teorie, almeno una soluzione più
raffinata.
Come un’immagine o una scultura impegnano il corpo, e quali sono
le risposte emotive che possono seguirne? Oggi è possibile essere
più precisi di quanto non si sia mai stati finora sulle relazioni
e le correlazioni tra risposte corporee ed emotive.
Nel 1936–37 Virginia Woolf descrisse le sue reazioni ad alcune
terribili fotografie della Guerra civile spagnola. “Tra quelle arrivate
stamani ce n’è una in cui si vede il corpo di un uomo, o
forse di una donna, non si capisce bene; è così mutilato
che potrebbe benissimo essere anche il corpo di un maiale. Ma non c’è
dubbio che quelli laggiù sono corpi di bambini morti, e quella
è la sezione di una casa spaccata a metà da una bomba; in
quello che doveva essere il salotto sta ancora appesa la gabbia degli
uccelli” (Woolf, 1938, p. 30).
Non appena leggiamo queste righe ci è impossibile non pensare alle
migliaia di fotografie arrivate quasi giorno per giorno dalle zone di
guerra in Bosnia, Israele, Iraq. Woolf non aveva assolutamente nessun
dubbio circa il disgusto universale e l’orrore che a suo avviso
queste immagini dovevano provocare. “Per diverse che siano la nostra
educazione e le nostre tradizioni”, insiste, “le sensazioni
che proviamo sono identiche” (Woolf, 1938, p. 30).
Nel 2003 Susan Sontag ha preso posizione contro Woolf nel suo libro sulla
fotografia di guerra intitolato Davanti al dolore degli altri,
non apprezzando i presupposti che sottostanno a quel “nostro”
e a quel “noi”. Riteneva che fosse sbagliato suggerire che
delle fotografie, per quanto scioccanti, possano offrire in qualche modo
un minimo comun denominatore per opporsi alla guerra, e che in ogni caso
“noi” non potremmo mai soffrire così tanto come le
persone mostrate in fotografia, o fare esperienza di ciò che quelle
fotografie mostravano. Tutto ciò è banalmente vero, ma non
coglie il punto. “Non soffrire a causa di queste immagini”,
continua la Sontag, “non indietreggiare inorriditi dinanzi ad esse,
non sforzarsi di abolire ciò che provoca una simile devastazione,
una simile carneficina – queste sarebbero, in termini morali, le
reazioni di un mostro, dice Woolf. E, lascia intendere, non siamo mostri,
noi membri della classe colta. A mancarci è l’immaginazione,
l’empatia: non siamo riusciti a fare nostra questa realtà”
(Sontag, 2003, p. 7).
Ciò che va esaminato è il nucleo di entrambi gli argomenti,
di Woolf e di Sontag, e non le conclusioni che esse ne ricavano, con le
quali sarebbe impossibile non essere d’accordo. In realtà,
Sontag e Woolf concordano sugli effetti immediati delle fotografie di
guerra e sofferenza. Sono immagini che provocano orrore e disgusto. Ne
restiamo addolorati e indietreggiamo di fronte a esse. E “noi”
possiamo difficilmente sopportare di guardarle, non solo per l’ovvia
indignazione politica e morale che esse provocano, ma perché coinvolgono
livelli di risposta più elementari, più viscerali, più
immediati e automatici. Sontag suggerisce che se non veniamo raggiunti
dallo shock di queste immagini, è per una mancanza di immaginazione
e di ciò che lei chiama empatia, usando questa parola nel senso
comune di profonda simpatia per coloro che appaiono sofferenti. È
la sensazione che lo spettatore ha spesso sentendo di poter partecipare
in qualche modo e in un certo grado alla sofferenza degli altri. Sontag
però non definisce affatto questo termine, e per altro non suggerisce
che possa essere suscettibile di una definizione più puntuale.
E invece lo è, secondo percorsi che ci avvicinano ad alcuni dei
modi fondamentali in cui gli esseri umani si rapportano alle immagini
che vedono.
