Bill Viola, Christian Nold, Yves Netzhammer
Teresa Margolles, Valerio Magrelli, William Kentridge
Katharina Grosse, Andrea Ferrara, Elisa Biagini
Maurice Benayoun, Antonella Anedda
 
   
  Pubblicazione
Prefazione di James M. Bradburne
Sistemi Emotivi di Franziska Nori
   
 

"Che cosa sono i sentimenti" Antonio Damasio
"Emozione, razionalità e arte" Ronald de Sousa
"Empatia, movimento ed emozione" David Freedberg
"Le emozioni"
Peter Goldie
"Il cervello emotivo" Joseph LeDoux
"Fatti che possono accadere" Martha Nussbaum
"La teoria degli “emotives”: una sinossi" William M. Reddy

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  Dopo aver ripercorso e criticato la famosa teoria antropologica delle sei “emozioni primarie” di Paul Ekman, in voga fino agli anni ottanta, in seguito smentita da altri studi che già definivano il legame tra le emozioni e i processi cognitivi,William Reddy giunge alle conclusioni, proprie degli psicologi sperimentali, che stabiliscono il profondo e “inestricabile” intreccio tra processo emotivo e processo cognitivo. La ricerca che prende a modello è quella della teoria degli atti linguistici, che riguarda le frasi, gli enunciati e i linguaggi che allo stesso tempo sono anche azioni, e che influiscono sul mondo circostante. Queste espressioni emozionali, sono chiamate da Reddy “emotives” e a queste è attribuita una fondamentale importanza sociale e politica.
   
