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  Arte Ecologia Sostenibilità / 24.04 – 19.07.2009
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  Progettare per l’abbondanza in un mondo di scarsità percepita
Gunter Pauli
   
  On ne discute pas de gout
Proverbio francese
   
 

L’ideazione di un prodotto o di un processo è una prova di come il metodo creativo sappia coniugare funzionalità e pragmatismo con la bellezza. In un mercato di eccesso nell’offerta e flessione della domanda occorrono prodotti capaci di distinguersi allo sguardo del cliente. Il design è il mezzo. Il consumismo spinge chi produce al di là della mera forma fisica e della semplice scelta dei materiali. Oggi l’acquisto di un bene è promosso dall’immagine, lavorata con cura per indurre nella mente e nel cuore un preciso livello di soddisfazione che va ben oltre la soddisfazione di un bisogno materiale. La progettazione industriale si è trasformata da semplice flusso di processo articolato in pompe, pressione, pH e temperature in una ingegnosa miscela di fisica e chimica che generi di più e più in fretta a costi marginali sempre più bassi, ma troppo spesso a qualunque costo ambientale, tradotto nell’impronta ecologica.

In origine l’eco-design rimandava a prodotti e processi che limitavano gli effetti nocivi del moderno modello di produzione e consumo. La riduzione dell’impronta o a volte solo quella dell’impronta di carbonio divenne motore e movente del riprogettare. Ma l’ora è giunta di andare oltre la semplice riduzione del male e il controllo dei danni collaterali sostituendovi un fare virtuoso che generi effetti secondari positivi.


Aumento degli utili o effetti indesiderati?

Adottare buone pratiche limitando gli effetti indesiderati è più semplice a dirsi che a farsi e va visto perciò come scelta strategica. Tale scelta rappresenta uno scarto essenziale dell’idea stessa di progettazione. Si sa bene che in realtà il progettista deve far quadrare il cerchio laddove sempre più spesso le scelte finali siano determinate dai costi e dal sapersi adattare alla gestione della catena di fornitura. In un’epoca in cui le multinazionali sono costrette a cercare una posizione di dominanza in mercati di nicchia affinando con grande precisione le proprie attività primarie non è facile trovare argomenti a favore di un aumento della spesa anche se questo limiterebbe i danni ambientali. Anche quando il costo dei materiali fosse la principale ragione del drastico passaggio a una gestione severa della catena di fornitura. In una cultura come questa ogni attenzione si concentra sul raggiungimento di obiettivi molto specifici. Ciò spinge verso l’assoluta efficienza di ogni componente della filiera, il che, combinato con la rapidità di assemblaggio e distribuzione sul mercato, costringe progettisti e ingegneri a integrare tutto in una solida unità. Non resta il tempo di progettare per il disassemblaggio o di progettare un sistema a cascata che consenta di integrare in altri prodotti i flussi di scarti o i componenti di fine vita. Gli ingegneri sanno come si assembla ma spesso non hanno indicazioni su come si disassembla. Perciò tutto quel che resta è considerato scarto.

Dai progettisti ci si aspetta che innovino e negli ultimi vent’anni un’enorme quantità di nuovi materiali, frutto delle conquiste della chimica, ha ampliato la gamma delle scelte oltre ogni immaginazione. Da un lato la standardizzazione orienta il processo di assemblaggio, dall’altro la diversità strabiliante e in continua crescita degli oltre 100.000 composti creati dalla chimica rende pressoché impossibile il recupero di componenti e ingredienti preziosi. Essa esercita inoltre una pressione tremenda sulle norme per la salute e la sicurezza che troppo spesso scoprono troppo tardi la nocività delle nuove molecole. La sostituzione dell’amianto con alogeni e bromuri, anch’essi noti cancerogeni, è emblematica. Forzata da tempi sempre più stretti, l’industria ha difficoltà a differire l’introduzione di nuove sostanze che migliorano le prestazioni, talvolta a rischio della sicurezza del consumatore. È importante notare come i progettisti non vengano mai informati e formati circa le norme su tossicità, salute e sicurezza, ma siano considerati piuttosto dei “miglioratori di prestazioni”. La competizione spinge al cambiamento rapido di ogni cosa trasformando tante risorse e sforzi ideativi in “steroidi” della macchina commerciale.

