|
Il gioco narrativo, ho sostenuto, fornisce
alla bambina uno “spazio potenziale” nel quale esplorare le
possibilità della vita. Come gli oggetti transizionali –
animali di pezza, coperte, bambole – con cui impara a confortarsi
in assenza della madre, le storie, i versi, le immagini e le canzoni popolano
il mondo della bambina con oggetti che può manipolare, simboli
di quegli oggetti della vita reale che sono per lei più importanti.
Come afferma Winnicott, l’oggetto transizionale è in quanto
tale un simbolo, e il giocare del bambino con esso è un primo esempio
di creatività artistica. Spesso la bambina mette in scena delle
storie con i suoi animaletti di pezza – c’è quindi
una stretta interrelazione tra l’oggetto simbolico fisico e l’oggetto
simbolico estetico. Attraverso l’attività simbolica, la bambina
coltiva la propria capacità di immaginare ciò di cui gli
altri fanno esperienza, ed esplora le possibilità della vita umana
in una condizione sicura e piacevole. Allo stesso tempo, ella coltiva
la propria capacità di stare da sola, e il suo mondo interiore
si fa più profondo.
Vi è un rapporto tra gioco narrativo e apprendimento della compassione.
Ma adesso dobbiamo introdurre alcune problematiche più generali
sull’attività artistica e dell’emozione. Nella parte
normativa della mia teoria (la terza parte) giocheranno un ruolo importante
alcune opere letterarie e una musicale. Vi sono diverse ragioni per questa
scelta. Il tema è di per sé di grande interesse, e lo è
anche per me. Concentrandoci sulla musica, inoltre, abbiamo la possibilità
di mettere in luce i meriti della teoria dell’emozione che stiamo
sviluppando, mostrando che essa ci aiuta a risolvere alcuni problemi irresolubili
per altre teorie. L’attenzione alla musica ci aiuterà anche
a operare alcuni ulteriori perfezionamenti nella teoria stessa. Da ultimo,
quella del rapporto tra musica ed emozioni resta una tematica relativamente
trascurata in teoria estetica, anche se di recente è stata più
discussa di quanto non fosse da qualche anno; […] devo chiarire
quale sia il mio approccio.
Ma a questo punto, prima di passare all’analisi, devo dire qualcosa
di più generale sulla reazione emotiva causata dalle opere d’arte,
e sulla sua espressione. Per affrontare questi aspetti con profitto, elaborando
una teoria dell’emozione musicale, bisogna pensare a come tali problemi
vengono posti e risolti relativamente alle altre arti. Alcune questioni
sono state considerate insolubili, come un punto oltre il quale non si
può procedere – per esempio: “Come possiamo provare
delle reali emozioni ascoltando un’opera musicale, se esse non hanno
alcun oggetto nel mondo reale?”; oppure: “Se le emozioni negative
di tristezza, lutto, paura, e così via, che la musica ci fa provare,
sono reali, perché dovremmo deliberatamente cercarle?”; o
anche: “Se nel cogliere il contenuto espressivo della musica stiamo
acquisendo un nuovo contenuto cognitivo, questo non significa forse che
stiamo semplicemente usando la musica come uno strumento di comprensione?”.
Ma se ci rivolgiamo all’analisi della letteratura vediamo che problemi
del genere raramente costituiscono una vera e propria impasse
per la discussione: una lunga tradizione che parte da Aristotele se ne
è occupata, producendo buone analisi costruttive. Sarà utile
collocare in questo contesto la mia esposizione.
