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  Arte Ecologia Sostenibilità / 24.04 – 19.07.2009
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Franco La Cecla
   
  La gestione indispensabile
Franco La Cecla
   
  La prima popolarizzazione della crisi ecologica si ebbe a metà degli anni ’70 con la crisi energetica. Sembrava che il petrolio dovesse finire, ed effettivamente in quel momento per la prima volta ci si accorse della sua natura come risorsa limitata.
Il Club di Roma produsse un Rapporto sui limiti dello sviluppo (1972) che ebbe risonanza mondiale. In quegli stessi anni, un vasto movimento di opinione prodottosi inizialmente in California battezzò “ecologia” l’idea di un nuovo rapporto “armonico” tra uomo e natura e cominciò a demolire l’idea “teologica” del progresso illimitato.
Questa magnifica onda fu abbastanza forte da propagarsi come coscienza nei paesi più diversi e negli strati di popolazione più vari, ma non bastò a far mutare nell’insieme le vecchie strutture delle istituzioni e dei comportamenti.
Oggi, a distanza di quarant’anni, siamo di fronte a una situazione ben più preoccupante: il cambiamento climatico è una evidenza a dispetto dello scetticismo e del negazionismo di molti illustri scienziati e lo stato del mondo è “al limite” tra contaminazione dei suoli e dell’aria, desertificazione, impoverimento generale della diversità animale e vegetale, deforestazione e inquinamento di strati profondi di mari e oceani. In più la situazione mondiale di concentrazione delle risorse in poche mani e in pochi paesi, lo sconquasso delle diaspore di centinaia di milioni di persone ogni anno, la deruralizzazione e l’inurbamento segnano un quadro di un mondo ingiusto e disperato dove ad una risicata minoranza viene dato il diritto di ignorare il disastro generale in cui ci siamo infognati. La rivista “New Scientist”, in un recentissimo numero, ha delineato lo scenario che ci attende se la temperatura del globo aumenterà dei 4 gradi previsti di qui a qualche decennio: il novanta per cento della popolazione mondiale è in pericolo. Oggi per quel che riguarda la trasformazione delle istituzioni, delle mentalità e dell’orientamento collettivo rispetto a questi temi, le cose sono solo timidamente cambiate. In questi quarant’anni molti pensatori hanno elaborato analisi, descritto scenari e invitato a compiere delle svolte decisive. Una parte di questi pensieri è confluito nell’arengo politico e vi ha fatto, in genere, naufragio. Il pensiero ecologico, il pensiero verde, è stato in generale risucchiato da un contesto, quello della politica post-hegeliana, in cui “il punto di vista”, “il partito preso”, “la scelta di campo” valeva e vale molto di più di un generale cambiamento di mentalità. Allora come adesso, il problema dell’ecologia e del pensiero ad esso connesso è di avere voluto una traduzione nel campo che ne falsificava l’azione. In qualche modo la politica è proprio il luogo della contaminazione, della polluzione delle idee di natura. Luogo eminentemente conflittuale, non può ammettere altro che le ragioni di un litigio, non le ragioni di una composizione profetica come quella offerta dalla prospettiva “verde”.