In questo “clima” è difficile attuare mutamenti di base nella progettazione di prodotti e processi. I progettisti dovranno conformarsi alla regola e l’ultima cosa che un responsabile di gestione della catena della fornitura vuole sentire è “un’altra buona idea”. In una tale realtà è più facile creare l’immagine e la forma di un prodotto anziché progettarne uno “nuovo”. In una tale realtà è più facile mettere depuratori sulle ciminiere o digestori di biogas negli allevamenti di suini per ridurre l’inquinamento atmosferico che non eliminarlo ridisegnando il processo, perché i gas di scarico prodotti (a prescindere dalla quantità) saranno consumati da un altro processo.

Il valore aggiunto creato dalla vendita di un oggetto si ricava dunque da “servizi” più che dalle materie prime e dal lavoro, per cui la dura realtà dei costi di produzione è diventata secondaria. Ciò non significa che il costo di metalli e combustibile non sia più cruciale, ma che il flusso di cassa e il margine derivanti dalle vendite sono sostanzialmente generati più da oggetti immateriali (come l’immagine) che non da beni tangibili. Da qui lo scarso rilievo dell’efficienza delle risorse per la maggior parte dei prodotti in commercio. Un normale orologio da 100 euro ha solo una decina di parti in movimento e le materie prime rappresentano una piccolo percentuale dei costi totali. L’orologio non è un’eccezione. È a fronte di questo scenario che il passaggio a un paradigma di progettazione ispirato alla bellezza e al design efficiente dei sistemi “naturali” comporta un fantastico scarto dalle linee del pensiero dominante.


L’obiettivo della progettazione: azzerare gli scarti

L’idea delle emissioni zero parte dalla semplice osservazione che le sole specie della terra capaci di produrre qualcosa di indesiderato da tutti sono gli esseri umani. Sorprende che con tutta la nostra intelligenza, la straordinaria raffinatezza di gestione just-in-time della qualità totale e della catena della fornitura, con un accesso mai visto prima d’ora nei tempi moderni alle materie prime e a molecole “progettate”, con tutto ciò insomma si stima che solo il 10 per cento scarso di tutti i materiali utilizzati “in ingresso” nella nostra società industriale si ritrova poi nel prodotto finale che consumiamo. Pensate, il 90% di tutto viene semplicemente sprecato, finisce tra i rifiuti, si riversa negli oceani o viene poi incenerito in fretta con il pretesto di recuperare energia. Negli USA il costo di smaltimento di questi sprechi è valutato intorno a mille miliardi di dollari l’anno, più del denaro necessario a tirare fuori dai guai le banche ogni anno!

Perciò la progettazione per il disassemblaggio va incoraggiata e gli sprechi vanno ridotti. Ma quel che è veramente necessario per rispondere ai crescenti bisogni di miliardi di cittadini, specie di quelli che solo da poco sono entrati a far parte delle classi medie, è la creazione di valore da ciò che oggi è considerato scarto. Intendiamoci, ogni processo produce degli scarti. Anzi, per dirla tutta se non c’è scarto non c’è vita. D’altro canto questo si traduce nel permesso “di sprecare gli scarti”. La razza umana si distingue dalle altre creature viventi per lo spreco degli scarti, mentre tutte le altre sono parte di una rete di cicli vitali in cui lo scarto di uno è nutrimento o fonte di energia per un altro, appartenente a un altro regno. È questo il primo principio che guida il progettista di sistemi.