La forma stessa di un’opera d’arte può essere ricca
di contenuto espressivo “emotivo”. Se guardiamo all’esempio
della tragedia greca, il genere tragico contiene in sé, nella forma
stessa delle sue trame e degli atti dei suoi personaggi, ciò che
Aristotele definisce “il pietoso” e “il terribile”:
ovvero materiale la cui appropriata comprensione (da parte di un lettore
o spettatore attento e adeguatamente educato) è accompagnata da
tali emozioni. La rappresentazione di persone buone che finiscono col
provare gravi dolori senza alcuna colpa costituisce, infatti, la struttura
stessa della tragedia, e ciò è parte del contenuto della
pietà, o, come io la definirò, della compassione. (Proviamo
paura sia per i personaggi, in quanto incombono eventi negativi, sia per
noi stessi, in quanto riflettiamo sulle possibilità che essi mostrano
per la vita umana in generale.) Anche i personaggi possono provare a esprimere
diverse emozioni, e nella misura in cui gli spettatori, in qualche parte
del mondo, si identificheranno con l’uno o l’altro di essi,
proveranno anch’essi tali emozioni, condividendo la rabbia e la
frustrazione di Filottete, o il devastante trauma di Edipo quando scopre
ciò che ha fatto; e, nella misura in cui sono spinti a porsi in
una prospettiva distaccata rispetto ai personaggi stessi, potranno provare
nei loro confronti svariate reazioni emotive: compassione per la sofferenza
di Filottete, rabbia per le trame di Odisseo, paura per l’incombente
caduta di Edipo. Ma il pietoso e il terribile non caratterizzano semplicemente
il singolo caso: sono radicati nella complessiva struttura della forma-tragedia,
attraverso la peculiare forma di identificazione e simpatia con l’eroe
che essa coltiva. Usando la proficua terminologia di Wayne Booth, potremmo
definire tale prospettiva come quella dell’autore implicito,
ovvero di quella visione della vita che anima l’opera presa nel
suo complesso. Prospettiva che spesso prende corpo, nella tragedia, nelle
reazioni del coro, che incoraggia una certa gamma di reazioni emotive
nei confronti della trama che si sta svolgendo. La visione della vita
che anima queste opere, in altri termini, è quella di chi guarda
ai rovesci e alle sofferenze di persone ragionevolmente buone sia con
compassione che con paura.
La prospettiva dell’autore implicito opera solitamente
su diversi piani, da quello specifico e concreto a quello più generale.
Su un piano, vediamo le sofferenze di Filottete con compassione, pensando
a un mondo in cui uomini buoni e ammirevoli patiscono insopportabili dolori.
Più in generale, pensiamo a un’acuta sofferenza fisica, e
proviamo compassione per quelli che la patiscono. Su un piano ancor più
generale, tuttavia, siamo spinti a pensare alle sofferenze di Filottete
come a “fatti che possono accadere”, e a riflettere in un
senso più generale sulla vulnerabilità degli esseri umani
ai mutamenti di fortuna e al dolore. E queste prospettive più generali
sono anch’esse passibili di molteplici interpretazioni; consentono
allo spettatore molte diverse opzioni. Uno può concentrarsi sul
dolore fisico, un altro sull’inganno, un altro ancora sulla generale
vulnerabilità della vita umana a un rovescio improvviso.
Questa prospettiva generale sollecita poi gli spettatori a provare emozioni
di diverso tipo rispetto alle possibilità della propria vita. Vedendo
gli eventi come universali possibilità umane, gli spettatori li
vedono naturalmente anche come possibilità per se stessi. Così
di fronte alla situazione di Filottete possono provare paura per il proprio
dolore o per la possibilità di essere manipolati e maltrattati;
dolore per catastrofi simili che hanno colpito persone amate; rabbia nei
confronti di persone del loro mondo che strumentalizzano gli altri. Ancora,
queste emozioni operano su diversi piani di generalità e specificità:
posso collegare la strumentalizzazione di Filottete da parte di Odisseo
con qualche evento politico negativo nell’ambiente che mi circonda,
come le tragedie greche venivano spesso poste in relazione con il processo
decisionale democratico. Oppure posso semplicemente pensare, in un senso
più generale, alla possibilità che io o i miei cari potremmo
patire strumentalizzazioni e abusi. Posso pensare alla possibilità
specifica di essere colpita da una malattia molto dolorosa; o semplicemente
temere rovesci e difficoltà inaspettati.
Infine, gli spettatori possono anche sperimentare delle emozioni reattive,
sia generali che più concrete, nei confronti della sensibilità
dell’autore implicito. Reazioni che talvolta esprimono un rifiuto
dell’opera: è possibile reagire a una tragedia con rabbia,
o noia, o divertimento, semplicemente perché si pensa che sia una
cattiva tragedia, o che esprima sentimenti banali o sbagliati. Ma se l’opera
viene accettata dallo spettatore, tali emozioni reattive saranno di tipo
simpatetico: simpatia, per esempio, nei confronti degli stati di rabbia
o paura espressi nell’opera nel suo complesso – o forse una
simpatetica rabbia nei confronti di un mondo in cui si permette che accadano
cose così terribili. Nella tragedia, queste emozioni simpatetiche
sono di solito molto difficili da distinguere da quelle provate dalla
prospettiva dell’”autore implicito”, dato che quest’ultima
è già quella della compassione. Ma spesso le due prospettive
sono distinte. Se io seguo la straziante narrazione di Saffo del dolore
della gelosia amorosa, posso entrare nella prospettiva dell’autore
implicito (che s’identifica con quella del parlante), e provare
quell’emozione; ma, anche in questo caso, potrei semplicemente avere
una reazione di simpatia di fronte alle sofferenze così efficacemente
espresse. Queste emozioni reattive operano anch’esse su diversi
piani: posso provare simpatia per il personaggio Saffo; per le donne il
cui amore omosessuale è ostacolato dalle convenzioni amorose e
matrimoniali; per l’amore infelice in generale. E, a seconda di
come la mia vita si colloca rispetto a queste possibilità, proverò
una relativa gamma di emozioni a proposito delle mie prospettive amorose.
