Bill Viola, Christian Nold, Yves Netzhammer
Teresa Margolles, Valerio Magrelli, William Kentridge
Katharina Grosse, Andrea Ferrara, Elisa Biagini
Maurice Benayoun, Antonella Anedda
 
   
  Pubblicazione
Prefazione di James M. Bradburne
Sistemi Emotivi di Franziska Nori
   
 

"Che cosa sono i sentimenti" Antonio Damasio
"Emozione, razionalità e arte" Ronald de Sousa
"Empatia, movimento ed emozione" David Freedberg
"Le emozioni"
Peter Goldie
"Il cervello emotivo" Joseph LeDoux
"Fatti che possono accadere" Martha Nussbaum
"La teoria degli “emotives”: una sinossi" William M. Reddy

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  Il contributo qui proposto rappresenta un’importante testimonianza di come la storia dell’arte, grazie a una nuova attenzione verso gli orizzonti della neurologia, possa dimostrarsi insolitamente impegnata in un’analisi delle “risposte” emotive (empatia, movimento) delle immagini e delle opere d’arte da parte degli spettatori, in un senso non solo sociale e contestuale, ma anche genetico, evoluzionistico e fisiologico.
   
  Empatia, movimento ed emozione
David Freedberg
   
 

Per molti anni ho avanzato tre proposte, rivolgendomi in particolare ai colleghi storici dell’arte, e in generale agli studiosi delle scienze umane. Nella prima sostenevo che dovrebbe essere possibile tracciare alcune connessioni tra il modo in cui le immagini appaiono e quello in cui gli spettatori rispondono loro sul piano delle emozioni e dei sentimenti, e sostenevo che tutto questo dovrebbe essere neuroscientificamente dimostrabile. Già nel 1987 invitai a prendere in considerazione la neurofisiologia delle risposte visive e psicologiche a forme precise, volendo sostenere che ciò poteva comportare l’assunzione di certe invarianze e ricorrenze biologiche e psicologiche che valgono attraverso epoche e culture. Tutto questo contrastava tuttavia con le tendenze in voga soprattutto negli anni ottanta e novanta, sia della storia dell’arte che più genericamente dello studio delle scienze umane. Una tale proposta è stata invece accolta come del tutto banale da quei neuroscienziati che, da qualche tempo ormai, sono impegnati a definire lo specifico lavoro del cervello nella creazione delle, e nella risposta alle, opere d’arte. Il mio invito ha continuato comunque a cadere nel vuoto, nonostante siano ormai sempre più numerose le prove a sostegno del fatto che le risposte sono determinate geneticamente ed evoluzionisticamente. La resistenza a ogni tipo di approccio che minacci l’orientamento contestuale delle scienze umane rimane infatti molto alta. Nelle scienze umane continua a prevalere il modello standard delle scienze sociali. Il modo predominante di studiare la storia dell’arte rimane quello della storia sociale dell’arte. Approcci diversi continuano a essere censurati, come se storia sociale e biologia fossero condannate a essere in eterno contrasto l’una con l’altra.
La mia seconda proposta era che si potessero davvero classificare le emozioni travalicando confini culturali e contesti, proprio come sostiene Ekman nei suoi lavori su questo argomento. Tuttavia, la posizione comune nelle scienze umane, salvo la recente eccezione di pochi filosofi, è che le emozioni siano troppo approssimative e troppo caratterizzate da elementi personali, culturali e storici per poter essere definite in termini transculturali. Ho suggerito più e più volte che, per quanto alcune risposte possano risultare culturalmente variabili o possano essere determinate dal contesto, le emozioni dipendono da meccanismi innati. Tuttavia, l’idea che alcune risposte alle opere d’arte possano essere automatiche o possano dipendere direttamente dalla struttura, dalla fisiologia o dalla chimica del cervello sembra restare ancora difficile da accettare. […] La mia terza proposta, che ha incontrato meno resistenza a causa del fascino per “il corpo”, è che risulta impossibile concepire le emozioni separatamente dal corpo, e in modo particolare separatamente dal suo movimento, come Darwin e James hanno già messo in evidenza, e come tutti sapevano a partire da Della Porta passando per autori come Le Brun e Marin Cureau de La Chambre. È probabilmente proprio questo nesso intimo tra corpo ed emozione ad essere stato così a lungo la ragione della scarsa attrattiva esercitata dalle emozioni, dal momento che il corpo restava un ostacolo a piaceri che si presupporrebbero incorporei, il che, a ripensarci, è contrario al buon senso.