L’uso del termine regno ci pone al centro della biologia. Lynn Margulis ha classificato brillantemente la vita sulla terra in cinque regni distinti, ciascuno con un impiego assai diverso della fisica, della chimica e della biologia, ma ognuno dei quali pratica matematiche non lineari. Non privo di importanza è il fatto che raramente ai progettisti venga insegnata la biologia, anche se in 3,8 miliardi di anni l’evoluzione ha prodotto milioni di specie le quali probabilmente hanno risolto ogni singolo problema di progettazione di prodotti e processi mai incontrato da chicchessia sulla faccia della Terra. Tutto ciò che non funzionava è oggi un fossile. Tutto ciò che ha funzionato è sopravvissuto e incorpora alcune delle soluzioni esclusive che la nostra società dei consumi farebbe volentieri sue. Non solo tutto ciò che funziona funziona bene, ma è tutto per definizione sostenibile. E dove si insegna la matematica non lineare?

La semplice osservazione di come un edelweiss delle Alpi o un frai lejón delle Ande si proteggono dai raggi ultravioletti offre sufficienti indizi a chi progetta indumenti o cosmetici per la protezione della pelle. Il modo in cui un fungo non ingerisce mai alimenti ma elabora le sostanze grezze esterne assimilando solo quelle buone nutrienti può suggerire nuove idee alle compagnie che estraggono minerali, gas e petrolio. Il modo in cui le alghe bloccano le comunicazioni tra batteri per proteggersi dalle malattie offre un semplice consiglio all’industria del farmaco che sta perdendo la guerra con i batteri in rapida mutazione a causa delle medicine mal progettate. Batteri, alghe, funghi, piante e animali hanno tutti il loro modo di crescere con ciò che è localmente disponibile. Noi a quanto pare ci basiamo sull’estrazione locale e il commercio globale. Pertanto il secondo principio che muove i progettisti di sistemi è: utilizza ciò che è localmente disponibile.

Sembra che dopo tanti anni di evoluzione quasi tutte le specie vivano in relativa abbondanza mentre i nostri economisti prosperano sulla logica della scarsità. Quanto è realistica la nostra definizione di scarsità quando il 90% di tutti i materiali che usiamo va sprecato? Se poi ci mettiamo anche il nostro modestissimo impiego delle fonti di energia rinnovabile non sorprende che il Club di Roma avesse predetto i “limiti allo sviluppo”. Come può una società perseguire la crescita e lo sviluppo con un modello di produzione e consumi basato sul flusso massiccio di sprechi? Prima o poi si finisce per sbattere la testa contro il muro. Se invece progettassimo un sistema che opera come fa il resto della natura allora le difficoltà di tanti concittadini vedrebbero finalmente una schiarita. E si potrebbe persino progettare l'eliminazione della povertà. Non sarebbe forse fantastico come scopo della vita di tanti aspiranti progettisti?

Dal progettare per la scarsità o la sufficienza al progettare per l’abbondanza

Lo scarto dalla scarsità all’abbondanza di risorse non è un appello a maggiori sprechi, ma quel che gli psicologi chiamano Aha Erlebnis o effetto sorpresa. Ciò potrebbe ispirare le prossime generazioni indicando loro di andare oltre il prodotto e il processo per immaginare, prefigurare un modo di rivolgersi al mondo con in mente un sistema anziché un singolo obiettivo. Il sistema si distingue dalle sue parti perché vale più della loro somma. Quel “più” si esprime in flussi di cassa o in soddisfazione dei consumatori. Si potrebbe esprimere anche come una drastica riduzione dell’impronta ambientale o come un migliore stato di salute e benessere. Potrebbe persino comportare tutto questo insieme. È misurabile e perciò soddisfa il principio di base di chi dirige e amministra: “ciò che non si può misurare non si può migliorare”.