  La teoria degli “emotives”: una sinossi
William M. Reddy
   
  Negli anni settanta e ottanta numerosi studi di psicologia, condotti in diverse parti del mondo, sembravano dimostrare che ovunque le persone reagiscono nell’identico modo davanti a determinate espressioni facciali. Nelle Filippine, in Sud Africa, in Giappone o in Micronesia, tutti i soggetti associavano i vocaboli della loro lingua corrispondenti a certe emozioni primarie alla stessa serie di espressioni del viso. Tutti affermavano che la faccia A era felice, la B triste, la C arrabbiata, la D impaurita, la E sorpresa, la F disgustata. Felicità, tristezza, rabbia, paura, sorpresa e disgusto sono le emozioni della celebre “teoria delle emozioni primarie” di Paul Ekman, secondo la quale tutti gli esseri umani possiedono sei modelli di risposta emotiva innati che, quando attivati, producono sei diverse espressioni facciali. Gli stessi modelli ci consentono di riconoscere quelle espressioni quando le vediamo sul volto degli altri. Ekman sosteneva che, al pari delle tinte che nascono dalla fusione dei colori primari, tutte le altre emozioni sono semplicemente una combinazione delle prime sei. Quella delle emozioni primarie fu soltanto la più influente di una serie di teorie, tutte basate su antiche culture popolari dell’Occidente. Già gli antichi greci ritenevano che le emozioni non fossero costruite, ma nascessero spontaneamente dal corpo. Secondo Seneca erano provocate da un adfectus, erano turbamenti che potevano alterare la ragione. Cartesio elaborò una propria teoria delle emozioni primarie, come fece anche Darwin.
Nel corso degli anni novanta, tuttavia, la validità della teoria di Ekman e degli esperimenti che la suffragavano fu messa seriamente in discussione. I test, ad esempio, erano basati su una procedura a scelta obbligata, vale a dire che la lista dei termini da cui i soggetti potevano scegliere era già limitata a sei parole. Prima che i test venissero somministrati i soggetti furono fatti esercitare nelle procedure. Quando un soggetto sceglieva una parola per un’espressione facciale, non si trattava necessariamente del termine che preferiva rispetto agli altri, ma soltanto di quello più appropriato tra i sei disponibili. Quando ai soggetti veniva consentito di scegliere una parola qualsiasi, ogni parvenza di accordo sul significato emozionale delle espressioni facciali veniva meno, anche tra individui con background culturali simili. Negli anni novanta la teoria delle emozioni primarie fu contestata da nuovi studi dai quali si evinceva che le emozioni sono risposte più complesse e sfaccettate, profondamente legate ai processi cognitivi, che diventano automatiche nello stesso modo del linguaggio, cioè attraverso la ripetizione costante e l’overlearning (superapprendimento). Il fatto che in una stanza piena di anglo-foni tutti riconoscano velocemente la parola pencil (matita) quando questa viene proiettata su uno schermo non significa che tale riconoscimento sia una risposta geneticamente programmata.
Negli anni ottanta e novanta anche gli antropologi hanno studiato la variazione emotiva con rinnovato interesse. Il lavoro sul campo svolto in numerose comunità ha dimostrato come a variare siano non solo i concetti locali di “emozione” e il relativo lessico, ma anche i processi emozionali veri e propri. Alcuni popoli polinesiani non hanno la parola per cordoglio e nel caso della perdita di un amico negano di sentirsi tristi, ammettendo soltanto un certo disagio o un lieve malessere. In America la parola amore ha una connotazione di felicità; in Cina e tra gli Ifaluk della Micronesia è considerata come intrinsecamente triste. In America l’orgoglio ha una valenza moralmente positiva, mentre in Giappone è considerato antisociale. Differenze analoghe si riscontrano per gli equivalenti concetti di tristezza, paura, rabbia e vergogna. I rispettivi termini locali variano non solo nel significato, ma anche nella valenza morale che si attribuisce loro e nel tipo di comportamento che essi stimolano. Ne risulta che la maggior parte delle società ha ideali e norme emozionali ben definiti. Anche se il loro contenuto varia enormemente, in pratica esistono sempre una o più emozioni ideali, una o più norme – regole emozionali che non devono essere violate – una o più emozioni da biasimare. Analizzando le ricerche antropologiche sono rimasto colpito dalla diffusa evidenza che l’apprendimento degli stati emozionali ammissibili avveniva mediante rituali collettivi, così come attraverso la continua e quotidiana ripetizione di determinate formule. La ripetizione sembrava consentire l’apprendimento emozionale. Tale scoperta sembrava corrispondere ad alcune conclusioni degli psicologici sperimentali, tra le quali figurava il modello della cosiddetta attribuzione errata (misattribution). In generale i soggetti riferivano che le loro vite erano meno felici se interrogati in un giorno piovoso anziché in uno sereno, e attribuivano erroneamente uno stato d’animo provocato dal clima alla condizione generale delle loro esistenze. Se veniva chiesto loro di guardare un’immagine sexy, i soggetti generalmente la trovavano più attraente se erano appena scesi dalle montagne russe. Attribuivano erroneamente a quell’immagine il loro stato d’eccitazione, provocato in realtà dall’esperienza appena vissuta.