Per gran parte del ventesimo secolo le emozioni sono state escluse dalla storia e dalla filosofia dell’arte. Al giorno d’oggi, tanto gli storici dell’arte più tradizionalisti quanto quelli con inclinazioni filosofiche ammettono che, se anche può essere vero che le immagini stimolano emozioni e desideri, questo non è ciò di cui dovrebbe occuparsi la storia dell’arte, dato che le emozioni sono troppo personali e troppo casuali per essere discusse nel nostro incontaminato campo di ricerca. D’altra parte, quando visitano una galleria d’arte, gli storici dell’arte e gli estetologi pretendono per lo più di sapere che un quadro è solo un quadro, una scultura solo una scultura, e che non si risponde a un’opera come se fosse reale. Oppure, essi potrebbero anche proporre una modifica a questa asserzione, e dire che non si risponde realmente a un’opera come se fosse reale – e che forse non si dovrebbe farlo.
Il libro di R. G. Collingwood del 1938, The Principles of Art, spesso ammirato, proponeva senza mezzi termini un punto di vista secondo il quale l’arte non dovrebbe occuparsi affatto di suscitare emozioni. A suo parere, i veri artisti non si sforzano di produrre effetti emotivi nello spettatore, lettore o ascoltatore che sia. Questo genere di cose, a suo dire, sarebbe meglio venisse lasciato a chi lavora nello spettacolo e ai maghi (da non confondere con i veri artisti!). Egli deplorava inoltre quei “numerosi casi in cui qualcuno, arrogandosi il titolo di artista, si mette deliberatamente a eccitare certi stati mentali nel suo pubblico” (Collingwood, 1938, p. 31). Collingwood dimenticava il caso di Nicolas Poussin, che si propose in modo piuttosto esplicito di fare proprio questo quando, nel 1647, scrisse al suo mecenate Chantelou che la composizione in pittura, come in musica, dovrebbe essere tale da stimolare l’anima di coloro che vi assistono, indirizzandola verso passioni diverse: “Induire l’âme des regardants à diverses passions”. Collingwood era però un signore inglese che, quindi, stando al cliché nazionale, non sapeva esprimere pienamente sentimenti ed emozioni.
Sebbene nella seconda metà del diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo la teoria dell’arte tedesca si sforzasse di occuparsi a fondo del problema delle risposte emotive all’arte, la sua rilevanza per le concezioni moderne dell’emozione è stata quasi totalmente trascurata dai grandi studiosi tedeschi che hanno dominato la storia dell’arte del ventesimo secolo. Per la maggior parte si trattava di puri razionalisti che temevano superstizione ed emozione. Le emozioni erano ritenute troppo occasionali, troppo imbarazzanti, troppo accidentali per il valore trascendentale dell’arte. Le tre tendenze che hanno dominato la storia dell’arte del ventesimo secolo hanno finito per essere formalismo, connoisseurship e studi dei diversi tipi di contesto in cui l’opera è stata realizzata: tutte escludono le emozioni. Invece di cercare di scoprire le relazioni tra gli aspetti formali di un’opera e gli specifici sforzi psichici che ne scaturiscono, il formalismo è rimasto inerte, e sia quest’ultimo sia la connoisseurship sono stati sprezzantemente appiattiti l’uno sull’altro, o interamente rimpiazzati dagli studi del contesto che dagli anni Sessanta in poi hanno rappresentato il paradigma principale per la ricerca storico-artistica. Quando qualche tempo fa ho reso noto che stavo progettando un libro che si doveva intitolare Mind, Body and Emotion in the History of Art, tanto i colleghi progressisti quanto quelli conservatori hanno previsto per questo progetto un fallimento sicuro.
Oggi più che mai sembra legittimo indagare le relazioni tra gli aspetti formali di un’immagine e le risposte emotive, sia positive che negative, che possono stimola- re, e vedere che cosa è passibile di essere codificato o messo in correlazione. Sorprendentemente, questa idea ha però suscitato scarso interesse. Si potrebbe pensare che lasciare le emozioni fuori dal campo artistico significhi devitalizzare l’arte; certo, la storia dell’arte doveva innanzitutto essere resa una disciplina accademica e perciò non-emotiva. È significativo che Arte e illusione di E. H. Gombrich – forse il tentativo più profondo che sia mai stato fatto di far convergere arte e psicologia scientifica –, faccia rari riferimenti alle emozioni e non menzioni affatto la tradizione tedesca che al contrario vi si riferì, collegando fisicità ed emozione.
Nonostante io abbia affrontato alcune di queste questioni nel mio lavoro sull’iconoclastia e poi ne Il potere delle immagini, ciò che mi interessava erano i sintomi e non le spiegazioni. In quella sede il mio obiettivo non era né l’aspetto neuroscientifico né nulla che fosse implicato dagli approcci della psicologia cognitiva, allora molto più distinta dalle neuroscienze rispetto ad oggi. È stato solo con il lavoro di neuroscienziati come Antonio Damasio, Joseph LeDoux, Giacomo Rizzolatti e il suo gruppo di Parma che si è ottenuta una qualche conferma che la strada intrapresa era quella giusta. Prima di loro, il solo pensatore ad aver visto il problema con chiarezza – sebbene con ambizioni teoretiche molto diverse – è stato Nelson Goodman. Ne I linguaggi dell’arte Goodman ha attaccato ciò che chiama “dispotica dicotomia fra cognitivo ed emotivo”. “Da una parte”, ha scritto con il suo solito stile mordace, “mettiamo sensazione, percezione, inferenza, congettura, ogni ricerca e investigazione inerte, fatto e verità; dall’altra parte, piacere, pena, interesse, soddisfazione, disappunto, ogni risposta affettiva senza la partecipazione del cervello, apprezzamento e disgusto. Ciò impedisce precisamente di scorgere che nell’esperienza estetica le emozioni funzionano cognitivamente” (Goodman, 1968, p. 213). Abbiamo qui un autore che Antonio Damasio, con il suo progetto di combinare ragione ed emozione, avrebbe potuto citare con profitto.
In anni più recenti, pochissimi storici e teorici dell’arte hanno iniziato a considerare seriamente le emozioni, tra questi James Elkins. Tuttavia, né il suo Pictures of the Body, Pain and Metamorphosis, ricco delle illustrazioni più orribili e opprimenti, né il suo Pictures and Tears: How a painting can make you cry, che descrive un ampio numero di risposte decisamente emotive alle immagini, accennano minimamente al cervello o alle neuroscienze. Tali libri sono tutti relativi alle emozioni e alle emozioni generate da immagini; tuttavia non offrono alcuna spiegazione sulla modalità con la quale sorgono, né propongono una seppur vaga ipotesi relativa al fatto che talvolta esse sono collegate in qualche modo a coinvolgimenti corporei, né, infine, dicono da dove arrivino, o quale possa essere la connessione tra l’espressione di un’immagine e la risposta emotiva che essa provoca. Nella “Prefazione” a Pictures of the Body Elkins osserva in modo tagliente che “poiché il corpo introduce il pensiero, è possibile non avere alcuna cognizione di aspetti importanti delle mie risposte all’immagine di un corpo” (Elkins, 1999, p. VII). Egli segnalava così, in termini leggermente diversi, uno dei punti fondamentali del presente articolo, e cioè che il modo in cui il corpo tratta l’informazione visiva che riceve attraverso il cervello può essere in molti casi precognitivo. Inoltre, in nessuno dei due testi Elkins mostra di avere una qualche consapevolezza del notevole lavoro svolto in questo vasto campo in cui, nelle ricerche di scienziati che vanno da Maffei, Zeki ed Ekman a LeDoux, Adolphs, Damasio, Dolan e molti altri, la relazione tra arte, emozione e cervello è stata finalmente accettata come un soggetto degno di studio.