Tutto potrebbe partire da una semplice tazza di caffè. Dopo il petrolio il caffè è il bene più commercialmente trattato e scambiato nel mondo. Produce occupazione per oltre 25 milioni di agricoltori di oltre cento paesi in Africa, America latina, Caraibi, Pacifico e Asia. Da Starbucks a Juan Valdez, dai cafè parigini ai bazaar dei paesi arabi tutti preparano il caffè attraverso un delicato processo che comprende la piantagione di un arbusto, il raccolto dei chicchi, la fermentazione, l’essiccazione, la tostatura, la macinatura e finalmente l’aggiunta di acqua bollente prima di servire. Di rado riflettiamo che la quantità di biomassa attualmente consumata per la gioia di una dose di caffeina raggiunge a malapena lo 0,2% della biomassa totale raccolta in fattoria: ben il 99,8% va sprecato

È incredibile che Kraft e Nestlé abbiano costruito degli imperi su un processo di produzione e consumo in cui un solo grammo su cinquecento va a finire nel nostro corpo. Questa sostanza ricca di caffeina stimola il nostro sistema nervoso. Per tale ragione i suoi scarti non si possono dare agli animali come nutrimento. Una mucca che ingerisse lo scarto di caffè ricco di fibra sarebbe talmente stressata dalla caffeina da non riuscire a produrre più una goccia di latte. Di conseguenza il caffè che avanza in tutto il mondo viene abbandonato come scarto. Stesso destino tocca al tè. Ha senso sprecare il caffè? Il mondo del caffè sta subendo una grande rivoluzione grazie alla progettazione di un sistema attorno alla biomassa.

Il punto non è progettare nuove confezioni che mantengano il caffè fresco più a lungo. E neppure progettare una nuova macchina per l’espresso. Non è questione di proiettare un’immagine che veicoli il potere della Lavazza. La vera sfida posta al progettista è come trasformare un processo che produce scarti tanto enormi in un processo altamente produttivo. Il progettista tradizionale non ha strumenti per guardare all’insieme in un’ottica nuova.


Collegare i gusti del consumatore all’attivismo ambientalista


Negli ultimi anni gli scarti di tè e caffè sono stati riconosciuti come potenziali salvatori delle foreste di querce in Cina. Sorpresi? La maggiore domanda di alimenti privi di colesterolo e acidi grassi ha ristretto le scelte a una dozzina di funghi tropicali ricchi di proteine e minerali traccia ma senza i tradizionali eccessi che mettono a rischio la nostra salute. Se orientarsi verso la proteina dei funghi è una buona scelta, qualcuno ha capito che un aumento della domanda porterebbe alla rapida distruzione delle foreste di querce della Cina. Le querce hanno il migliore legno duro, che trasformato in polvere rappresenta il sostrato ideale di funghi coltivati quali l’esotico shiitake (Lentinula edodes).

Il primo collegamento che emerge nel processo è che caffè e tè sono entrambi “legni duri”. I loro scarti sono un alimento base eccellente per i funghi tropicali. Meglio ancora: dal momento che i funghi ricavano energia dalla caffeina, convertita dai loro enzimi in fonte di nutrizione, il residuo dall’allevamento di funghi si arricchisce di aminoacidi essenziali trasformando così dei rifiuti in un sostituto ideale del grano. Ciò a sua volta riduce la domanda di granturco e di soia, tradizionale alimento degli animali, aumentando la disponibilità di nutrimento a base vegetale.

Questo è solo l’inizio della progettazione di un sistema: si parte da qualcosa che non ha valore, si individuano i danni collaterali che non hanno una soluzione ovvia, si trasforma tutto ciò in una catena virtuosa di conversioni efficienti in cui il risultato risponde a una richiesta immediata e l’effetto di sostituzione consente di chiarire e risolvere alcuni dei comportamenti più distruttivi, sia pure inconsapevoli, dell’umanità. Il taglio della quercia non è un atto di distruzione ma piuttosto un comportamento basato sull’ignoranza. Il progettista di sistemi trasforma l’ignoranza in una redditizia catena di valore.