Le emozioni possono anche essere facilmente indotte. Davanti all’immagine di una persona felice, era più pro- babile che i soggetti dichiarassero di essere felici. Si ritiene che un volto felice attivi pensieri felici. I pensieri attivati si presentano all’attenzione con più facilità, infatti durante il compito successivo – rispondere a una domanda sul proprio stato d’animo – i pensieri felici erano quelli più facilmente accessibili. Alcuni psicologi si sono spinti al punto di ipotizzare che condizioni quali l’ansia o la depressione sono sostenute da pensieri negativi “cronicamente accessibili”, ossia pensieri che sono sempre in uno stato di attivazione elevato. Al contrario, della persona mentalmente sana si dice che ha un atteggiamento positivo, e dispone di una serie di pensieri ottimisti cronicamente accessibili su se stessa e sulle opportunità della vita.
Questo genere di teorie è molto distante dalla teoria delle emozioni primarie. Molti psicologi sperimentali sono giunti alla conclusione che il processo emotivo e quello cognitivo sono “intrecciati in maniera inestricabile” e che il primo è altrettanto variabile e mutevole del secondo.
Quando mi sono reso conto che le ricerche psicologiche e quelle antropologiche giungevano a conclusioni simili, ho ipotizzato una teoria delle emozioni liberamente basata su un’analogia con la teoria degli atti linguistici. Quest’ultima riguarda gli enunciati che sono anche azioni. “Ti ordino di chiudere la porta” ne è un buon esempio. Dicendo: “Ti ordino…” in effetti la persona ordina. L’enunciato è l’atto. Gli atti linguistici non si limitano a rappresentare, non sono semplicemente veri o falsi, ma influiscono sul mondo circostante. J. L. Austin li definiva “performativi”. A mio parere anche l’espressione emozionale influisce sul mondo circostante e non si limita a segnalare qualcosa. Quando esprimiamo un’emozione, come nel caso dell’enunciato “Sono triste”, attiviamo determinati pensieri, facendo in modo che essi raggiungano più facilmente l’attenzione. Potremmo ricordare un congiunto scomparso o una grave perdita economica e di conseguenza la nostra tristezza potrebbe aumentare dopo aver detto “sono triste”. Le espressioni emozionali sono come profezie che si auto-realizzano (self-fulfilling prophecies), ma possono sortire l’effetto opposto. Possono non funzionare o addirittura suscitare un sentimento opposto. In questo senso un’espressione emozionale può essere sia esplorativa (cerchiamo di capire se funziona) che strumentale (ce ne serviamo per metterci nello stato d’animo che vogliamo), e spesso può essere entrambe le cose contemporaneamente. Propongo di chiamare tali espressioni emozionali emotives. Considerata in questo modo, l’espressione emozionale assume un’importanza sociale e politica fondamentale. La nostra capacità di forgiare i sentimenti è sottoposta al controllo della comunità più vicina. Solo le comunità che condividono uno stile emozionale possono sperare di coordinare i propri obiettivi e comportamenti. Un buon esempio è rappresentato da un consiglio reale o da un corpo legislativo: qui la discussione può portare a un risultato solo se i membri del gruppo concordano sul giudizio rispetto a determinate espressioni emozionali, ritenendone alcune buone o accettabili e altre inammissibili. La letteratura antropologica dimostra l’esistenza di un’ampia gamma di variazioni: quella che oggi il parlamento inglese ritiene sia un’espressione emozionale accettabile, sarebbe stata considerata un oltraggio criminale dalla corte imperiale giapponese del periodo Heian. Malgrado tali differenze, la presenza universale di ideali e norme conferma il fatto che l’espres- sione emozionale pertiene al dominio dell’auto-esplorazione e dell’auto-sviluppo.
La collettività può trasformare se stessa, anche se all’interno di limiti difficili da definire. L’esito di un training emozionale collettivo non è sicuro, solo probabile. L’adattabilità del gruppo può contribuire a spiegare alcune pratiche quali i combattimenti tra gladiatori nell’antica Roma, o i melodrammi popolari dell’Europa settecentesca. I combattimenti tra gladiatori furono popolari forse perché rappresentavano ed esaltavano una sorta di aggressività senza freni che i Romani consideravano un ideale emozionale degno di ammirazione. Gli spettatori del Settecento, invece, si recavano a teatro per provare l’esperienza della compassione, commuovendosi più volte nel corso di una serata mentre assistevano alla messa in scena di un dramma di Diderot o di un’opera di Gluck. Queste persone non erano né selvagge né ipocrite. Al contrario, esse stavano ripetendo il loro training per far sì che determinate emozioni positive – l’aggressività o la compassione – rimanessero overlearned, facilmente accessibili all’attenzione, automatiche. Qualsiasi ordine sociale coerente avrà una politica emozionale, composta da uno o più stili emozionali approvati, organizzati attorno a una serie di emozioni ideali, attorno a norme che condannano altre emozioni, e sostenuta da sanzioni stabilite per coloro che si rifiutano o non sono in grado di rispettare le regole. Un dato stile emozionale sarà facile da sostenere in una determinata epoca, mentre in altre potrebbe entrare in crisi, al punto da spingere l’ordine sociale a darsi una nuova configurazione. Da questo punto di vista, le emozioni sono un elemento indispensabile di ordine culturale e di pratica sociale. Gli studiosi che si occupano del passato, delle forme d’arte espressive, dei cambiamenti sociali o della diversità umana hanno buoni motivi per prestare maggiore attenzione di quanto non sia avvenuto prima alle scene e ai rituali collettivi che stanno alla base dell’espressione e degli stili emozionali.
   
 

Il breve saggio che pubblichiamo, nella traduzione italiana di Irene Inserra (Scriptum, Roma), è stato scritto espressamente per questa pubblicazione, dallo storico e antropologo americano William M. Reddy, autore di una famosa “storia delle emozioni”: The Navigation of Feeling: A Framework for the History of Emotions, (Cambridge University Press, 2001).

   
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