Nelle pagine che seguono mi concentrerò su alcuni lavori neuroscientifici rilevanti per l’antica questione delle relazioni tra movimento ed emozione. Così facendo, accennerò a questioni relative non solo ai comportamenti apparentemente automatici (e da qui ai loro correlati cerebrali), ma anche alla complessa questione del comportamento simulato e delle simulazioni che sono sentite piuttosto che espresse attraverso il comportamento. In altre parole, mi occuperò del significato del fatto che si reagisce come se si stessero avendo comportamenti fisici, senza però che tali comportamenti abbiano effettivamente luogo. Questa forma di reazione mi sembra particolarmente rilevante per i modi in cui rispondiamo non solo ad altri esseri viventi, ma anche a immagini e sculture. Mi allontanerò perciò dai tipi di comportamento emotivo viscerale e orientato all’esterno descritti dettagliatamente ne Il potere delle immagini, spostandomi piuttosto verso la loro espressione interna, mentale, verso i loro correlati neurali. Anche se si è lavorato molto alle basi ormonali di tali espressioni interne, non le discuterò qui, e mi concentrerò invece per lo più sul recente lavoro relativo all’identificazione di specifiche aree corticali responsabili sia delle nostre azioni motorie che delle nostre azioni motorie simulate, e cioè sul problema dell’attivazione di parti del cervello responsabili delle nostre azioni motorie anche quando non le eseguiamo realmente. Da tutti questi punti di vista, le vecchie questioni delle relazioni tra movimento interno ed esterno, e tra movimento ed emozione, vengono decisamente in primo piano. Tali questioni, come è naturale, sono strate trattate di continuo nella storia dell’arte, a partire dalla famosa controversia sul significato della frase di Rembrandt “die meeste en de naetuereelste beweechgelickheit” nella sua lettera del 1639 a Constantijn Huygens fino alla dissertazione di Aby Warburg su Botticelli del 1893 e alla sua nozione di Pathosformel, passando per gli scritti di Robert Vischer, Hermann Lotze e altri. Ci dichiareremo soddisfatti quando avremo scoperto, se non la soluzione neuroscientifica ad alcune vecchie intuizioni, ipotesi e teorie, almeno una soluzione più raffinata.
Come un’immagine o una scultura impegnano il corpo, e quali sono le risposte emotive che possono seguirne? Oggi è possibile essere più precisi di quanto non si sia mai stati finora sulle relazioni e le correlazioni tra risposte corporee ed emotive.