Il leitmotiv della discussione di Sontag è la famosa fotografia
del 1937 di Robert Capa in cui un soldato repubblicano cade all’indietro
– o di lato? – nell’istante preciso in cui è
colpito da un proiettile nemico. Guardando quest’immagine, granulosa
com’è, la fenomenologia dell’impegno che prendiamo
con essa sembra relativamente chiara. In qualche modo – tornerò
presto su quale sia questo “modo” – sentiamo nei nostri
stessi corpi la precisa instabilità di quell’uomo che cade.
Ci sembra di essere noi a cadere, in disequilibrio e, ancor di più,
provando invano a tenerci diritti. È quasi come se dovessimo trattenerci
dal gettare il nostro braccio all’indietro, come se anche noi stessimo
per perdere quella pistola che stavamo trattenendo fino a un attimo prima.
Anche questi “come se” saranno presto oggetto di discussione.
La totale precarietà della condizione fisica di quell’uomo
sembra venire proiettata su di noi per un istante, o forse sarebbe meglio
dire che diventa parte delle nostre stesse sensazioni fisiche. È
quasi un sollievo renderci conto di essere ancora seduti – “normalmente”,
verrebbe da dire, ma in qualche modo per nulla “normalmente”
– quando guardiamo questa immagine. Ci sembra di sentire sulla nostra
pelle (come si dice, ma forse nella nostra testa, come vedremo) che siamo
coinvolti da questa immagine. I nostri corpi le rispondono come se quel
corpo fosse in qualche modo il nostro. Per un istante siamo rimasti con
una lieve sensazione di ansia e disperazione. Il coinvolgimento fisico
con un’immagine come questa, l’empatia fisica, si traduce
molto rapidamente in emozione. È giunto il momento di rivalutare
la tradizione della teoria dell’empatia così diffusa nella
teoria dell’arte nella Germania della seconda metà del diciannovesimo
secolo. Non si tratta solo di un semplice interesse epistemologico. Per
molti anni si è rivolta scarsa attenzione all’idea secondo
la quale il coinvolgimento che sentiamo a livello corporeo per un quadro
o con una scultura, o anche in architettura, consente risposte empatiche
sia fisiche che emotive. Solo di recente, con la pubblicazione dell’utile
antologia di Mallgrave e Ikonomou in cui sono raccolti scritti che si
occupano in gran parte di teoria dell’empatia, si è avuta
una seria ripresa di interesse per l’argomento.
In Sul sentimento ottico della forma del 1873, Robert Vischer
distingueva tra sensazione e sentimento in termini che anticipano le recenti
distinzioni neuroscientifiche tra emozioni e sentimenti consci. Essendo
a un livello più basso nel processo percettivo, le sensazioni sono
più intuitive e precedono il sentimento conscio – che a sua
volta precede il nostro sentimento empatico rispetto alla forma degli
oggetti –. Per Vischer ciascuno di questi stadi riguarda ciò
che egli chiama la stimolazione della “funzione neuro-motoria”
(Vischer, 1966, p. 50 [N. d. t.]) e la relazione tra la forma dell’oggetto
e la nostra propria forma corporea. È da lui che Warburg ha ricavato
la nozione di ciò che entrambi hanno chiamato Einfühlung,
ma che per Warburg era generato dalla mobilità della figura (in
quadri come quelli di Botticelli e Ghirlandaio), e in Vischer era caratterizzato
come “fisiognomico”. Poco prima di Vischer, Hermann Lotze
aveva sviluppato l’idea secondo cui noi tendiamo a insufflare in
ogni impressione visiva un contenuto emotivo, specificamente a causa della
nostra corporeità o della nostra esperienza fisica. Heinrich Wölfflin
riprese poi la teoria dell’empatia facendo riferimento all’architettura,
facendo dipendere il concetto cruciale di Pathosformel, proposto
da Aby Warburg, dalle relazioni tra movimento corporeo ed espressione
dell’emozione – un problema leggermente diverso. Circa nello
stesso periodo William James analizzò la questione più generale
delle relazioni tra azione corporea ed emozione, mentre al cuore di tutto
il lavoro di Merleau-Ponty si trova una profonda attenzione per i modi
in cui il corpo degli spettatori viene a essere coinvolto nelle opere
d’arte, e in particolare per il problema del movimento percepito
nell’ambito della risposta corporea.
