Bill Viola, Christian Nold, Yves Netzhammer
Teresa Margolles, Valerio Magrelli, William Kentridge
Katharina Grosse, Andrea Ferrara, Elisa Biagini
Maurice Benayoun, Antonella Anedda
 
   
  Pubblicazione
Prefazione di James M. Bradburne
Sistemi Emotivi di Franziska Nori
   
 

"Che cosa sono i sentimenti" Antonio Damasio
"Emozione, razionalità e arte" Ronald de Sousa
"Empatia, movimento ed emozione" David Freedberg
"Le emozioni"
Peter Goldie
"Il cervello emotivo" Joseph LeDoux
"Fatti che possono accadere" Martha Nussbaum
"La teoria degli “emotives”: una sinossi" William M. Reddy

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  L’approccio analitico di Martha Nussbaum sulle emozioni parte dalla filosofia politica per arrivare a un campo assolutamente interdisciplinare, che include i contributi dell’etologia, della psicologia cognitiva, della neurobiologia e dell’antropologia, fino a toccare gli ambiti propriamente umani e artistici della letteratura e della musica. La concezione filosofica che sta alla base del libro è di tipo neo-stoico e difende una teoria cognitiva e di consapevolezza etica del ruolo sociale delle emozioni. A esse, in sostanza, si attribuisce un ruolo di giudizio di valore, di pensiero intenzionale e di comprensione verso un oggetto, un fatto o uno stimolo esterno.
   
  Fatti che possono accadere
Martha Nussbaum
   
 