Nel 1936–37 Virginia Woolf descrisse le sue reazioni ad alcune terribili fotografie della Guerra civile spagnola. “Tra quelle arrivate stamani ce n’è una in cui si vede il corpo di un uomo, o forse di una donna, non si capisce bene; è così mutilato che potrebbe benissimo essere anche il corpo di un maiale. Ma non c’è dubbio che quelli laggiù sono corpi di bambini morti, e quella è la sezione di una casa spaccata a metà da una bomba; in quello che doveva essere il salotto sta ancora appesa la gabbia degli uccelli” (Woolf, 1938, p. 30).
Non appena leggiamo queste righe ci è impossibile non pensare alle migliaia di fotografie arrivate quasi giorno per giorno dalle zone di guerra in Bosnia, Israele, Iraq. Woolf non aveva assolutamente nessun dubbio circa il disgusto universale e l’orrore che a suo avviso queste immagini dovevano provocare. “Per diverse che siano la nostra educazione e le nostre tradizioni”, insiste, “le sensazioni che proviamo sono identiche” (Woolf, 1938, p. 30).
Nel 2003 Susan Sontag ha preso posizione contro Woolf nel suo libro sulla fotografia di guerra intitolato Davanti al dolore degli altri, non apprezzando i presupposti che sottostanno a quel “nostro” e a quel “noi”. Riteneva che fosse sbagliato suggerire che delle fotografie, per quanto scioccanti, possano offrire in qualche modo un minimo comun denominatore per opporsi alla guerra, e che in ogni caso “noi” non potremmo mai soffrire così tanto come le persone mostrate in fotografia, o fare esperienza di ciò che quelle fotografie mostravano. Tutto ciò è banalmente vero, ma non coglie il punto. “Non soffrire a causa di queste immagini”, continua la Sontag, “non indietreggiare inorriditi dinanzi ad esse, non sforzarsi di abolire ciò che provoca una simile devastazione, una simile carneficina – queste sarebbero, in termini morali, le reazioni di un mostro, dice Woolf. E, lascia intendere, non siamo mostri, noi membri della classe colta. A mancarci è l’immaginazione, l’empatia: non siamo riusciti a fare nostra questa realtà” (Sontag, 2003, p. 7).
Ciò che va esaminato è il nucleo di entrambi gli argomenti, di Woolf e di Sontag, e non le conclusioni che esse ne ricavano, con le quali sarebbe impossibile non essere d’accordo. In realtà, Sontag e Woolf concordano sugli effetti immediati delle fotografie di guerra e sofferenza. Sono immagini che provocano orrore e disgusto. Ne restiamo addolorati e indietreggiamo di fronte a esse. E “noi” possiamo difficilmente sopportare di guardarle, non solo per l’ovvia indignazione politica e morale che esse provocano, ma perché coinvolgono livelli di risposta più elementari, più viscerali, più immediati e automatici. Sontag suggerisce che se non veniamo raggiunti dallo shock di queste immagini, è per una mancanza di immaginazione e di ciò che lei chiama empatia, usando questa parola nel senso comune di profonda simpatia per coloro che appaiono sofferenti. È la sensazione che lo spettatore ha spesso sentendo di poter partecipare in qualche modo e in un certo grado alla sofferenza degli altri. Sontag però non definisce affatto questo termine, e per altro non suggerisce che possa essere suscettibile di una definizione più puntuale. E invece lo è, secondo percorsi che ci avvicinano ad alcuni dei modi fondamentali in cui gli esseri umani si rapportano alle immagini che vedono.
Il leitmotiv della discussione di Sontag è la famosa fotografia del 1937 di Robert Capa in cui un soldato repubblicano cade all’indietro – o di lato? – nell’istante preciso in cui è colpito da un proiettile nemico. Guardando quest’immagine, granulosa com’è, la fenomenologia dell’impegno che prendiamo con essa sembra relativamente chiara. In qualche modo – tornerò presto su quale sia questo “modo” – sentiamo nei nostri stessi corpi la precisa instabilità di quell’uomo che cade. Ci sembra di essere noi a cadere, in disequilibrio e, ancor di più, provando invano a tenerci diritti. È quasi come se dovessimo trattenerci dal gettare il nostro braccio all’indietro, come se anche noi stessimo per perdere quella pistola che stavamo trattenendo fino a un attimo prima. Anche questi “come se” saranno presto oggetto di discussione. La totale precarietà della condizione fisica di quell’uomo sembra venire proiettata su di noi per un istante, o forse sarebbe meglio dire che diventa parte delle nostre stesse sensazioni fisiche. È quasi un sollievo renderci conto di essere ancora seduti – “normalmente”, verrebbe da dire, ma in qualche modo per nulla “normalmente” – quando guardiamo questa immagine. Ci sembra di sentire sulla nostra pelle (come si dice, ma forse nella nostra testa, come vedremo) che siamo coinvolti da questa immagine. I nostri corpi le rispondono come se quel corpo fosse in qualche modo il nostro. Per un istante siamo rimasti con una lieve sensazione di ansia e disperazione. Il coinvolgimento fisico con un’immagine come questa, l’empatia fisica, si traduce molto rapidamente in emozione. È giunto il momento di rivalutare la tradizione della teoria dell’empatia così diffusa nella teoria dell’arte nella Germania della seconda metà del diciannovesimo secolo. Non si tratta solo di un semplice interesse epistemologico. Per molti anni si è rivolta scarsa attenzione all’idea secondo la quale il coinvolgimento che sentiamo a livello corporeo per un quadro o con una scultura, o anche in architettura, consente risposte empatiche sia fisiche che emotive. Solo di recente, con la pubblicazione dell’utile antologia di Mallgrave e Ikonomou in cui sono raccolti scritti che si occupano in gran parte di teoria dell’empatia, si è avuta una seria ripresa di interesse per l’argomento.