Nel 1990 organizzai in convegno a Milano dal titolo La natura e i media dove insieme a Jack Goody, Jean Baudrillard e Paolo Fabbri indicavamo con il termine “pornoecologia” il pericolo di un uso dell’ecologia a fini puramente “glamour”, una ecologia svilita dalla sua natura di trasformazione del modo di vivere e asservita, invece, ai vecchi carrozzoni della politica, dei media e della moda. Proprio coloro che stavano cavalcando l’ecologia di allora - partiti verdi, riviste patinate sull’ambiente e gli stessi grandi movimenti come il WWF - rischiavano di essere i primi responsabili di questo nuovo tipo di pornografia della natura (come ad esempio: il leoncino, al posto della ragazza discinta, accanto all’ultimo modello di frigorifero o di automobile). Quell’allarme, ovviamente, rimase solo un modo di fare infuriare le solite persone in buona fede e convinte di essere nel giusto. E fece infuriare sopratutto i politici “verdi”.
All’ecologia è successo di essere finita troppo presto nei canali conosciuti e di non avere, invece, fatto tesoro della ricchezza di elaborazione del pensiero che va dalle grandi intuizioni di Gregory Bateson, alla riflessione sulle “tre ecologie” di Félix Guattari, fino alla filosofia della responsabilità di Hans Jonas e ai riflessi antropo-politici di Bruno Latour. Un pensiero che era, ed è ancor oggi, capace di far riaprire gli occhi tarpati delle istituzioni e di avviare riforme di mentalità. Il problema è che dal punto di vista politico, in Germania come in Italia, in Francia come negli Stati Uniti si è fatto di tutto per privare questo pensiero della sua radicalità rivoluzionaria.
Si pensi all’accoglienza sospettosa che buona parte della sinistra ha tributato alla critica radicale che Ivan Illich faceva nei confronti delle istituzioni e delle professioni mutilanti. Ivan Illich è riuscito a raccontare e analizzare, nella sua lunga opera di ricerca, le radici dei sistemi che creano dipendenza e diventano controproduttivi e il monopolio del modo di produzione industriale (che è anche quello della scuola, del lavoro, del sistema sanitario, della Chiesa fino ad arrivare al controllo mediatico e virtuale).
Il pensiero verde si è costituito negli ultimi quarant’anni come un profondo sistema che affonda le proprie radici nella filosofia classica e che si ramifica nella spiritualità di culture differenti. Questo pensiero ha, inoltre, “riscoperto” le culture indigene come serbatoio effettivo di una riflessione pratica e mitologica sulla natura.
L’antropologia in particolar modo è stata profondamente cambiata da questa prospettiva. I popoli studiati diventavano non solo dei formidabili bricoleur, ma popoli che avevano intuito la neccessaria profonda connessione con i ritmi e i cicli dei contesti geografici, climatici delle risorse. Qualcuno come Marshall Sahlins ha concentrato in un’unica riflessione nuovi parametri economici legati alle culture dell’abbondanza e della sussistenza (che non è una contraddizione perchè il produrre anzitutto per la sussistenza garantisce il legame di abbondanza tra terra e popolazione) in una lettura che si giovava della ricchezza di dati archeologici e antropologici.

Se si volesse dare una configurazione spaziale a questa produzione di pensiero, occorrerebbe tracciare un disegno sul quale in alto sta il pensiero “scritto” di filosofi, antropologi, romanzieri e biologi e più in basso la deriva profonda delle mentalità: da quelle indigene, dove il pensiero diventa sistema di credenze e di pratiche, rituali, alleanze e, sempre nella stessa fascia, il modo con cui nella nostra mentalità contemporanea si è fatto avanti il senso del rischio ambientale, ma anche l’anelito generale ad una uscita dalla visione puramente materialista ed economicista del mondo. Credo che, in un’ottica foucaultiana, queste mentalità oggi si mescolano e si influenzano molto più di quel che crediamo. C’è una realtà di contaminazione di diverse fasce del pensiero che fanno sì che la riflessione sullo stato attuale del mondo non sia un ambito riservato ad una élite, ma un movimento più generale che abbraccia reazioni emotive, maniere di sentire, forme di vita, pratiche e resistenze. Questa è una delle conseguenze, per altro, della mondializzazione: un rimescolamento delle varie forme di pensiero e di sensibilità.