Abbiamo, quindi, i seguenti livelli e tipi di emozioni.
1.Emozioni nei confronti dei personaggi: a) condividere l’emozione
di un personaggio per identificazione; b) reagire all’emozione
di un personaggio. 2.Emozioni nei confronti dell’“autore implicito”,
della visione della vita intrinseca al testo nel suo complesso: a)condividere
quella visione della vita e le b)sue emozioni attraverso l’empatia;
b) reagire a esso, in senso simpatetico o critico. Queste emozioni
operano su diversi piani di specificità e generalità. 3.Emozioni
nei confronti delle proprie possibilità. Anche queste sono molteplici,
e operano su diversi piani di specificità e generalità.
Tutte queste reazioni emotive (a eccezione di quelle che implicano un
rifiuto dell’opera) sono inscritte nell’opera stessa, nella
sua struttura letteraria. Così il concludere che un’opera
ha un ricco contenuto emotivo non significa affatto sottovalutarne la
forma letteraria; anzi, senza far riferimento a questo contenuto non possiamo
adeguatamente descrivere la struttura di un’opera tragica.
Qual è il rapporto tra queste strutture formali della tragedia
e le effettive emozioni dello spettatore? È plausibile pensare
che le strutture formali siano tali da suscitare determinate emozioni
in quello specifico spettatore richiesto dall’opera, uno spettatore
che assiste con grande attenzione, seguendo le indicazioni della forma.
Non tutti gli spettatori dell’Edipo di Sofocle proveranno
pietà per Edipo e paura per se stessi. Come dice Wayne Booth, tra
il lettore (o spettatore) implicito e il lettore (o spettatore) reale
c’è spesso un abisso. Gli spettatori reali sono spesso distratti
e disattenti. Come Aristofane scriveva negli Uccelli, molti spettatori
della tragedia antica, «seccati dai cori tragici», pensavano
in realtà come sarebbe stato bello poter volar via a casa come
uccelli, per godersi il cibo, fare sesso, o andare al gabinetto. Ma lo
spettatore implicito – che è anche quello reale, quando è
in adeguata sintonia con l’opera – proverà una gamma
di emozioni legate alla presenza del pietoso e del terribile nella trama.
Come ho detto, vi sono diverse opzioni per lo spettatore, specie nella
scelta del livello di generalità e dei nessi tra l’opera
e la propria vita; la forma, quindi, non implica un’unica “appropriata”
esperienza – offre piuttosto una gamma di esperienze possibili.
Ho affermato che lo “spazio potenziale” dell’attività
estetica è quello in cui indaghiamo e sperimentiamo le diverse
possibilità della vita. Nel reagire a una tragedia con pietà
e paura, stiamo cogliendo qualcosa di cruciale, non solo a proposito dei
personaggi, ma anche sul mondo e su noi stessi: non solo che Edipo giunge
a soffrire senza alcuna colpa, ma anche che questo può accadere
pure a una persona buona, e che può accadere anche a noi. Così
il lettore o spettatore di un’opera letteraria sta sì leggendo
o assistendo all’opera, ma allo stesso tempo sta leggendo il mondo,
e la propria identità. L’opera è in questo senso,
come dice Proust, uno “strumento ottico” mediante il quale
il lettore può mettere a fuoco certe realtà personali. La
comprensione cognitiva non è prodotta dall’esperienza emotiva,
è intrinseca a essa. E le cognizioni, se in un certo senso sono
separabili dall’opera – perché possiamo giungere a
comprendere certe cose sulla nostra vita senza assistere a una tragedia,
e possiamo conservare la conoscenza che questa promuove anche dopo che
l’esperienza si è conclusa –, sono ancora “a
proposito” dell’opera, “in relazione” a essa,
reazioni a essa. Anche quando riguardano la nostra vita, implicano sempre
la comprensione delle specifiche strutture letterarie dell’opera.