In Sul sentimento ottico della forma del 1873, Robert Vischer distingueva tra sensazione e sentimento in termini che anticipano le recenti distinzioni neuroscientifiche tra emozioni e sentimenti consci. Essendo a un livello più basso nel processo percettivo, le sensazioni sono più intuitive e precedono il sentimento conscio – che a sua volta precede il nostro sentimento empatico rispetto alla forma degli oggetti –. Per Vischer ciascuno di questi stadi riguarda ciò che egli chiama la stimolazione della “funzione neuro-motoria” (Vischer, 1966, p. 50 [N. d. t.]) e la relazione tra la forma dell’oggetto e la nostra propria forma corporea. È da lui che Warburg ha ricavato la nozione di ciò che entrambi hanno chiamato Einfühlung, ma che per Warburg era generato dalla mobilità della figura (in quadri come quelli di Botticelli e Ghirlandaio), e in Vischer era caratterizzato come “fisiognomico”. Poco prima di Vischer, Hermann Lotze aveva sviluppato l’idea secondo cui noi tendiamo a insufflare in ogni impressione visiva un contenuto emotivo, specificamente a causa della nostra corporeità o della nostra esperienza fisica. Heinrich Wölfflin riprese poi la teoria dell’empatia facendo riferimento all’architettura, facendo dipendere il concetto cruciale di Pathosformel, proposto da Aby Warburg, dalle relazioni tra movimento corporeo ed espressione dell’emozione – un problema leggermente diverso. Circa nello stesso periodo William James analizzò la questione più generale delle relazioni tra azione corporea ed emozione, mentre al cuore di tutto il lavoro di Merleau-Ponty si trova una profonda attenzione per i modi in cui il corpo degli spettatori viene a essere coinvolto nelle opere d’arte, e in particolare per il problema del movimento percepito nell’ambito della risposta corporea.
Ma per prima cosa: quando guardiamo, per esempio, la fotografia straziante che nel 2001 Tyler Hicks ha scattato a tre donne irachene che si dolevano con tutto il loro corpo al cospetto dei corpi scomposti e privi di vita delle loro figlie, ci sembra di simulare, o essere inclini a simulare, ciascuno dei movimenti all’interno della scena. Le nostre bocche si aprono in una qualche forma di dolore che corrisponde al loro, e istintivamente sembriamo voler spalancare per lo strazio le nostre braccia quasi nello stesso modo in cui lo fa la madre. Poi, non appena i nostri occhi sorvolano la superficie dell’immagine, possiamo ben sentire una sorta di cedimento all’interno dei nostri corpi, come a imitare la prostrazione scomposta della bambina morta (è quasi la stessa sensazione di cedimento intensamente empatico provocata dalla famosa fotografia del 1968 di Don McCullin del corpo riverso a terra di un soldato nordvietnamita). Quanto facilmente sentiamo di comprendere il gesto della donna sullo sfondo, che stringe forte le mani al petto, o la disperazione del modo in cui la donna accanto a lei si scansa dal dolore!
Tutte queste figure servono a ricordare in modo incisivo l’importanza della nozione warburghiana di Pathosformel. Non solo è incontestabile che i gesti hanno l’aria di essere umanamente veri; di più: sappiamo immediatamente quanto spesso li abbiamo visti nell’arte – in particolar modo quello della madre che geme con le braccia spalancate dalla pena. Queste espressioni fisiche di dolore sono stereotipate ma pienamente convincenti, e fanno parte del repertorio corporeo delle espressioni emotive che troviamo in generazioni di scultori e pittori che non si limitano a copiare le opere altrui – come nel caso degli artisti rinascimentali che copiavano l’antichità –, ma che attingono a una conoscenza del corpo profonda e intuitiva che lega movimento ed emozione.
Gli esempi di questa combinazione tra la conoscenza intuitiva del corpo e le lunghe tradizioni di espressione emotiva che passa attraverso il corpo sono innumerevoli. Includono il San Giovanni di Giotto nella Lamentazione nella Cappella degli Scrovegni, l’indimenticabile gruppo di terracotta della Lamentazione di Niccolò dell’Arca in Santa Maria della Vita a Bologna, la Pietà di Rosso al Louvre, le braccia alzate di Maria – come anche il corpo accasciato di Cristo – nella Deposizione di Caravaggio al Vaticano, la pagina di apertura de Los Desastres de la guerra di Goya, intitolata efficacemente Tristes Presentimientos. Chi, vedendo immagini come quelle di Tyler Hicks – e ce ne sono molte altre dello stesso genere che negli ultimi anni arrivano dalla Bosnia, dall’Iraq, dal Libano e da altre parti –, non penserebbe subito a una gran quantità di esempi simili? Il fatto stesso che ne saltino davvero fuori così tanti, e che ci vengano in mente, è la prova inconfutabile che certe classi di gesti, di tipi specifici di movimenti fisici, hanno una peculiare efficacia di penetrazione. Un altro esempio – per prenderne uno tra i molti possibili della storia dell’arte, ripetuti oggi nelle immagini moderne di dolore e atrocità – è il gesto di asciugarsi le lacrime dagli occhi con il dorso della mano, come viene dipinto da Giotto in modo così commovente sopra la Lamentazione nella Cappella degli Scrovegni, e che Claus Sluter ha scolpito sotto la Crocifissione sopra il suo grande Pozzo di Mosè a Digione. Tutti questi movimenti, azioni e gesti, toccano profondamente le nostre corde più intime, e ora possiamo essere più chiari su quanto andiamo dicendo.
Non si tratta solo dell’attivazione cognitiva delle aree corticali deputate alla memoria, del fatto che le nostre risposte alla fotografia di Tylor Hicks sono in qualche modo determinate dal nostro ricordo di immagini simili, o di un repertorio visivo di forme. Le nostre risposte sono più elementari di così: meno cognitive, potremmo dire, più inconsce. Riguardano l’attività di aree del cervello deputate all’imitazione di specifiche forme del movimento altrui. Oggi è possibile descrivere le basi neuronali proprio di questa forma di stimolazione. Si può smettere di considerare il tema dell’empatia come un problema di sentimentalismo o come l’intuizione di chi se ne sta comodamente seduto in poltrona, mostrando invece che l’empatia è determinata da una forma particolarmente evidente della rappresentazione corticale di azioni, molto probabilmente fino al singolo livello neuronale. […]