Ma per prima cosa: quando guardiamo, per esempio, la fotografia straziante
che nel 2001 Tyler Hicks ha scattato a tre donne irachene che si dolevano
con tutto il loro corpo al cospetto dei corpi scomposti e privi di vita
delle loro figlie, ci sembra di simulare, o essere inclini a simulare,
ciascuno dei movimenti all’interno della scena. Le nostre bocche
si aprono in una qualche forma di dolore che corrisponde al loro, e istintivamente
sembriamo voler spalancare per lo strazio le nostre braccia quasi nello
stesso modo in cui lo fa la madre. Poi, non appena i nostri occhi sorvolano
la superficie dell’immagine, possiamo ben sentire una sorta di cedimento
all’interno dei nostri corpi, come a imitare la prostrazione scomposta
della bambina morta (è quasi la stessa sensazione di cedimento
intensamente empatico provocata dalla famosa fotografia del 1968 di Don
McCullin del corpo riverso a terra di un soldato nordvietnamita). Quanto
facilmente sentiamo di comprendere il gesto della donna sullo sfondo,
che stringe forte le mani al petto, o la disperazione del modo in cui
la donna accanto a lei si scansa dal dolore!
Tutte queste figure servono a ricordare in modo incisivo l’importanza
della nozione warburghiana di Pathosformel. Non solo è
incontestabile che i gesti hanno l’aria di essere umanamente veri;
di più: sappiamo immediatamente quanto spesso li abbiamo visti
nell’arte – in particolar modo quello della madre che geme
con le braccia spalancate dalla pena. Queste espressioni fisiche di dolore
sono stereotipate ma pienamente convincenti, e fanno parte del repertorio
corporeo delle espressioni emotive che troviamo in generazioni di scultori
e pittori che non si limitano a copiare le opere altrui – come nel
caso degli artisti rinascimentali che copiavano l’antichità
–, ma che attingono a una conoscenza del corpo profonda e intuitiva
che lega movimento ed emozione.
Gli esempi di questa combinazione tra la conoscenza intuitiva del corpo
e le lunghe tradizioni di espressione emotiva che passa attraverso il
corpo sono innumerevoli. Includono il San Giovanni di Giotto nella Lamentazione
nella Cappella degli Scrovegni, l’indimenticabile gruppo di terracotta
della Lamentazione di Niccolò dell’Arca in Santa
Maria della Vita a Bologna, la Pietà di Rosso al Louvre,
le braccia alzate di Maria – come anche il corpo accasciato di Cristo
– nella Deposizione di Caravaggio al Vaticano, la pagina
di apertura de Los Desastres de la guerra di Goya, intitolata
efficacemente Tristes Presentimientos. Chi, vedendo immagini
come quelle di Tyler Hicks – e ce ne sono molte altre dello stesso
genere che negli ultimi anni arrivano dalla Bosnia, dall’Iraq, dal
Libano e da altre parti –, non penserebbe subito a una gran quantità
di esempi simili? Il fatto stesso che ne saltino davvero fuori così
tanti, e che ci vengano in mente, è la prova inconfutabile che
certe classi di gesti, di tipi specifici di movimenti fisici, hanno una
peculiare efficacia di penetrazione. Un altro esempio – per prenderne
uno tra i molti possibili della storia dell’arte, ripetuti oggi
nelle immagini moderne di dolore e atrocità – è il
gesto di asciugarsi le lacrime dagli occhi con il dorso della mano, come
viene dipinto da Giotto in modo così commovente sopra la Lamentazione
nella Cappella degli Scrovegni, e che Claus Sluter ha scolpito sotto la
Crocifissione sopra il suo grande Pozzo di Mosè
a Digione. Tutti questi movimenti, azioni e gesti, toccano profondamente
le nostre corde più intime, e ora possiamo essere più chiari
su quanto andiamo dicendo.