Il gioco narrativo, ho sostenuto, fornisce alla bambina uno “spazio potenziale” nel quale esplorare le possibilità della vita. Come gli oggetti transizionali – animali di pezza, coperte, bambole – con cui impara a confortarsi in assenza della madre, le storie, i versi, le immagini e le canzoni popolano il mondo della bambina con oggetti che può manipolare, simboli di quegli oggetti della vita reale che sono per lei più importanti. Come afferma Winnicott, l’oggetto transizionale è in quanto tale un simbolo, e il giocare del bambino con esso è un primo esempio di creatività artistica. Spesso la bambina mette in scena delle storie con i suoi animaletti di pezza – c’è quindi una stretta interrelazione tra l’oggetto simbolico fisico e l’oggetto simbolico estetico. Attraverso l’attività simbolica, la bambina coltiva la propria capacità di immaginare ciò di cui gli altri fanno esperienza, ed esplora le possibilità della vita umana in una condizione sicura e piacevole. Allo stesso tempo, ella coltiva la propria capacità di stare da sola, e il suo mondo interiore si fa più profondo.
Vi è un rapporto tra gioco narrativo e apprendimento della compassione. Ma adesso dobbiamo introdurre alcune problematiche più generali sull’attività artistica e dell’emozione. Nella parte normativa della mia teoria (la terza parte) giocheranno un ruolo importante alcune opere letterarie e una musicale. Vi sono diverse ragioni per questa scelta. Il tema è di per sé di grande interesse, e lo è anche per me. Concentrandoci sulla musica, inoltre, abbiamo la possibilità di mettere in luce i meriti della teoria dell’emozione che stiamo sviluppando, mostrando che essa ci aiuta a risolvere alcuni problemi irresolubili per altre teorie. L’attenzione alla musica ci aiuterà anche a operare alcuni ulteriori perfezionamenti nella teoria stessa. Da ultimo, quella del rapporto tra musica ed emozioni resta una tematica relativamente trascurata in teoria estetica, anche se di recente è stata più discussa di quanto non fosse da qualche anno; […] devo chiarire quale sia il mio approccio.
Ma a questo punto, prima di passare all’analisi, devo dire qualcosa di più generale sulla reazione emotiva causata dalle opere d’arte, e sulla sua espressione. Per affrontare questi aspetti con profitto, elaborando una teoria dell’emozione musicale, bisogna pensare a come tali problemi vengono posti e risolti relativamente alle altre arti. Alcune questioni sono state considerate insolubili, come un punto oltre il quale non si può procedere – per esempio: “Come possiamo provare delle reali emozioni ascoltando un’opera musicale, se esse non hanno alcun oggetto nel mondo reale?”; oppure: “Se le emozioni negative di tristezza, lutto, paura, e così via, che la musica ci fa provare, sono reali, perché dovremmo deliberatamente cercarle?”; o anche: “Se nel cogliere il contenuto espressivo della musica stiamo acquisendo un nuovo contenuto cognitivo, questo non significa forse che stiamo semplicemente usando la musica come uno strumento di comprensione?”. Ma se ci rivolgiamo all’analisi della letteratura vediamo che problemi del genere raramente costituiscono una vera e propria impasse per la discussione: una lunga tradizione che parte da Aristotele se ne è occupata, producendo buone analisi costruttive. Sarà utile collocare in questo contesto la mia esposizione.
La forma stessa di un’opera d’arte può essere ricca di contenuto espressivo “emotivo”. Se guardiamo all’esempio della tragedia greca, il genere tragico contiene in sé, nella forma stessa delle sue trame e degli atti dei suoi personaggi, ciò che Aristotele definisce “il pietoso” e “il terribile”: ovvero materiale la cui appropriata comprensione (da parte di un lettore o spettatore attento e adeguatamente educato) è accompagnata da tali emozioni. La rappresentazione di persone buone che finiscono col provare gravi dolori senza alcuna colpa costituisce, infatti, la struttura stessa della tragedia, e ciò è parte del contenuto della pietà, o, come io la definirò, della compassione. (Proviamo paura sia per i personaggi, in quanto incombono eventi negativi, sia per noi stessi, in quanto riflettiamo sulle possibilità che essi mostrano per la vita umana in generale.) Anche i personaggi possono provare a esprimere diverse emozioni, e nella misura in cui gli spettatori, in qualche parte del mondo, si identificheranno con l’uno o l’altro di essi, proveranno anch’essi tali emozioni, condividendo la rabbia e la frustrazione di Filottete, o il devastante trauma di Edipo quando scopre ciò che ha fatto; e, nella misura in cui sono spinti a porsi in una prospettiva distaccata rispetto ai personaggi stessi, potranno provare nei loro confronti svariate reazioni emotive: compassione