In mezzo a queste due fasce c’è stata, negli ultimi trent’anni, una terza, la fascia della politica. Il politico non solo è stato assente, non provocando alcuna svolta epocale ma, come detto in precedenza, il politico per sua natura è stato il maggiore ostacolo ad una visione diversa dell’ambiente come “casa comune”. L’ecologia non può passare attraverso la politica, per come questa attività è stata concepita negli ultimi cento anni. Proprio perchè qui non è questione di ideologie contrapposte, ma di una gestione indispensabile; come se un paese mettesse nell’arengo politico la questione del funzionamento di un acquedotto o di un aereoporto (il funzionamento, non la sua posizione, scelta o altro).
Manca alla nostra politica l’idea di una concertazione sulle risorse, di un accordo che superi le contingenze dei Governi. La questione ecologica è un pò come la questione della moneta comune o della connessione ad una rete informatica. Si tratta qui di un senso del funzionamento che non può essere messo in ballo come se fosse una posizione opinabile da un anno all’altro. Non è un caso che le uniche organizzazioni che hanno funzionato in questo campo sono quelle che somigliano ad organismi transnazionali per i diritti umani o per l’assistenza immediata in caso di disastri, come Greenpeace, Conservation International o l’UNDP.
Se a questo si aggiunge la corruzione tipica dell’arena politica, che in Italia proprio nel contesto politico ambientale ha toccato limiti paradossali, si capisce che la partita in questo campo ha provocato sopratutto danni. La gente ha identificato la corruzione dei singoli con la corruzione delle idee e si è ritratta da queste, perché inorridita o annoiata.

Per fortuna siamo di fronte ad una pesantissima crisi economica, che, sappiamo bene, nasconde una crisi delle risorse ancora più terribile e temibile. Mai come adesso tutti coloro che si facevano beffe degli allarmismi ambientali sono stati smentiti, e la loro unica possibilità sarà, forse, quella di continuare con il negare l’evidenza o con il minimizzare il problema, indicandolo come l’ultimo in ordine di importanza.
La questione ecologica, però, riaffiora sempre in tutti i momenti in cui la “realtà” si ripropone con le sue emergenze in tutta la sua durezza. Questo riemergere porta in primo piano una deriva molto più profonda. Il nostro pensiero giudaico-cristiano ha negato qualunque attribuzione di autonomia alla natura, negandole, pertanto, una presenza e un discorso “tutto suo”. Il creazionismo insiste sull’idea che è l’uomo l’unico agente di significato, l’unico che può dare nome alle cose. In tutte le culture indigene invece gli alberi, gli animali, le pietre, i fiumi, le montagne sono agenti di significato al pari delle persone. E’ quello che gli antropologi hanno definito, malamente in passato, animismo: l’idea che tutte le cose abbiano un’anima. Ebbene questa visione del mondo, questo pensiero che si muove con il mondo e che dialoga con sè stesso e con tutti i suoi elementi, ogni tanto nella storia riemerge. Qualche artista, qualche poeta, qualche filosofo e sopratutto la gente che ancora vive a contatto con gli elementi naturali sanno bene che questa deriva non si è mai del tutto spenta. Oggi siamo proprio in presenza di un ritorno del genere. Pensate che squallore e che tristezza se tutto dovesse di nuovo cadere nelle mani di coloro che pensano che la natura sia soltanto “something to fix”, qualcosa che non funziona più tanto bene e a cui bisogna dare un’aggiustatina.
L’animismo è una forma di pensiero che proietta la società sulla natura e non viceversa, questo è ciò che più potrebbe fare paura alla poltica. Come più volte ha raccontato Bruno Latour, oggi la vera crisi è una crisi della rappresentanza, chi e cosa va rappresentato in un parlamento, in piazza o nei media. Chi rappresenta gli alberi, i pesci, l’aria, il mare, i fiumi, chi rappresenta oggi il “vivente”, ma anche la natura nelle sue composizioni temporali, le stagioni che stanno per essere sacrificate alla mondializzazione. Poeti come Gary Snyder ci hanno insegnato che occorre tornare ad una fase di umanizzazione della natura se vogliamo dare ancora senso all’umano.
Per questo, mai come adesso, sarebbe necessario ritrovare la sensibilità cosmologica che era una volta patrimonio degli artisti.
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