Non si tratta solo dell’attivazione cognitiva delle aree corticali
deputate alla memoria, del fatto che le nostre risposte alla fotografia
di Tylor Hicks sono in qualche modo determinate dal nostro ricordo di
immagini simili, o di un repertorio visivo di forme. Le nostre risposte
sono più elementari di così: meno cognitive, potremmo dire,
più inconsce. Riguardano l’attività di aree del cervello
deputate all’imitazione di specifiche forme del movimento altrui.
Oggi è possibile descrivere le basi neuronali proprio di questa
forma di stimolazione. Si può smettere di considerare il tema dell’empatia
come un problema di sentimentalismo o come l’intuizione di chi se
ne sta comodamente seduto in poltrona, mostrando invece che l’empatia
è determinata da una forma particolarmente evidente della rappresentazione
corticale di azioni, molto probabilmente fino al singolo livello neuronale.
[…]
Negli ultimi dodici anni circa si è lavorato molto bene agli aspetti
cognitivi delle risposte affettive a immagini sia piacevoli che spiacevoli.
Gruppi di lavoro guidati da ricercatori come Peter Lang (uno dei pionieri
nello studio delle reazioni emotive alle immagini) e Richard Davidson
hanno svolto una serie di esperimenti che tengono conto dell’importanza
dell’ammiccamento dell’occhio e delle risposte alle immagini
dei muscoli corrugatori e zigomatici, mentre misurazioni relativamente
semplici della frequenza cardiaca e della resistenza cutanea possono essere
ottenute per le reazioni dei visceri. Il metodo di imaging prescelto
ora è chiaramente la fMRI, ma sono state fatte anche misurazioni
PET del flusso sanguigno nelle regioni cerebrali (rCBF) in caso di stimoli
visivi – come anche uditivi e olfattivi – sia piacevoli che
spiacevoli.
A questa serie di lavori sulle reazione negative oggi si può aggiungere
la quantità davvero considerevole di ricerche recenti sulla amigdala
e sul suo ruolo, in particolare nella neurofisiologia delle risposte di
paura come anche in molte altre reazioni emotive. Gli esempi citati più
di frequente sono quelli di risposte di paura di fronte ai serpenti, ma
è chiaro che sono assimilabili alle risposte della amigdala a facce
o maschere minacciose, ad animali che abbaiano o che, soprattutto, mostrano
i denti. Qui nuove conoscenze del cervello possono perfezionare utilmente
vecchie teorie sulle risposte evolutive e biologiche a segnali di paura.
In altre parole, la neurofisiologia dell’istinto di autoconservazione
si sovrappone a quella delle emozioni, come è stato a lungo sospettato
(e come si può capire intuitivamente nel caso, poniamo, di alcuni
generi di oggetti apotropaici). Ma questa è un’altra questione.
[…] Come per il volto, così accade anche per il corpo, e
in modo forse ancor più significativo. Recentemente degli scienziati
del MIT e dell’Università di Wales hanno identificato un
sistema neurale specializzato per la percezione visiva del corpo umano,
e appunto del corpo umano in modo specifico. Questa area deputata al corpo,
che hanno giustamente chiamato extrastriate body area (EBA),
è situata nell’emisfero destro al confine tra lobo occipitale
e temporale. L’aspetto rilevante di questo lavoro è che mostra
come, quando dei soggetti vedono fotografie statiche di corpi umani fermi
e di parti di corpi, si produca una risposta significativamente più
forte nella EBA rispetto a quando gli stessi soggetti vedono altri oggetti
inanimati e parti di oggetti e, significativamente, rispetto a quando
vedono parti del corpo di altri animali.