per la sofferenza di Filottete, rabbia per le trame di Odisseo, paura per l’incombente caduta di Edipo. Ma il pietoso e il terribile non caratterizzano semplicemente il singolo caso: sono radicati nella complessiva struttura della forma-tragedia, attraverso la peculiare forma di identificazione e simpatia con l’eroe che essa coltiva. Usando la proficua terminologia di Wayne Booth, potremmo definire tale prospettiva come quella dell’autore implicito, ovvero di quella visione della vita che anima l’opera presa nel suo complesso. Prospettiva che spesso prende corpo, nella tragedia, nelle reazioni del coro, che incoraggia una certa gamma di reazioni emotive nei confronti della trama che si sta svolgendo. La visione della vita che anima queste opere, in altri termini, è quella di chi guarda ai rovesci e alle sofferenze di persone ragionevolmente buone sia con compassione che con paura.
La prospettiva dell’autore implicito opera solitamente su diversi piani, da quello specifico e concreto a quello più generale. Su un piano, vediamo le sofferenze di Filottete con compassione, pensando a un mondo in cui uomini buoni e ammirevoli patiscono insopportabili dolori. Più in generale, pensiamo a un’acuta sofferenza fisica, e proviamo compassione per quelli che la patiscono. Su un piano ancor più generale, tuttavia, siamo spinti a pensare alle sofferenze di Filottete come a “fatti che possono accadere”, e a riflettere in un senso più generale sulla vulnerabilità degli esseri umani ai mutamenti di fortuna e al dolore. E queste prospettive più generali sono anch’esse passibili di molteplici interpretazioni; consentono allo spettatore molte diverse opzioni. Uno può concentrarsi sul dolore fisico, un altro sull’inganno, un altro ancora sulla generale vulnerabilità della vita umana a un rovescio improvviso.
Questa prospettiva generale sollecita poi gli spettatori a provare emozioni di diverso tipo rispetto alle possibilità della propria vita. Vedendo gli eventi come universali possibilità umane, gli spettatori li vedono naturalmente anche come possibilità per se stessi. Così di fronte alla situazione di Filottete possono provare paura per il proprio dolore o per la possibilità di essere manipolati e maltrattati; dolore per catastrofi simili che hanno colpito persone amate; rabbia nei confronti di persone del loro mondo che strumentalizzano gli altri. Ancora, queste emozioni operano su diversi piani di generalità e specificità: posso collegare la strumentalizzazione di Filottete da parte di Odisseo con qualche evento politico negativo nell’ambiente che mi circonda, come le tragedie greche venivano spesso poste in relazione con il processo decisionale democratico. Oppure posso semplicemente pensare, in un senso più generale, alla possibilità che io o i miei cari potremmo patire strumentalizzazioni e abusi. Posso pensare alla possibilità specifica di essere colpita da una malattia molto dolorosa; o semplicemente temere rovesci e difficoltà inaspettati.
Infine, gli spettatori possono anche sperimentare delle emozioni reattive, sia generali che più concrete, nei confronti della sensibilità dell’autore implicito. Reazioni che talvolta esprimono un rifiuto dell’opera: è possibile reagire a una tragedia con rabbia, o noia, o divertimento, semplicemente perché si pensa che sia una cattiva tragedia, o che esprima sentimenti banali o sbagliati. Ma se l’opera viene accettata dallo spettatore, tali emozioni reattive saranno di tipo simpatetico: simpatia, per esempio, nei confronti degli stati di rabbia o paura espressi nell’opera nel suo complesso – o forse una simpatetica rabbia nei confronti di un mondo in cui si permette che accadano cose così terribili. Nella tragedia, queste emozioni simpatetiche sono di solito molto difficili da distinguere da quelle provate dalla prospettiva dell’”autore implicito”, dato che quest’ultima è già quella della compassione. Ma spesso le due prospettive sono distinte. Se io seguo la straziante narrazione di Saffo del dolore della gelosia amorosa, posso entrare nella prospettiva dell’autore implicito (che s’identifica con quella del parlante), e provare quell’emozione; ma, anche in questo caso, potrei semplicemente avere una reazione di simpatia di fronte alle sofferenze così efficacemente espresse. Queste emozioni reattive operano anch’esse su diversi piani: posso provare simpatia per il personaggio Saffo; per le donne il cui amore omosessuale è ostacolato dalle convenzioni amorose e matrimoniali; per l’amore infelice in generale. E, a seconda di come la mia vita si colloca rispetto a queste possibilità, proverò una relativa gamma di emozioni a proposito delle mie prospettive amorose.
Abbiamo, quindi, i seguenti livelli e tipi di emozioni.