Questa logica è stata estesa dal caffè alla frutta e alle verdure e a tutto ciò che consumiamo e che contribuisce a sprecare risorse rare e ricche di energia quali l’alluminio. L’industria ha speso miliardi nello sviluppo di nuovi sistemi di confezionamento. Un tempo le confezioni di vetro erano lo standard del mercato. Ma da molti anni sono state sostituite dalla plastica. Poi la plastica è stata sostituita da contenitori multistrato di aspetto luccicante e di ovvia praticità con uno spreco di risorse mai visto prima. Si è valutato che i prodotti multistrato rappresentano circa il 10 per cento di tutti i rifiuti che finiscono nelle discariche e dai quali non si recupera niente di rilevante.

L’idea di combinare diversi materiali in un prodotto di servizio è diventata la norma nella progettazione. È questa la brillante innovazione in cui speravamo? A prima vista il vantaggio è ovvio. La sofisticata trasformazione di una sottile pellicola di carta, plastica e alluminio in contenitori per liquidi ha rivoluzionato il mondo delle confezioni. Prodotti freschi quali il latte e i succhi che prima richiedevano una catena del freddo per conservarsi più a lungo sono stati sottratti da questa filiera ad alto dispendio energetico facendo risparmiare in apparenza sui costi dei carburanti lungo i canali della distribuzione. Oggi l’uso dell’alluminio è diventato la norma per il confezionamento di tutte le sostanze che devono mantenere la propria freschezza. L’unica controindicazione di questa soluzione è che il metallo è considerato scarto. Peggio ancora, il polietilene a bassa densità per alimenti è un altro materiale usa e getta che contribuisce a uno dei più incredibili flussi di rifiuti mai visti nel mondo moderno. Il pannolino che combina più tipi di plastica, fluff di cellulosa e cartoncino in un oggetto usa e getta è un altro esempio di progettazione multi-strato. Il fluff comporta la coltivazione di alberi di pino geneticamente modificati. I tre tipi di plastica (PVC, PE e PET) non si possono separare e così l’unica possibilità è la discarica (o l’inceneritore).

Il progettista di sistemi valuterà le scelte di sostituzione dei componenti, verificherà le combinazioni alternative, considererà le opzioni biologiche di disassemblaggio, comprenderà il potere della fisica e progetterà soluzioni di riassemblaggio. Contrariamente al riciclaggio tradizionale che punta a convertire le bottiglie di PET di nuovo in PET (o altra bottiglia o tessuto) ritrasformando i pannolini in pannolini il progettista di sistema cerca collegamenti multipli esterni all’attività primaria. Ciò si ispira ai sistemi naturali dove nessuno “mangia i propri rifiuti”. Ciò che è rifiuto per uno è alimento o fonte di energia per qualcun altro, che non fa mai parte della stessa famiglia. Questo consente anche di separare e integrare senza uso eccessivo di energia. Ecco un terzo salutare principio guida per i progettisti di sistemi. Si apre il campo ai collegamenti creativi, in cui uno riesce a immaginare quale potrebbe essere la prossima componente della catena. A volte i risultati sono sorprendenti come nel caso di quegli studenti cui fu chiesto come compito di progettazione di calcolare il valore dei tre milioni di tonnellate di breccia prodotta nella costruzione del più grande tunnel d’Europa attraverso le Alpi tra Italia e Francia.


Dagli scarti di costruzione alla fertilità del terreno

La progettazione dei sistemi non si limita a prodotti e processi, ma consente di ottenere nelle attività dell’uomo vantaggi economici inimmaginabili. La costruzione dei 40 chilometri di tunnel del Frejus ha previsto lo smaltimento della breccia. Il calcolo si è basato sul prezzo (noto) per camion da 40 tonnellate. Le compagnie di trasporti cercheranno il sito più vicino per lo smaltimento, anche se ciò comporterà il riempimento di intere valli con materiali indesiderati. I recenti studi dei progettisti hanno rivelato che una porzione importante delle pietre e delle rocce estratte dalle montagne è basalto. Gli ingegneri stradali usano il basalto come base per l’asfalto. Tuttavia i geologi e gli esperti del suolo, posto che non ci sono molti progettisti con una preparazione accademica e una laurea in questo settore, sottolineeranno ben presto che il basalto è uno dei principali componenti costitutivi del soprassuolo.