L’identificazione dell’EBA non dovrebbe però suscitare
obiezioni fondate sul fatto che descrivere in modo particolareggiato l’impianto
del cervello e la sua geografia contrasta con le influenze storiche e
del contesto ambientale. Questo argomento è un fuoco fatuo. Insistere
su somiglianze di base non significa escludere sintomatologie diverse,
o addirittura modulazioni individuali del sentimento. In realtà,
si deve ancora capire se quest’area, come anche l’area facciale
fusiforme e l’area che è stata identificata di recente come
la parahippocampal place area (PPA) – un altro argomento
di rilevanza eccezionale per la teoria della risposta alle immagini –,
sia inscritta per lo più nel genoma, o se invece derivi principalmente
dall’esperienza che un individuo ha di volti, luoghi e corpi lungo
tutto il corso della sua vita. Non si tratta semplicemente di opporre
l’impianto del cervello e la sua geografia all’influenza di
storia e contesto ambientale.
Tuttavia – per avvicinarsi al problema centrale di questo articolo
– come sarebbe possibile descrivere in modo più rigoroso
e meno intuitivo le modalità secondo cui si svolge la nostra imitazione
interna di movimento e azione, e il modo in cui ciò può
risolversi in un’emozione? Ormai da qualche tempo abbiamo una succinta
ma importante letteratura scientifica su questo fenomeno conosciuto come
facilitazione della risposta, che è la tendenza automatica
di noi tutti a riprodurre un movimento osservato, comprendendolo o meno
– come è il caso del ben noto lavoro di Meltzoff e Moore
sui movimenti imitativi delle mani e della bocca dei bambini. A riguardo,
oggi è possibile essere molto più precisi. […]
Nei suoi studi ricchi e affascinanti sulla neuroscienza delle emozioni
Damasio ha tentato di affrontare il problema del modo in cui, in termini
neurali, potrebbe essere possibile spiegare il nostro coinvolgimento fisico
con immagini di cose (non solo di corpi in movimento), e valutare le conseguenze
emotive di tale coinvolgimento. L’opinione di Damasio è che
sia impossibile separare l’emozione dal corpo, o le risposte emotive
alle immagini dal modo in cui vi siamo fisicamente coinvolti. Egli si
è spinto fino a insistere sul fatto che non è assolutamente
possibile avere o sentire un’emozione senza avere una sensazione
del proprio corpo e senza essere fisicamente coinvolti con ciò
che osserviamo. […]
In particolar modo, sembra sia l’insula anteriore a giocare un ruolo
cruciale traducendo le informazioni sugli stati corporei in tutta una
varietà di emozioni differenti. Altrettanto cruciale per la comprensione
del nostro coinvolgimento fisico con le immagini, e del sentimento imitativo
per le attività di altri corpi, è l’affermazione di
Damasio secondo la quale i risultati di una simulazione diretta di stati
corporei in regioni somatosensitive (il “circuito del corpo”)
non sono diversi da quelli del filtraggio di segnali che provengano dal
corpo stesso. In entrambi i casi il cervello crea da un momento all’altro
una serie di mappe del corpo che non corrispondono esattamente alla realtà
del corpo in quel momento. Ciò che sentiamo si basa su una costruzione
“falsa”, non sulla costruzione “reale” del corpo.