1.Emozioni nei confronti dei personaggi: a) condividere l’emozione di un personaggio per identificazione; b) reagire all’emozione di un personaggio. 2.Emozioni nei confronti dell’“autore implicito”, della visione della vita intrinseca al testo nel suo complesso: a)condividere quella visione della vita e le b)sue emozioni attraverso l’empatia; b) reagire a esso, in senso simpatetico o critico. Queste emozioni operano su diversi piani di specificità e generalità. 3.Emozioni nei confronti delle proprie possibilità. Anche queste sono molteplici, e operano su diversi piani di specificità e generalità.

Tutte queste reazioni emotive (a eccezione di quelle che implicano un rifiuto dell’opera) sono inscritte nell’opera stessa, nella sua struttura letteraria. Così il concludere che un’opera ha un ricco contenuto emotivo non significa affatto sottovalutarne la forma letteraria; anzi, senza far riferimento a questo contenuto non possiamo adeguatamente descrivere la struttura di un’opera tragica.
Qual è il rapporto tra queste strutture formali della tragedia e le effettive emozioni dello spettatore? È plausibile pensare che le strutture formali siano tali da suscitare determinate emozioni in quello specifico spettatore richiesto dall’opera, uno spettatore che assiste con grande attenzione, seguendo le indicazioni della forma. Non tutti gli spettatori dell’Edipo di Sofocle proveranno pietà per Edipo e paura per se stessi. Come dice Wayne Booth, tra il lettore (o spettatore) implicito e il lettore (o spettatore) reale c’è spesso un abisso. Gli spettatori reali sono spesso distratti e disattenti. Come Aristofane scriveva negli Uccelli, molti spettatori della tragedia antica, «seccati dai cori tragici», pensavano in realtà come sarebbe stato bello poter volar via a casa come uccelli, per godersi il cibo, fare sesso, o andare al gabinetto. Ma lo spettatore implicito – che è anche quello reale, quando è in adeguata sintonia con l’opera – proverà una gamma di emozioni legate alla presenza del pietoso e del terribile nella trama. Come ho detto, vi sono diverse opzioni per lo spettatore, specie nella scelta del livello di generalità e dei nessi tra l’opera e la propria vita; la forma, quindi, non implica un’unica “appropriata” esperienza – offre piuttosto una gamma di esperienze possibili.
Ho affermato che lo “spazio potenziale” dell’attività estetica è quello in cui indaghiamo e sperimentiamo le diverse possibilità della vita. Nel reagire a una tragedia con pietà e paura, stiamo cogliendo qualcosa di cruciale, non solo a proposito dei personaggi, ma anche sul mondo e su noi stessi: non solo che Edipo giunge a soffrire senza alcuna colpa, ma anche che questo può accadere pure a una persona buona, e che può accadere anche a noi. Così il lettore o spettatore di un’opera letteraria sta sì leggendo o assistendo all’opera, ma allo stesso tempo sta leggendo il mondo, e la propria identità. L’opera è in questo senso, come dice Proust, uno “strumento ottico” mediante il quale il lettore può mettere a fuoco certe realtà personali. La comprensione cognitiva non è prodotta dall’esperienza emotiva, è intrinseca a essa. E le cognizioni, se in un certo senso sono separabili dall’opera – perché possiamo giungere a comprendere certe cose sulla nostra vita senza assistere a una tragedia, e possiamo conservare la conoscenza che questa promuove anche dopo che l’esperienza si è conclusa –, sono ancora “a proposito” dell’opera, “in relazione” a essa, reazioni a essa. Anche quando riguardano la nostra vita, implicano sempre la comprensione delle specifiche strutture letterarie dell’opera. Anzi, è questo che rende la tragedia così importante per la nostra vita: il fatto che le sue forme siano tali da produrre esperienze che squarciano la monotonia della vita quotidiana, mostrandoci qualcosa di più profondo su noi stessi e la nostra reale situazione.
In questo senso, come sottolineava Aristotele, la poesia è “qualcosa di più filosofico” della storia. La storia ci narra quello che è accaduto un tempo: ma ciò può non rivelarci alcunché di interessante sulle nostre possibilità, se si tratta di un evento particolare. Diversamente, l’opera letteraria ci mostra degli schemi di azione verosimili in senso generale, “fatti che possono accadere” nella vita umana. Nel cogliere gli schemi di azione rilevanti indicati dall’opera, cogliamo anche delle possibilità per noi.