Il progettista di sistemi non cerca solo collegamenti tra ciò che è noto, il progettista di sistemi è la vera espressione di quella professione multi-disciplinare tanto necessaria in una società in cui gli esperti dettano legge. Quando lo strato superficiale del suolo si erode diminuisce la capacità di trattenere la pioggia e aumentano le inondazioni. Chiunque nell’Italia del nord sa come finirebbe, dal momento che qui le inondazioni gravi e improvvise sono la norma più che l’eccezione. La risposta tipica alle inondazioni frequenti sono i sistemi di gestione delle acque con dighe e chiuse, costose opere di ingegneria che possono ridurre i rischi ma non eliminano di certo la causa del problema: l’erosione del soprassuolo.

Il nuovo tunnel tra Francia e Italia perciò dovrebbe essere visto come un intervento chirurgico che riduce la pressione sul trasporto che unisce l’Europa. Questo d’altro canto rappresenta una possibilità unica di reintegrare il soprassuolo del bacino del Po se sulle terre agricole venisse distribuito basalto fino. La proposta di spargere un millimetro di basalto sulle risaie indubbiamente ha catturato l’attenzione, che non è necessariamente un’attenzione favorevole. Ma le esperienze sul campo in ogni parte del mondo hanno dimostrato scientificamente che il basalto fornisce le sostanze nutrienti necessarie ai batteri per creare microforme di vita che rendono a loro volta disponibile una gran quantità di magnesio, di cui il basalto è molto ricco. Il magnesio è l’atomo centrale della molecola della clorofilla. Così una fornitura fresca stimola la crescita delle piante e il successivo ciclo di nutrienti, dai batteri alle micro-alghe ai funghi, reintegra il soprassuolo a una velocità di un millimetro l’anno o di un centimetro ogni dieci anni. Quanta pioggia può essere trattenuta da un centimetro di soprassuolo in più? Quante dighe si possono evitare? Quanta irrigazione si può risparmiare? Qual è il bilancio energetico?

Il progettista di sistemi si pone una semplice domanda: “Chi ha bisogno di basalto?” e le diverse risposte portano a ulteriori domande fino a che la ripetizione di domande e possibili risposte porta a una rete di possibilità tra le quali il progettista farà le sue scelte analogamente al modo in cui le specie si sono trasformate nei millenni di evoluzione. Il sistema che ne emerge non è rigido ma flessibile. Niente è definito e costante, tutto è adattivo. Cascate e cicli non sono chiusi ma aperti. Il vicolo cieco cui può portare un difetto semplicemente stimola un cambio di strada mentre gli obiettivi generali si mantengono: Tutto viene riutilizzato.


La prossima generazione di progettisti

La progettazione di sistemi è ancora allo stadio infantile. Ci vorranno decenni prima che una nuova generazione di progettisti trasformi questa ricerca di connessioni in una normale attività consolidata. Ci vorrà tempo e non sarà facile finché il nostro sistema di istruzione premierà la specializzazione. I progettisti, come gli architetti, sono sempre stati polivalenti, informati su molti argomenti, abituati a navigare attraverso i temi più diversi. Va da sé che l’unica via percorribile passa per la dimostrazione continua, caso dopo caso, che la progettazione di sistemi è prima di tutto il metodo ideale per “fare di più con quello che si ha”.

Per questo la progettazione di sistemi non è solo un insieme di modi e mezzi per commercializzare più in fretta prodotti e servizi più economici, ma una componente essenziale di un nuovo modello economico che va al di dà di ciò che i progettisti potevano pensare di raggiungere.

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