Questo, naturalmente, accade dove entra in gioco il “circuito ‘come
sé”. In ogni caso, oggi sappiamo in modo molto più
preciso come tutto ciò accada, in gran parte grazie al lavoro di
Giacomo Rizzolatti e dei suoi colleghi di Parma. Ora occorre che la nozione
di risposta come se divenga centrale in ogni studio che tratti
qualsiasi forma del nostro coinvolgimento con immagini e sculture, il
che in effetti significa ogni forma di rappresentazione visiva. Circa
diciassette anni fa, Rizzolatti e i suoi collaboratori hanno scoperto
un particolare gruppo di neuroni visuomotori nella porzione rostrale della
corteccia ventrale premotrice dei macachi, area F5. Alcuni di questi rispondono
per lo più per taglia e forma a quelli che Rizzolatti ha chiamato
“neuroni canonici”, ma quelli che soprattutto ci interessano
qui sono quelli che ha chiamato “neuroni specchio”, che scaricano
sia quando la scimmia osserva un’azione sia quando la esegue. In
altre parole, quando questo sistema viene attivato, osservare un’azione
– e in particolar modo un’azione orientata a uno scopo –
conduce ad attivare proprio le stesse parti della rete neurale nella corteccia
premotrice che è attiva durante la sua esecuzione. La congruenza
tra le risposte visive e motorie di questi neuroni suggerisce il fatto
che ogni volta in cui un’azione viene osservata si attivano i circuiti
motori dell’osservatore. Si è poi scoperto che questi stessi
neuroni si attivano anche quando la scimmia osserva un’azione senza
però imitarla realmente.
È difficile sopravvalutare le conseguenze di queste scoperte per
la teoria dell’empatia. Ora si possono iniziare a capire le basi
dell’empatia fisica che si ha nei confronti di un’immagine
– e quindi nei confronti delle emozioni rappresentate in un’immagine
– perfino al livello del singolo neurone. Dal momento che ormai
è stato scoperto il sistema dei neuroni specchio anche nell’uomo,
per lo più nella porzione rostrale del lobulo parietale inferiore
(proprio l’area cruciale PF), nella porzione caudale (pars opercularis)
del giro frontale inferiore e, naturalmente, nella parte adiacente della
corteccia premotrice, una regione che coincide con l’area di Broca.
Questo induce ad avanzare alcune ipotesi per quanto riguarda la natura
del linguaggio per immagini (come anche dell’immaginario evocato
dal linguaggio) che non può essere affrontata qui. Ad ogni modo,
come nel caso dell’area F5 delle scimmie, ciò che accade
quando questo sistema si attiva è che quando noi osserviamo le
azioni di individui o quelle raffigurate in immagini, le loro rappresentazioni
motrici sono automaticamente riportate nelle stesse parti del cervello
in cui le riportiamo quando le eseguiamo realmente. Secondo quanto Gallese,
Keysers e Rizzolatti hanno sostenuto ultimamente, questi meccanismi specchio
“ci consentono di comprendere direttamente il significato delle
azioni e delle emozioni altrui replicandole internamente o ‘simulandole’
senza alcuna esplicita mediazione riflessiva” (Gallese et al., 2004,
p. 396). Enfatizzano così il fatto che il ragionamento concettuale
non è necessario per questa forma di comprensione delle azioni.
[…]
Nell’uomo l’attivazione si verifica mentre si osservano azioni
tanto intransitive quanto mimate, e nei muscoli dell’osservatore
si registrano potenziali motori sia quando si osservano gesti della mano
o del braccio apparentemente senza senso, sia quando si osserva un’azione
transitiva. Tutto ciò ha conseguenze fondamentali tanto per le
risposte estetiche quanto per quelle empatiche: il fatto che le azioni
rappresentate in immagini vengano portate a termine a livello immaginativo
può essere compreso come risultato dell’automatismo della
nostra risposta corporea simulata. […]
Chiunque sia interessato all’efficacia delle immagini vedrà
senz’altro la rilevanza della serie di scoperte avanzate da Baldissera
e dai suoi collaboratori, che descrivono il meccanismo, operante al livello
del midollo spinale, che impedisce di eseguire realmente azioni viste,
lasciando in tal modo il meccanismo corticale qui descritto libero di
“ri-produrre” i movimenti osservati senza rischiare di produrre
davvero un movimento. Da questo dovrebbe essere anche possibile comprendere
più adeguatamente il fenomeno del gating per cui, qualunque
sia la risposta emotiva a un’immagine in una galleria, questa viene
soppiantata quasi istantaneamente da una risposta estetica più
distaccata, una risposta normalmente – e giustamente – considerata
come interamente cognitiva. Scoperte simili, credo, devono assolutamente
essere messe in relazione ai modi in cui valutiamo l’abilità
con cui un artista impegna l’attenzione dell’osservatore.