In tutto ciò è contenuta una risposta alla precedente domanda sulle emozioni negative. Se cerchiamo dolorose esperienze mediante la letteratura, così argomentava Aristotele, è per la comprensione del Sé e del mondo che esse ci offrono. E se la comprensione in quanto tale ha un contenuto penoso – perché è sempre penoso riconoscere di essere una creatura bisognosa e limitata –, è d’altro canto cosa apprezzabile e piacevole giungere alla comprensione. L’attività estetica, che ha luogo in uno “spazio potenziale” protetto in cui la nostra sicurezza non è immediatamente minacciata, lega il piacere di esplorare a quella condizione di bisogno e insufficienza che ne sono l’oggetto, rendendo così piacevoli, o almeno non minacciose per noi, le nostre limitazioni. L’esercizio di questa forma di comprensione ci mette al riparo da una dura e arrogante sensazione di autosufficienza, che nella vita danneggerebbe in molti sensi il nostro rapporto con gli altri. Si tratta di esperienze che migliorano la comprensione della nostra geografia emotiva; aiutandoci anche “a rassicurarci in parte, in modo non-distruttivo, della profondità e ricchezza della nostra sensibilità”, e rendendo la nostra personalità aperta e ricettiva. Come sottolinea Aristotele, chi ha una “disposizione all’arroganza”, una hybristikê diathesis, non proverà pietà. Le tragedie costruiscono uno spettatore che non ha una hybristikê diathesis, aperto a esperienze emotive sulle sofferenze altrui, e che è quindi in qualche modo meglio preparato (a parità di altre condizioni) a porsi in rapporto con gli altri esseri umani su un piano di reciprocità. Abbiamo così un quarto tipo di emozione, da aggiungere alla nostra lista delle emozioni dello spettatore: la gioia o la piacevole emozione di giungere a comprendere qualcosa.
È per questa ragione che Proust paragona i romanzi alle esperienze di lutto o di altre profonde emozioni della vita reale: “Perché certi romanzi sono come grandi lutti momentanei, aboliscono l’abitudine, e rimettono in contatto con la realtà della vita”. Le abitudini ci nascondono la nostra reale condizione – il nostro “essere bisognosi”, il nostro amore per oggetti incontrollabili, la nostra vulnerabilità. Un romanzo, come una perdita, ci mostra la verità della nostra condizione – anche se solo momentaneamente, per un attimo rapidamente eclissato dall’ “oblio” e dalla “gaiezza” della routine quotidiana.
Ma le emozioni dello spettatore sono emozioni reali? È alquanto ovvio che esse non hanno tutte per oggetto una concreta e reale situazione nella nostra vita, anche se per alcune è così. E questo comporta una differenza nella loro intensità e durata. D’altra parte, anche se restiamo consapevoli che la storia di Edipo è una finzione, le nostre emozioni si indirizzano in due modi verso il mondo reale: assumendo oggetti generali insieme a quello particolare della finzione, e prendendo a oggetto noi stessi. Siamo consapevoli del fatto che la tragedia cui assistiamo è quella di un personaggio fittizio; e tuttavia siamo anche consapevoli che si tratta di possibilità di tutti gli esseri umani, e quindi della storia della nostra condizione nel mondo. Così nel provare pietà per Edipo proviamo anche pietà per tutti coloro che patiscono una disgrazia simile. Nel provare paura per la sua situazione, temiamo la possibilità di subire un simile rovescio.
Se vediamo così le cose, possiamo comprendere come le emozioni possano essere genuine, e non artefatte, e anche come possano avere, come quelle della vita reale, un contenuto cognitivo. La pietà ha il contenuto: “Qualcuno che è (al momento) importante per me sta soffrendo per disgrazie immeritate”. Contenuto che si articola su due piani: sul piano concreto, questi pensieri assumono Filottete, il personaggio di fantasia, come proprio oggetto intenzionale; e in questo senso lo spettatore conserva la contemporanea consapevolezza che quella persona esiste in un mondo fittizio, e non in quello reale. Su un piano più generale, tuttavia, la pietà assume a proprio oggetto intenzionale l’ingiustificata sofferenza realmente esistente al mondo, quella che ci fa ascoltare la storia di Filottete e che ce la fa apparire plausibile. Analogamente, su un piano temiamo che Edipo soffra; su un altro piano, temiamo i “fatti che possono accadere” a noi e a quelli che ci sono cari. Se l’opera non fosse così legata alla vita, mediante fili di plausibilità, non potrebbe essere così coinvolgente sul piano emotivo. Lo constatiamo quando leggiamo un’opera malriuscita: se non riusciamo a vederla come storia di “fatti che possono accadere”, non proviamo delle vere emozioni.
Consideriamo un altro genere costruito intorno alle emozioni negative: il film dell’orrore. Siamo tentati di pensare che le emozioni che proviamo per questi film non possano essere un terrore o un’ansia reali, o non cercheremmo esperienze simili. Ma la questione è più complessa. Anche in questo caso, la mia ipotesi è che questi film abbiano potere e interesse proprio nella misura in cui riescono a porci in relazione agli eventi come “fatti che possono accadere”, costruendo così delle emozioni reali, che operano nei quattro modi da me identificati. Quando guardo Psycho di Hitchcock, a un certo livello ho paura (1) per Janet Leigh che sta sotto la doccia. So bene quale pericolo incombe su di lei – o, se ho già visto il film, so assai bene che tra breve il suo sangue scorrerà nello scarico della doccia. Nel temere per lei, conservo la consapevolezza che si tratta di finzione, e che nessuna persona nel mio mondo reale è al momento minacciata. Ma la ragione per cui questo momento del film ha un tale mitico potere, ovviamente, è che si tratta di un “fatto che può accadere”.