Negli ultimi dodici anni circa si è lavorato molto bene agli aspetti cognitivi delle risposte affettive a immagini sia piacevoli che spiacevoli. Gruppi di lavoro guidati da ricercatori come Peter Lang (uno dei pionieri nello studio delle reazioni emotive alle immagini) e Richard Davidson hanno svolto una serie di esperimenti che tengono conto dell’importanza dell’ammiccamento dell’occhio e delle risposte alle immagini dei muscoli corrugatori e zigomatici, mentre misurazioni relativamente semplici della frequenza cardiaca e della resistenza cutanea possono essere ottenute per le reazioni dei visceri. Il metodo di imaging prescelto ora è chiaramente la fMRI, ma sono state fatte anche misurazioni PET del flusso sanguigno nelle regioni cerebrali (rCBF) in caso di stimoli visivi – come anche uditivi e olfattivi – sia piacevoli che spiacevoli.
A questa serie di lavori sulle reazione negative oggi si può aggiungere la quantità davvero considerevole di ricerche recenti sulla amigdala e sul suo ruolo, in particolare nella neurofisiologia delle risposte di paura come anche in molte altre reazioni emotive. Gli esempi citati più di frequente sono quelli di risposte di paura di fronte ai serpenti, ma è chiaro che sono assimilabili alle risposte della amigdala a facce o maschere minacciose, ad animali che abbaiano o che, soprattutto, mostrano i denti. Qui nuove conoscenze del cervello possono perfezionare utilmente vecchie teorie sulle risposte evolutive e biologiche a segnali di paura. In altre parole, la neurofisiologia dell’istinto di autoconservazione si sovrappone a quella delle emozioni, come è stato a lungo sospettato (e come si può capire intuitivamente nel caso, poniamo, di alcuni generi di oggetti apotropaici). Ma questa è un’altra questione. […] Come per il volto, così accade anche per il corpo, e in modo forse ancor più significativo. Recentemente degli scienziati del MIT e dell’Università di Wales hanno identificato un sistema neurale specializzato per la percezione visiva del corpo umano, e appunto del corpo umano in modo specifico. Questa area deputata al corpo, che hanno giustamente chiamato extrastriate body area (EBA), è situata nell’emisfero destro al confine tra lobo occipitale e temporale. L’aspetto rilevante di questo lavoro è che mostra come, quando dei soggetti vedono fotografie statiche di corpi umani fermi e di parti di corpi, si produca una risposta significativamente più forte nella EBA rispetto a quando gli stessi soggetti vedono altri oggetti inanimati e parti di oggetti e, significativamente, rispetto a quando vedono parti del corpo di altri animali.
L’identificazione dell’EBA non dovrebbe però suscitare obiezioni fondate sul fatto che descrivere in modo particolareggiato l’impianto del cervello e la sua geografia contrasta con le influenze storiche e del contesto ambientale. Questo argomento è un fuoco fatuo. Insistere su somiglianze di base non significa escludere sintomatologie diverse, o addirittura modulazioni individuali del sentimento. In realtà, si deve ancora capire se quest’area, come anche l’area facciale fusiforme e l’area che è stata identificata di recente come la parahippocampal place area (PPA) – un altro argomento di rilevanza eccezionale per la teoria della risposta alle immagini –, sia inscritta per lo più nel genoma, o se invece derivi principalmente dall’esperienza che un individuo ha di volti, luoghi e corpi lungo tutto il corso della sua vita. Non si tratta semplicemente di opporre l’impianto del cervello e la sua geografia all’influenza di storia e contesto ambientale.