Anzi, è questo che rende la tragedia così importante per
la nostra vita: il fatto che le sue forme siano tali da produrre esperienze
che squarciano la monotonia della vita quotidiana, mostrandoci qualcosa
di più profondo su noi stessi e la nostra reale situazione.
In questo senso, come sottolineava Aristotele, la poesia è “qualcosa
di più filosofico” della storia. La storia ci narra quello
che è accaduto un tempo: ma ciò può non rivelarci
alcunché di interessante sulle nostre possibilità, se si
tratta di un evento particolare. Diversamente, l’opera letteraria
ci mostra degli schemi di azione verosimili in senso generale, “fatti
che possono accadere” nella vita umana. Nel cogliere gli schemi
di azione rilevanti indicati dall’opera, cogliamo anche delle possibilità
per noi.
In tutto ciò è contenuta una risposta alla precedente domanda
sulle emozioni negative. Se cerchiamo dolorose esperienze mediante la
letteratura, così argomentava Aristotele, è per la comprensione
del Sé e del mondo che esse ci offrono. E se la comprensione in
quanto tale ha un contenuto penoso – perché è sempre
penoso riconoscere di essere una creatura bisognosa e limitata –,
è d’altro canto cosa apprezzabile e piacevole giungere alla
comprensione. L’attività estetica, che ha luogo in uno “spazio
potenziale” protetto in cui la nostra sicurezza non è immediatamente
minacciata, lega il piacere di esplorare a quella condizione di bisogno
e insufficienza che ne sono l’oggetto, rendendo così piacevoli,
o almeno non minacciose per noi, le nostre limitazioni. L’esercizio
di questa forma di comprensione ci mette al riparo da una dura e arrogante
sensazione di autosufficienza, che nella vita danneggerebbe in molti sensi
il nostro rapporto con gli altri. Si tratta di esperienze che migliorano
la comprensione della nostra geografia emotiva; aiutandoci anche “a
rassicurarci in parte, in modo non-distruttivo, della profondità
e ricchezza della nostra sensibilità”, e rendendo la nostra
personalità aperta e ricettiva. Come sottolinea Aristotele, chi
ha una “disposizione all’arroganza”, una hybristikê
diathesis, non proverà pietà. Le tragedie costruiscono
uno spettatore che non ha una hybristikê diathesis, aperto
a esperienze emotive sulle sofferenze altrui, e che è quindi in
qualche modo meglio preparato (a parità di altre condizioni) a
porsi in rapporto con gli altri esseri umani su un piano di reciprocità.
Abbiamo così un quarto tipo di emozione, da aggiungere alla nostra
lista delle emozioni dello spettatore: la gioia o la piacevole emozione
di giungere a comprendere qualcosa.
È per questa ragione che Proust paragona i romanzi alle esperienze
di lutto o di altre profonde emozioni della vita reale: “Perché
certi romanzi sono come grandi lutti momentanei, aboliscono l’abitudine,
e rimettono in contatto con la realtà della vita”. Le abitudini
ci nascondono la nostra reale condizione – il nostro “essere
bisognosi”, il nostro amore per oggetti incontrollabili, la nostra
vulnerabilità. Un romanzo, come una perdita, ci mostra la verità
della nostra condizione – anche se solo momentaneamente, per un
attimo rapidamente eclissato dall’ “oblio” e dalla “gaiezza”
della routine quotidiana.
Ma le emozioni dello spettatore sono emozioni reali? È alquanto
ovvio che esse non hanno tutte per oggetto una concreta e reale situazione
nella nostra vita, anche se per alcune è così. E questo
comporta una differenza nella loro intensità e durata. D’altra
parte, anche se restiamo consapevoli che la storia di Edipo è una
finzione, le nostre emozioni si indirizzano in due modi verso il mondo
reale: assumendo oggetti generali insieme a quello particolare della finzione,
e prendendo a oggetto noi stessi. Siamo consapevoli del fatto che la tragedia
cui assistiamo è quella di un personaggio fittizio; e tuttavia
siamo anche consapevoli che si tratta di possibilità di tutti gli
esseri umani, e quindi della storia della nostra condizione nel mondo.
Così nel provare pietà per Edipo proviamo anche pietà
per tutti coloro che patiscono una disgrazia simile. Nel provare paura
per la sua situazione, temiamo la possibilità di subire un simile
rovescio.