Il corpo femminile è sempre vulnerabile allo stupro e all’aggressione. Nel temere per la Leigh, quindi, io sono anche consapevole (2) della vulnerabilità delle donne a tali violenze. (Posso provare queste emozioni su molti diversi piani di generalità, pensando a tutte le donne, alle donne americane, e così via.) Se sono una donna, penserò anche (3) al mio corpo e alle sue possibilità. Se non lo sono, penserò ai corpi delle donne che mi sono care.
Su tutti questi piani provo una paura reale. La mia paura per la Leigh è concreta, ma non conduce ad alcuna azione, dato che sono consapevole che ella vive in un mondo di fantasia. La mia paura per le donne americane è relativa al mondo reale; non conduce a nessuna particolare azione in questo momento, ma può provocare una forma di interesse che potrebbe, in linea di principio, condurre all’azione. La mia paura per me stessa è, di nuovo, relativa al mondo reale, e provoca una forma di interesse che potrebbe in linea di principio condurre all’azione.
Il modo in cui Hitchcock costruisce l’espisodio cruciale gioca sui diversi piani della nostra attenzione, mentre seguiamo la trama e allo stesso tempo esploriamo la nostra vulnerabilità. Vediamo il comportamento fiducioso della donna, mentre se ne sta nuda nella doccia. E possiamo vedere, diversamente da lei, la minaccia che le si avvicina. In un contesto sicuro, permettiamo a noi stessi di esplorare una paura che su qualche piano ci accompagna ovunque andiamo. Quello che vogliamo, da opere del genere, è la possibilità di esplorare queste paure in una situazione di sicurezza immediata.
Poiché siamo in un contesto di sicurezza, siamo anche incoraggiati a provare una gamma di emozioni reattive: 1) simpatia per la Leigh, e rabbia nei confronti del vio- lentatore che la bracca; 2) simpatia per le donne che sono violentate o aggredite, e rabbia nei confronti dei loro aggressori.
Ma la questione è ancor più complessa, dato che il film in effetti costruisce per il suo spettatore un’inquietante duplice identificazione. Attraverso il suo caratteristico uso voyeuristico e aggressivo della macchina da presa, Hitchcock pone lo spettatore nella posizione del pericolo che bracca l’eroina. E porta così gli spettatori in contatto con il proprio sadismo e la propria aggressività persecutoria. La stessa macchina da presa ci rende complici dell’aggressione, come peraltro la stessa struttura del “genere”: entrambe risvegliano il nostro desiderio di caos e di sangue. Una ragione evidente della potenza di Hitchcock è la sua misteriosa capacità di indagare gli aspetti più inquietanti dell’emozione infantile. Vogliamo sia salvare la Leigh che vederla squarciata, sia identificarci con lei che perseguitarla. E in questo diveniamo consapevoli della nostra aggressività nei confronti degli oggetti amati. Queste esperienze non avrebbero potere, se non stessimo esplorando la nostra psiche e le sue possibilità.
E infine, in questo come nel caso della tragedia, proviamo (4) l’euforia e la gioia di imparare qualcosa su noi stessi, per quanto perturbante sia, per certi aspetti, tale conoscenza.