Tuttavia – per avvicinarsi al problema centrale di questo articolo – come sarebbe possibile descrivere in modo più rigoroso e meno intuitivo le modalità secondo cui si svolge la nostra imitazione interna di movimento e azione, e il modo in cui ciò può risolversi in un’emozione? Ormai da qualche tempo abbiamo una succinta ma importante letteratura scientifica su questo fenomeno conosciuto come facilitazione della risposta, che è la tendenza automatica di noi tutti a riprodurre un movimento osservato, comprendendolo o meno – come è il caso del ben noto lavoro di Meltzoff e Moore sui movimenti imitativi delle mani e della bocca dei bambini. A riguardo, oggi è possibile essere molto più precisi. […]

Nei suoi studi ricchi e affascinanti sulla neuroscienza delle emozioni Damasio ha tentato di affrontare il problema del modo in cui, in termini neurali, potrebbe essere possibile spiegare il nostro coinvolgimento fisico con immagini di cose (non solo di corpi in movimento), e valutare le conseguenze emotive di tale coinvolgimento. L’opinione di Damasio è che sia impossibile separare l’emozione dal corpo, o le risposte emotive alle immagini dal modo in cui vi siamo fisicamente coinvolti. Egli si è spinto fino a insistere sul fatto che non è assolutamente possibile avere o sentire un’emozione senza avere una sensazione del proprio corpo e senza essere fisicamente coinvolti con ciò che osserviamo. […]
In particolar modo, sembra sia l’insula anteriore a giocare un ruolo cruciale traducendo le informazioni sugli stati corporei in tutta una varietà di emozioni differenti. Altrettanto cruciale per la comprensione del nostro coinvolgimento fisico con le immagini, e del sentimento imitativo per le attività di altri corpi, è l’affermazione di Damasio secondo la quale i risultati di una simulazione diretta di stati corporei in regioni somatosensitive (il “circuito del corpo”) non sono diversi da quelli del filtraggio di segnali che provengano dal corpo stesso. In entrambi i casi il cervello crea da un momento all’altro una serie di mappe del corpo che non corrispondono esattamente alla realtà del corpo in quel momento. Ciò che sentiamo si basa su una costruzione “falsa”, non sulla costruzione “reale” del corpo. Questo, naturalmente, accade dove entra in gioco il “circuito ‘come sé”. In ogni caso, oggi sappiamo in modo molto più preciso come tutto ciò accada, in gran parte grazie al lavoro di Giacomo Rizzolatti e dei suoi colleghi di Parma. Ora occorre che la nozione di risposta come se divenga centrale in ogni studio che tratti qualsiasi forma del nostro coinvolgimento con immagini e sculture, il che in effetti significa ogni forma di rappresentazione visiva. Circa diciassette anni fa, Rizzolatti e i suoi collaboratori hanno scoperto un particolare gruppo di neuroni visuomotori nella porzione rostrale della corteccia ventrale premotrice dei macachi, area F5. Alcuni di questi rispondono per lo più per taglia e forma a quelli che Rizzolatti ha chiamato “neuroni canonici”, ma quelli che soprattutto ci interessano qui sono quelli che ha chiamato “neuroni specchio”, che scaricano sia quando la scimmia osserva un’azione sia quando la esegue. In altre parole, quando questo sistema viene attivato, osservare un’azione – e in particolar modo un’azione orientata a uno scopo – conduce ad attivare proprio le stesse parti della rete neurale nella corteccia premotrice che è attiva durante la sua esecuzione. La congruenza tra le risposte visive e motorie di questi neuroni suggerisce il fatto che ogni volta in cui un’azione viene osservata si attivano i circuiti motori dell’osservatore. Si è poi scoperto che questi stessi neuroni si attivano anche quando la scimmia osserva un’azione senza però imitarla realmente.
È difficile sopravvalutare le conseguenze di queste scoperte per la teoria dell’empatia. Ora si possono iniziare a capire le basi dell’empatia fisica che si ha nei confronti di un’immagine – e quindi nei confronti delle emozioni rappresentate in un’immagine – perfino al livello del singolo neurone. Dal momento che ormai è stato scoperto il sistema dei neuroni specchio anche nell’uomo, per lo più nella porzione rostrale del lobulo parietale inferiore (proprio l’area cruciale PF), nella porzione caudale (pars opercularis) del giro frontale inferiore e, naturalmente, nella parte adiacente della corteccia premotrice, una regione che coincide con l’area di Broca. Questo induce ad avanzare alcune ipotesi per quanto riguarda la natura del linguaggio per immagini (come anche dell’immaginario evocato dal linguaggio) che non può essere affrontata qui. Ad ogni modo, come nel caso dell’area F5 delle scimmie, ciò che accade quando questo sistema si attiva è che quando noi osserviamo le azioni di individui o quelle raffigurate in immagini, le loro rappresentazioni motrici sono automaticamente riportate nelle stesse parti del cervello in cui le riportiamo quando le eseguiamo realmente. Secondo quanto Gallese, Keysers e Rizzolatti hanno sostenuto ultimamente, questi meccanismi specchio “ci consentono di comprendere direttamente il significato delle azioni e delle emozioni altrui replicandole internamente o ‘simulandole’ senza alcuna esplicita mediazione riflessiva” (Gallese et al., 2004, p. 396). Enfatizzano così il fatto che il ragionamento concettuale non è necessario per questa forma di comprensione delle azioni. […]

Nell’uomo l’attivazione si verifica mentre si osservano azioni tanto intransitive quanto mimate, e nei muscoli dell’osservatore si registrano potenziali motori sia quando si osservano gesti della mano o del braccio apparentemente senza senso, sia quando si osserva un’azione transitiva. Tutto ciò ha conseguenze fondamentali tanto per le risposte estetiche quanto per quelle empatiche: il fatto che le azioni rappresentate in immagini vengano portate a termine a livello immaginativo può essere compreso come risultato dell’automatismo della nostra risposta corporea simulata. […]