[…]
Ora che sappiamo di comprendere le azioni altrui grazie al fatto che attiviamo
in noi stessi delle rappresentazioni neurali di tali azioni, questo principio
viene ad applicarsi a molte altre aree direttamente correlate al problema
dell’empatia: tatto, disgusto, compassione in special modo e, ed
è forse l’area più importante, la rappresentazione
neurale della percezione del dolore. Il problema sorge rispetto al modo
in cui si parla di attività specchio, che opera in un contesto
più evidentemente sensoriale. L’esperienza di un tatto empatico
di un tipo o dell’altro è piuttosto comune, per esempio il
ragno che cammina sul petto di James Bond, la sensazione del dito nel
fianco di Cristo nell’Incredulità di San Tommaso
di Caravaggio o il chiodo piantato nella sua mano nell’Altare di
Isenheim di Grünewald. Altrettanto comuni sono le sensazioni di formicolio,
di pizzicore o di tremore che si hanno vedendo il corpo di un’altra
persona affetto in questo modo, in immagini come queste o nei film. Un
altro recente articolo pubblicato dal gruppo di Parma ha dimostrato che
sarebbe sbagliato intendere casi di questo genere come se si trattasse
di stimoli visivi seguiti da una deduzione cognitiva del loro significato.
Piuttosto, la visione di un’altra persona che viene toccata attiva
automaticamente la rete corticale di regioni che di norma vengono coinvolte
nell’esperienza che noi stessi abbiamo dell’essere toccati.
Gli esperimenti con fMRI hanno mostrato che quando le persone vedono altri
individui che vengono toccati, si attiva la stessa parte della corteccia
somatosensitiva secondaria (la cosiddetta area SII–PV) che si attiva
quando sono loro stesse a essere toccate. […]
Quello che sto proponendo, quindi, è un modello di empatia non
dissimile da quello integrato proposto recentemente da Preston e De Waal
per le emozioni. A loro avviso, innanzitutto, il punto è proprio
che l’osservazione o l’immaginazione di un’altra persona
in uno stato emotivo particolare attivano automaticamente una rappresentazione
di questo stato nell’osservatore con le sue risposte associate,
automatiche e somatiche. Ciò che io, da parte mia, ho suggerito
qui con una qualche ovvietà, è che occorre riconoscere il
bisogno di includere in questo modello risposte corporee che siano motorie,
tattili o di qualsiasi altro tipo sensoriale. […]
[…] Mentre è probabile che le nostre distinzioni tra arte
e non-arte siano puramente cognitive e strettamente culturali, le nuove
scoperte relative ai sistemi neurali che sono alla base delle risposte
empatiche a ciò che vediamo nelle immagini, anche se non ci aiutano
granché a distinguere tra le due, permettono di conoscere a fondo
i modi in cui gli artisti hanno inconsciamente sfruttato i tipi di conoscenza
che ho provato a esporre in questo articolo.
Questa può essere una strada non ancora battuta per comprendere
alcune delle basi neurali di ciò che scegliamo di chiamare arte.
Questo compito deve però essere lasciato ad altri. Personalmente,
trovo la categoria “arte” troppo debole, troppo elusiva, qualche
volta troppo enfatica. In queste pagine mi sono proposto innanzitutto
di chiarire il ruolo giocato dalle nostre percezioni del movimento e delle
azioni altrui in quell’ampia gamma di risposte alle immagini che
descriviamo come empatiche. Ho poi cercato di comprendere cosa ci spinga
ad azioni apparentemente imitative che sembrano stare alla radice di ogni
forma di empatia. Soprattutto, ho tentato di dar conto del modo in cui
comprendiamo il dolore altrui, e in particolare di chi è rappresentato
in immagini e sculture.
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