Un approccio del genere alle opere di fantasia – che siano in relazione a noi e al nostro mondo interiore – può forse condurre a trascurarne la forma? Niente affatto. È proprio in virtù dei suoi caratteri formali, infatti, che un’opera del genere riesce a costruire delle emozioni riguardo alle nostre possibilità; né una descrizione della sua forma sarebbe completa, se non si collegasse alle emozioni umane. La Poetica di Aristotele è in un certo senso un libro sulla forma della tragedia. Ma la sua descrizione della forma implica la discussione della pietà e della paura, perché la struttura di un dramma tragico è costruita intorno all’evocazione di queste emozioni.
Il rischio più grosso è che tale approccio, focalizzato com’è sulle possibilità umane in generale, possa condurre a trascurare il contesto storico e culturale. Talvolta ci imbattiamo nell’opinione che una tragedia, o un’opera musicale, esprimano dolore o gioia in una forma eterna e universale, tale da non esigere che l’interprete sia educato in una particolare tradizione estetica o culturale. […] Io contrasto quest’approccio, sostenendo che le caratteristiche espressive di un’opera musicale non possono essere decifrate senza una considerevole conoscenza della tradizione musicale cui appartiene e dell’opera complessiva del compositore. Lo stesso è evidentemente vero per le opere letterarie, anche se su un piano molto generale le loro rappresentazioni di comuni avvenimenti umani possono talvolta produrre emozioni attraversando grandi differenze spaziali e temporali.
Stiamo semplicemente adoperando l’opera come strumento della nostra comprensione, se la viviamo come un’esplorazione dei “fatti che possono accadere”? Non vedo motivi per trarre questa conclusione. Ogni opera abbastanza ricca nella struttura e nel contenuto da provocare delle profonde reazioni emotive susciterà anche ammirazione e stupore per la sua complessità formale. Ho detto che stupore e gioia sono elementi cruciali della dinamica del gioco estetico; e, come negli altri casi della vita, essi conferiscono a questa dinamica un carattere non-strumentale e in una certa maniera non-eudaimonistico. E dato che l’opera è essa stessa un simbolo di oggetti amati del nostro mondo, provocherà anche in una certa misura, come ogni oggetto transizionale, le emozioni di amore e gratitudine che proviamo per quegli oggetti.
Alcune opere d’arte susciteranno solo stupore e gioia, senza far sgorgare le nostre emozioni più eudaimonistiche. Questo è chiaramente vero per alcune opere di arte visiva e musicali, e anche per alcune opere letterarie, quelle che piacciono fondamentalmente per la raffinatezza della forma e non si propongono di esplorare l’interesse umano per il tempo, la morte, l’amore, e altri temi eudaimonistici. D’altra parte, vi sono degli interi generi letterari che non possono affatto funzionare senza ricchi legami eudaimonistici con i loro fruitori: la tragedia, il romanzo, il melodramma, il romanzo realista, e alcuni tipi di commedia. Questo ci aiuta a dare una risposta più generale all’accusa di trascurare il valore estetico: non possiamo spiegare come funzionano questi generi senza chiamare in causa i modi in cui essi si pongono in rapporto con l’interesse del pubblico per i volti dell’umana possibilità.

   
 

L’ “Intermezzo” che qui pubblichiamo è stato inviato dall’autrice, dietro consenso dell’editore del libro di cui fa parte: Upheavals of Thought: The intelligence of Emotions, Cambridge University Press, 2001. In italiano si riporta lo stesso estratto nella traduzione di Rosamaria Scognamiglio, dal volume pubblicato nel 2004, L’intelligenza delle emozioni, dalla Società editrice Il Mulino di Bologna.

   
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