Se vediamo così le cose, possiamo comprendere come le emozioni
possano essere genuine, e non artefatte, e anche come possano avere, come
quelle della vita reale, un contenuto cognitivo. La pietà ha il
contenuto: “Qualcuno che è (al momento) importante per me
sta soffrendo per disgrazie immeritate”. Contenuto che si articola
su due piani: sul piano concreto, questi pensieri assumono Filottete,
il personaggio di fantasia, come proprio oggetto intenzionale; e in questo
senso lo spettatore conserva la contemporanea consapevolezza che quella
persona esiste in un mondo fittizio, e non in quello reale. Su un piano
più generale, tuttavia, la pietà assume a proprio oggetto
intenzionale l’ingiustificata sofferenza realmente esistente al
mondo, quella che ci fa ascoltare la storia di Filottete e che ce la fa
apparire plausibile. Analogamente, su un piano temiamo che Edipo soffra;
su un altro piano, temiamo i “fatti che possono accadere”
a noi e a quelli che ci sono cari. Se l’opera non fosse così
legata alla vita, mediante fili di plausibilità, non potrebbe essere
così coinvolgente sul piano emotivo. Lo constatiamo quando leggiamo
un’opera malriuscita: se non riusciamo a vederla come storia di
“fatti che possono accadere”, non proviamo delle vere emozioni.
Consideriamo un altro genere costruito intorno alle emozioni negative:
il film dell’orrore. Siamo tentati di pensare che le emozioni che
proviamo per questi film non possano essere un terrore o un’ansia
reali, o non cercheremmo esperienze simili. Ma la questione è più
complessa. Anche in questo caso, la mia ipotesi è che questi film
abbiano potere e interesse proprio nella misura in cui riescono a porci
in relazione agli eventi come “fatti che possono accadere”,
costruendo così delle emozioni reali, che operano nei quattro modi
da me identificati. Quando guardo Psycho di Hitchcock, a un certo
livello ho paura (1) per Janet Leigh che sta sotto la doccia. So bene
quale pericolo incombe su di lei – o, se ho già visto il
film, so assai bene che tra breve il suo sangue scorrerà nello
scarico della doccia. Nel temere per lei, conservo la consapevolezza che
si tratta di finzione, e che nessuna persona nel mio mondo reale è
al momento minacciata. Ma la ragione per cui questo momento del film ha
un tale mitico potere, ovviamente, è che si tratta di un “fatto
che può accadere”.
Il corpo femminile è sempre vulnerabile allo stupro e all’aggressione.
Nel temere per la Leigh, quindi, io sono anche consapevole (2) della vulnerabilità
delle donne a tali violenze. (Posso provare queste emozioni su molti diversi
piani di generalità, pensando a tutte le donne, alle donne americane,
e così via.) Se sono una donna, penserò anche (3) al mio
corpo e alle sue possibilità. Se non lo sono, penserò ai
corpi delle donne che mi sono care.
Su tutti questi piani provo una paura reale. La mia paura per la Leigh
è concreta, ma non conduce ad alcuna azione, dato che sono consapevole
che ella vive in un mondo di fantasia. La mia paura per le donne americane
è relativa al mondo reale; non conduce a nessuna particolare azione
in questo momento, ma può provocare una forma di interesse che
potrebbe, in linea di principio, condurre all’azione. La mia paura
per me stessa è, di nuovo, relativa al mondo reale, e provoca una
forma di interesse che potrebbe in linea di principio condurre all’azione.
Il modo in cui Hitchcock costruisce l’espisodio cruciale gioca sui
diversi piani della nostra attenzione, mentre seguiamo la trama e allo
stesso tempo esploriamo la nostra vulnerabilità. Vediamo il comportamento
fiducioso della donna, mentre se ne sta nuda nella doccia. E possiamo
vedere, diversamente da lei, la minaccia che le si avvicina. In un contesto
sicuro, permettiamo a noi stessi di esplorare una paura che su qualche
piano ci accompagna ovunque andiamo. Quello che vogliamo, da opere del
genere, è la possibilità di esplorare queste paure in una
situazione di sicurezza immediata.
Poiché siamo in un contesto di sicurezza, siamo anche incoraggiati
a provare una gamma di emozioni reattive: 1) simpatia per la Leigh, e
rabbia nei confronti del vio- lentatore che la bracca; 2) simpatia per
le donne che sono violentate o aggredite, e rabbia nei confronti dei loro
aggressori.