Chiunque sia interessato all’efficacia delle immagini vedrà senz’altro la rilevanza della serie di scoperte avanzate da Baldissera e dai suoi collaboratori, che descrivono il meccanismo, operante al livello del midollo spinale, che impedisce di eseguire realmente azioni viste, lasciando in tal modo il meccanismo corticale qui descritto libero di “ri-produrre” i movimenti osservati senza rischiare di produrre davvero un movimento. Da questo dovrebbe essere anche possibile comprendere più adeguatamente il fenomeno del gating per cui, qualunque sia la risposta emotiva a un’immagine in una galleria, questa viene soppiantata quasi istantaneamente da una risposta estetica più distaccata, una risposta normalmente – e giustamente – considerata come interamente cognitiva. Scoperte simili, credo, devono assolutamente essere messe in relazione ai modi in cui valutiamo l’abilità con cui un artista impegna l’attenzione dell’osservatore. […]
Ora che sappiamo di comprendere le azioni altrui grazie al fatto che attiviamo in noi stessi delle rappresentazioni neurali di tali azioni, questo principio viene ad applicarsi a molte altre aree direttamente correlate al problema dell’empatia: tatto, disgusto, compassione in special modo e, ed è forse l’area più importante, la rappresentazione neurale della percezione del dolore. Il problema sorge rispetto al modo in cui si parla di attività specchio, che opera in un contesto più evidentemente sensoriale. L’esperienza di un tatto empatico di un tipo o dell’altro è piuttosto comune, per esempio il ragno che cammina sul petto di James Bond, la sensazione del dito nel fianco di Cristo nell’Incredulità di San Tommaso di Caravaggio o il chiodo piantato nella sua mano nell’Altare di Isenheim di Grünewald. Altrettanto comuni sono le sensazioni di formicolio, di pizzicore o di tremore che si hanno vedendo il corpo di un’altra persona affetto in questo modo, in immagini come queste o nei film. Un altro recente articolo pubblicato dal gruppo di Parma ha dimostrato che sarebbe sbagliato intendere casi di questo genere come se si trattasse di stimoli visivi seguiti da una deduzione cognitiva del loro significato. Piuttosto, la visione di un’altra persona che viene toccata attiva automaticamente la rete corticale di regioni che di norma vengono coinvolte nell’esperienza che noi stessi abbiamo dell’essere toccati. Gli esperimenti con fMRI hanno mostrato che quando le persone vedono altri individui che vengono toccati, si attiva la stessa parte della corteccia somatosensitiva secondaria (la cosiddetta area SII–PV) che si attiva quando sono loro stesse a essere toccate. […]

Quello che sto proponendo, quindi, è un modello di empatia non dissimile da quello integrato proposto recentemente da Preston e De Waal per le emozioni. A loro avviso, innanzitutto, il punto è proprio che l’osservazione o l’immaginazione di un’altra persona in uno stato emotivo particolare attivano automaticamente una rappresentazione di questo stato nell’osservatore con le sue risposte associate, automatiche e somatiche. Ciò che io, da parte mia, ho suggerito qui con una qualche ovvietà, è che occorre riconoscere il bisogno di includere in questo modello risposte corporee che siano motorie, tattili o di qualsiasi altro tipo sensoriale. […]

[…] Mentre è probabile che le nostre distinzioni tra arte e non-arte siano puramente cognitive e strettamente culturali, le nuove scoperte relative ai sistemi neurali che sono alla base delle risposte empatiche a ciò che vediamo nelle immagini, anche se non ci aiutano granché a distinguere tra le due, permettono di conoscere a fondo i modi in cui gli artisti hanno inconsciamente sfruttato i tipi di conoscenza che ho provato a esporre in questo articolo.

Questa può essere una strada non ancora battuta per comprendere alcune delle basi neurali di ciò che scegliamo di chiamare arte. Questo compito deve però essere lasciato ad altri. Personalmente, trovo la categoria “arte” troppo debole, troppo elusiva, qualche volta troppo enfatica. In queste pagine mi sono proposto innanzitutto di chiarire il ruolo giocato dalle nostre percezioni del movimento e delle azioni altrui in quell’ampia gamma di risposte alle immagini che descriviamo come empatiche. Ho poi cercato di comprendere cosa ci spinga ad azioni apparentemente imitative che sembrano stare alla radice di ogni forma di empatia. Soprattutto, ho tentato di dar conto del modo in cui comprendiamo il dolore altrui, e in particolare di chi è rappresentato in immagini e sculture.

   
 

Il testo, che nella sua forma completa è stato inviato direttamente dall’autore, è una selezione di passi da un saggio che in lingua italiana è recentemente apparso sull’antologia: Immagini della mente. Neuroscienze, arte, filosofia, a cura di Giovanni Lucignani e Andrea Pinotti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007. La traduzione dall’inglese è di Chiara Cappelletto. Come specifica Freedberg in una nota al titolo, questo testo nasce dall’elaborazione di due saggi distinti, uno letto al terzo congresso annuale di neuroestetica, organizzato da Semir Zeki a Berkeley nel gennaio 2004, e poi a Villa Medici a Roma nel maggio 2004. Il secondo è stato presentato a Stanford nel novembre del 2004 e poi presso l’Università degli Studi di Milano l’8 dicembre 2004.

   
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