Ma la questione è ancor più complessa, dato che il film
in effetti costruisce per il suo spettatore un’inquietante duplice
identificazione. Attraverso il suo caratteristico uso voyeuristico e aggressivo
della macchina da presa, Hitchcock pone lo spettatore nella posizione
del pericolo che bracca l’eroina. E porta così gli spettatori
in contatto con il proprio sadismo e la propria aggressività persecutoria.
La stessa macchina da presa ci rende complici dell’aggressione,
come peraltro la stessa struttura del “genere”: entrambe risvegliano
il nostro desiderio di caos e di sangue. Una ragione evidente della potenza
di Hitchcock è la sua misteriosa capacità di indagare gli
aspetti più inquietanti dell’emozione infantile. Vogliamo
sia salvare la Leigh che vederla squarciata, sia identificarci con lei
che perseguitarla. E in questo diveniamo consapevoli della nostra aggressività
nei confronti degli oggetti amati. Queste esperienze non avrebbero potere,
se non stessimo esplorando la nostra psiche e le sue possibilità.
E infine, in questo come nel caso della tragedia, proviamo (4) l’euforia
e la gioia di imparare qualcosa su noi stessi, per quanto perturbante
sia, per certi aspetti, tale conoscenza.
Un approccio del genere alle opere di fantasia – che siano in relazione
a noi e al nostro mondo interiore – può forse condurre a
trascurarne la forma? Niente affatto. È proprio in virtù
dei suoi caratteri formali, infatti, che un’opera del genere riesce
a costruire delle emozioni riguardo alle nostre possibilità; né
una descrizione della sua forma sarebbe completa, se non si collegasse
alle emozioni umane. La Poetica di Aristotele è in un
certo senso un libro sulla forma della tragedia. Ma la sua descrizione
della forma implica la discussione della pietà e della paura, perché
la struttura di un dramma tragico è costruita intorno all’evocazione
di queste emozioni.
Il rischio più grosso è che tale approccio, focalizzato
com’è sulle possibilità umane in generale, possa condurre
a trascurare il contesto storico e culturale. Talvolta ci imbattiamo nell’opinione
che una tragedia, o un’opera musicale, esprimano dolore o gioia
in una forma eterna e universale, tale da non esigere che l’interprete
sia educato in una particolare tradizione estetica o culturale. […]
Io contrasto quest’approccio, sostenendo che le caratteristiche
espressive di un’opera musicale non possono essere decifrate senza
una considerevole conoscenza della tradizione musicale cui appartiene
e dell’opera complessiva del compositore. Lo stesso è evidentemente
vero per le opere letterarie, anche se su un piano molto generale le loro
rappresentazioni di comuni avvenimenti umani possono talvolta produrre
emozioni attraversando grandi differenze spaziali e temporali.
Stiamo semplicemente adoperando l’opera come strumento della nostra
comprensione, se la viviamo come un’esplorazione dei “fatti
che possono accadere”? Non vedo motivi per trarre questa conclusione.
Ogni opera abbastanza ricca nella struttura e nel contenuto da provocare
delle profonde reazioni emotive susciterà anche ammirazione e stupore
per la sua complessità formale. Ho detto che stupore e gioia sono
elementi cruciali della dinamica del gioco estetico; e, come negli altri
casi della vita, essi conferiscono a questa dinamica un carattere non-strumentale
e in una certa maniera non-eudaimonistico. E dato che l’opera è
essa stessa un simbolo di oggetti amati del nostro mondo, provocherà
anche in una certa misura, come ogni oggetto transizionale, le emozioni
di amore e gratitudine che proviamo per quegli oggetti.
Alcune opere d’arte susciteranno solo stupore e gioia, senza far
sgorgare le nostre emozioni più eudaimonistiche. Questo è
chiaramente vero per alcune opere di arte visiva e musicali, e anche per
alcune opere letterarie, quelle che piacciono fondamentalmente per la
raffinatezza della forma e non si propongono di esplorare l’interesse
umano per il tempo, la morte, l’amore, e altri temi eudaimonistici.
D’altra parte, vi sono degli interi generi letterari che non possono
affatto funzionare senza ricchi legami eudaimonistici con i loro fruitori:
la tragedia, il romanzo, il melodramma, il romanzo realista, e alcuni
tipi di commedia. Questo ci aiuta a dare una risposta più generale
all’accusa di trascurare il valore estetico: non possiamo spiegare
come funzionano questi generi senza chiamare in causa i modi in cui essi
si pongono in rapporto con l’interesse del pubblico per i volti
dell’umana possibilità.
|